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Coffee Break

Strumenti di lavoro

Antonino Saggio

Siamo andati per quattro mesi in una landa vuota (o quasi) di libri. In questo periodo, e nelle occasioni più disparate, abbiamo letto in lungo e in largo l'Enciclopedia dell'Architettura Garzanti, incrociando i fili, vagando per la storia dell'architettura di paesi lontani, studiando i tipi edilizi o le tecniche costruttive, scoprendo nomi o termini sconosciuti e confrontando le cose che pensavamo di sapere con quelle che nella eag vengono riportate.



L'inizio era stato agrodolce. La buona notizia era che anche l'architettura entrava finalmente nella serie delle garzantine. Da molti anni era chiara l'utilità di queste compatte enciclopedie tematiche. Come non ricordare, per esempio, quella di geografia? Vi erano i dati, le informazioni, le statistiche di tutti i paesi del mondo e si poteva viaggiare. Negli anni la serie crebbe con l'enciclopedia della filosofia e poi quella, tutta a colori, dell'arte, e quella del cinema e quella della letteratura e altre ancora. Di volta in volta si poteva controllare un'informazione, avere un quadro sintetico su una problematica, chiarirsi dubbi su un argomento di cui non si è specialisti. Ma l'arrivo della garzantina di architettura, che funzionerà egregiamente per uno studioso di lettere o di arte, è percepito da un architetto in maniera diversa: penetra in un territorio già arato e appare dopo l'Enciclopedia Universale dell'Arte, dopo il Dizionario di Architettura e Urbanistica, dopo i magnifici strumenti americani come l'International Dictionary of Architects o il Contemporary Architects. Anche il fatto di essere in formato tascabile, non è una novità assoluta perché si aggiunge al lavoro per la Penguin di Nikolaus Pevsner e a quello ricco di tavole a colori tradotto dal tedesco dalla Hoepli.

Certo l'eag ha il vantaggio di essere recente e di essere prodotta per il mercato (e la cultura) italiana da una équipe molto qualificata di studiosi, ma se si hanno a disposizione altri strumenti è facile snobbarla. A confronto della documentazione fotografica di Pevsner (soprattutto nell'edizione tradotta e ampliata per Einaudi da Renato Pedio) quella della eag concentrata in appena 120 pagine è scarsa. La decisione di avere un saggio bibliografico unico, invece che un rimando in ciascuna voce ai testi chiave, appare poco convincente, infine in molte voci dedicate agli architetti contemporanei appare sproporzionato il rapporto tra l'elenco delle opere citate e la delineazione dei tratti significativi di ciascuna figura. Nelle mille pagine esistono anche alcune carenze ed errori (come la scheda su Gordon Bunshaft in cui né si cita né si rimanda a Skidmore Owings & Merrill, firm dove ha prodotto le sue opere; in un altro caso si dà per vivente un architetto scomparso da anni; nella voce "Architettura di regime", Giò Ponti figura quale fondatore del Movimento Italiano Architettura Razionale, cosa che non fu). Certo, spesso basta incrociare le informazioni per trovare l'incongruità.

Ma dopo ore e ore con l'eag, i pregi progressivamente prendono il sopravvento. Molte schede dedicate ai protagonisti sono lucide e penetranti e ricorrono alla strutturazione convincente di usare la citazione di luogo e data di un'opera non solo come pura informazione ma per veicolare un concetto, una tesi, un modo di fare. Le voci sui diversi tipi edilizi (museo, scuola, teatro, biblioteca eccetera) sono ottime sia nel tracciare l'evoluzione di ciascun tipo che nell'indicare i dati fondamentali nella progettazione odierna. Ben fatte sono le voci costruttive, (che non sono solo "tecniche" ma di nuovo inquadrano storicamente il problema) per non citare l'aspetto più propriamente di dizionario con la presenza di un numero elevato di termini (da pluteo a estípite a decine di altri) resi chiari al lettore, spesso con l'aiuto di disegni.

Il saggio bibliografico, che all'inizio aveva creato perplessità, alla fine viene accettato quale contributo personalizzato "dei libri da salvare per l'eag", le sessanta fitte pagine dedicate alla Storia dell'architettura, "un libro nel libro", sono stimolanti e un utile base per ritornare o per cominciare. Le foto, benché poche, di grande qualità e suggestione.

Così, alla fine, abbiamo imparato ad apprezzare l'eag. Molti studenti dovrebbero imparare ad usarla, e gli specialisti, in situazioni d'emergenza, vi possono senz'altro ricorrere. Se a un novello Robinson-Architetto dovessimo consigliare solo una delle tre enciclopedie tascabili oggi nel mercato diremmo: porta con te la Hoepli se devi insegnare un corso introduttivo di storia (per le belle tavole a colori), prendi la Einaudi-Penguin se vuoi approfondire la storia dell'architettura (per la quantità del materiale fotografico e il numero di voci), prendi la Garzantina se ti interessa anche progettare e quindi studiare la costruzione e i tipi edilizi. Senza dimenticare che l'eag è l'ultima e la più aggiornata. Certo, non ha ancora la perfezione del Victorinox svizzero che con le sue lame risolve decine di problemi quotidiani, ma è sulla buona strada.

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A Roma Italiana, Piazza San Pietro, La strada nel palazzo e Forma e avvenimento alla produzione di Massimo Birindelli si aggiunge ora questo volume che ha le simmetrie irregolari come centro tematico. Il titolo del volume -Ordine apparente- e la sua struttura è quella del saggio specialistico. Nella prima parte si definisce la nozione di simmetria irregolare attraverso una trattazione che mette a fuoco i due parametri di simmetria apparente (la simmetria di "quegli assiemi che non permettono di rilevare, in termini strettamente geometrici, alcuna simmetria, e nei quali però le differenze rispetto a una simmetria rigorosa sono relativamente piccole") e di simmetria virtuale (la simmetria di "un assieme nel quale il discostarsi da una simmetria bilaterale rigorosa è dovuto a precise e ben visibili differenze (...), ma nel quale tuttavia c'è ancora modo di riconoscere equivalenze e corrispondenze molto evidenti"). Dopo aver trattato altri tipi di simmetrie irregolari (quelle nelle quali l'oggetto architettonico si presenta intenzionalmente deformato con parti aggiunte o omesse), Birindelli riprende e approfondisce la classificazione di Hermann Weyl sulle simmetrie rotatorie e traslatorie sia nel loro presentarsi canonico sia nel loro presentarsi irregolare.



Mentre la prima parte del volume ha la forma di una trattazione sistematica con un inizio e una fine, la seconda è una serie di episodi, una lista aperta di pezzi staccati in ognuno dei quali una o più architetture vengono osservate seguendo le categorie di analisi messe a fuoco. Il Foro di Nerva, gli Uffizi, la piazza centrale di Zagarolo, Santa Maria della Pace, piazza del Popolo sono analizzati come esempi di intenzionali alterazioni della simmetria. Osservazioni sulle chiesa di Sant'Eusebio, di San Claudio dei Borgognoni, di Santa Caterina della Rota, di Santa Maria dell'Anima e su una serie di porte di palazzi signorili o di edilizia di base sono raccolti nella categoria dell'obliquo. A Palazzo Massimo, all'Assunta del Bernini, al progetto di Juvarra per la sacrestia di San Pietro sono dedicati tre capitoli del libro che si completa con gli indispensabili indici per luoghi e soggetti, che una editoria spesso disattenta tende sempre più a omettere, e da grafici e fotografie in gran parte dell'autore.

Sin qui il contenuto, appunto apparente, del libro e il suo valore come contributo scientifico per quegli specialisti che hanno il compito di lavorare sulla storia degli edifici con strumenti sempre più appuntiti: le simmetrie irregolari che Birindelli mette a fuoco rappresentano uno strumento la cui efficacia è proporzionale alla parzialità e unilateralità con cui il tema viene affrontato.

Ma l'analisi delle simmetrie irregolari nelle mani di questo autore non è solo uno strumento comparativo e classificatorio di diretto ausilio all'analisi storica e da affiancare all'indagine tipologica e stilistica. Ordine apparente -così come altri libri e scritti di Birindelli- pur rispondendo ai canoni della ricerca storica, rivela l'anima di un progettista che si rivolge ad altri progettisti.

Gli scritti di Birindelli -soprattutto quando l'autore si sofferma sull'analisi di un singolo episodio edilizio come nell'articolo su piazza di Spagna nel numero scorso di questa rivista o negli esempi di Santa Maria in Campitelli o dell'Assunta di Bernini in Ordine apparente- sono costruiti in tre parti: l'individuazione del problema e del quesito cui l'analisi deve rispondere rappresenta la breve introduzione, l'elencazione puntuale e articolata di notazioni e osservazioni apparentemente secondarie costituisce il corpo esteso dello scritto, la soluzione del quesito posto all'inizio attraverso una concatenazione questa volta fortemente consequenziale delle informazioni raccolte nella parte centrale conclude lo scritto. (Spesso una sezione sulle "censure" storiografiche è inserita in un punto variabile della trattazione e ne costituisce una rimarchevole appendice).

Perchè ci siamo soffermati su questa struttura? I testi di Birindelli avviluppano il lettore nella loro interna coerenza: chi legge è preso dal mistero che si enuncia inizialmente, è disposto pazientemente a immergersi nel corpo del racconto pur di avere la soluzione finale. L'analogia -evidente- con la struttura della detective story è strumentale a mantenere vivo l'interesse della lettura, ma non solo di piacere per la costruzione intellettuale del racconto si tratta. I testi di Birindelli -da cui Ordine Apparente non si discosta- sono portatori di un messaggio che assume forza persuasiva dal fatto di non essere enunciato ma di essere provato.

L'edificio in questi scritti non è visto come oggetto singolo, ma come processo di modificazione dell'ambiente fisico: come deformazione della struttura pura e simmetrica dell'oggetto per adattarla alle forze presenti nel luogo. Le simmetrie irregolari diventano allora per questo autore, non gli oggetti di una attenzione capziosa e ininfluente, ma gli indizi su cui scavare e ragionare perché proprio in queste apparentemente minimali deformazioni, passa la volontà più profonda dell'architetto: la necessità di tradire la simmetria dell'oggetto per fargli assumere una più alta coerenza.

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Dopo il Movimento moderno. L'architettura della seconda metà del Novecento, è un interessante misto tra una storia dell'architettura e una storia del pensiero sull'architettura. Joseph Montaner ripercorre gli ultimi cinquanta anni sostituendo alle abituali etichette usate dei critici di mestiere quella che chiama "posizione architettonica": un modo di progettare e, insieme, un atteggiamento culturale. Questa categoria interpretativa consente di scavare nel rapporto tra teorie e scelte concrete e di coniugare riflessioni sul "perché" delle scelte a quelle sul "come". Nato evolvendo un corpus di lezioni per un Dottorato in progettazione, il testo si propone oggi come un utile punto di riferimento per motivare e orientare le scelte di un architetto. Non dovrebbe mancare dallo scaffale di chi si occupa di Teorie della progettazione contemporanea.

Il volume si divide in tre grandi parti. La prima, "Continuità o crisi", arriva sino al 1965; "La condizione postmoderna" copre l'arco temporale sino al 1977, infine "La dispersione delle posizioni architettoniche" arriva sino al 1992. Ogni parte è suddivisa in una serie di capitoli, ciascuno concluso da una nota. Non si tratta di una conclusione, ma di un ulteriore approfondimento e di una riapertura problematica che è spesso condotta, pur nei limiti di un quadro sintetico, con grande chiarezza e rigore. Per esempio proprio nel primo capitolo questa nota è dedicata alla differenza tra l'ideale astratto del Modulor lecorbusieriano e le figure graffite e deformi di Dubuffet: "A ben vedere si tratta di una difesa dell' "uomo comune", concreto, autentico, reale ed individuale nei confronti dell'uomo universale". Una delle ultime, dal titolo "Pensiero e architettura", compie un excursus sui rapporti tra esistenzialismo, strutturalismo post-strutturalismo, decostruzione e esperienze di progettazione.



La diffusione del metodo internazionale nell'immediato dopoguerra, con cui Montaner inizia la trattazione, si apre anche all'America Latina e all'Africa per farci capire come Le Corbusier, Mies o Wright influenzarono architetti come Antoni Castellana, Costa, Niemeyer o Candilis. Nel capitolo dedicato agli architetti della "Terza generazione" (cioè nati nell'arco di una diecina di anni attorno al 1915) emerge Jørn Utzon, cui Montaner dedica una approfondita attenzione. Si prosegue con un capitolo dedicato alle esperienze britanniche e al nesso tra nuove città, megastrutture e linguaggio brutalista. Nel "Nuovo empirismo nordico" vengono delineati i tratti anti-dogmatici volti a umanizzare le teorie moderniste ma una parte di rilievo rispetto al tema della continuità problematica degli anni Cinquanta è destinata alla cultura italiana. L'autore si sofferma su tre figure: Zevi, Rogers e Argan. La coscienza delle preesistenze ambientali, il tema del museo e dei centri antichi, la specificità della nostra ricerca storica nell'incrocio tra formalismo di ascendenza viennese e marxismo in Argan o ferma volontà di orientamento culturale in Zevi, sono messe con precisione in evidenza.

La seconda parte si concentra sul prevalere dell'idea di crisi rispetto a quella di continuità. Vi si tratta della architettura come espressione tecnologica, della ricerca della razionalità (soprattutto la ricerca tipologica di Muratori, quella di Aldo Rossi sulla città sino ad alcune esperienze di recupero urbano, come quelle di Bologna o di Urbino). In altri capitoli si tratta dell'architettura "Come sistema comunicativo" (vedi Venturi) e poi del nuovo formalismo autoreferenziale dei NY Five. Quello che più colpisce è però la presenza assieme a questi filoni - in fondo ben studiati - del capitolo "Architettura e antropologia". Vi si affronta l'analisi delle aggregazioni spontanee del Terzo mondo, gli intrecci con l'Arte povera e la Land art, alcune ricerche (come quelle di John Habraken) in genere conosciute solo dagli specialisti di Housing e si ripercorre infine filosofia e metodo di Alexander, Erskine, Kroll. Avere in un medesimo studio, affrontanti con analogo rigore e competenza, la "Risposta alla crisi" di Rossi, e questa, del tutto opposta, tendenza "antropologica" è un grande merito: la conoscenza di alternative facilita l'adesione e l'inserimento di ciascuno in un solco già scavato.



La terza parte tratta delle dispersione delle posizioni architettoniche. Disinnescata la trappola di "ismi" ambigui, l'autore procede con un'analisi fredda e distaccata delle varie posizioni che si sono succedute, anzi spesso intrecciate tra loro, negli ultimi lustri. Il revival storicistico, quello che ricorda come il "Contestualismo culturale", il fronte de "La versatilità dell'eclettismo". Racchiude successivamente sotto la dicitura "L'opera d'arte come paradigma dell'architettura" il lavoro dei Site, di Gehry, dei Coop Himmelb(l)au distinguendolo dalla "Nuova astrazione formale" di Libeskind, Oma, Eisenman. Conclude con il momento dell'alta tecnologia. Solo alla fine, e molto succintamente, un punto di vista personale è presentato. Permanenza, equilibrio, semplicità e rigore sono i caratteri che egli vede associati alla buona architettura. In un mondo oltremodo ricco di stimoli, sostiene, possono prendere "il sopravvento i pericolosi meccanismi transculturali, di fagocitazione acritica provenienti dai contesi più diversi". Pericoli che possono essere superati con uno sforzo critico per far emergere, con ancora maggiore complessità, le ragioni più vive e più profonde dell'architettura di oggi. Per capirle, come questo libro ci pare voler dire, la riflessione sul mondo e la società non può mai essere separata dalle scelte della progettazione.

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La Facoltà di Architettura, istituita nel 1920, ha rappresentato, come spesso avviene nel nostro paese, un progetto molto ambizioso. Il nuovo professionista doveva acquisire gli strumenti per operare in tutti i campi (dall'Urbanistica al Restauro, dal Calcolo all'Arredo), ma la sintesi tra città ed edificio, tra preesistenze e nuovo, tra funzione e costruzione, tra organizzazione distributiva e arte era compito della Composizione, materia che accompagnava lo studente per tutti i cinque anni del corso. In Italia la Composizione architettonica, più che a uomini di scuola, era affidata a solidi (e a volte molto colti) professionisti. Al cambio generazionale del corpo docente avvenuto a partire dagli anni Cinquanta, corrispose una modifica di contenuti, ma il sapere compositivo più che su un vero e proprio corpus teorico rimaneva basato sull'esperienza diretta di ciascun docente-architetto e sulla ricerca autonoma del discente. Da questo contesto didattico oscillante tra empirismo e autodidattismo deriva il fatto che in Italia, pur in una ampia produzione pubblicistica sull'architettura, si contano sulla dita di una mano i contributi specifici sul come lavorare effettivamente allo sviluppo del progetto. È questo "come", invece, lo scopo di La costruzione del progetto architettonico (in cui al termine costruzione, come facevano gli architetti russi rivoluzionari, si attribuisce un significato che travalica la tettonica per abbracciare il metodo, la composizione e il significato, anche derivato dalla linguistica, di "struttura").



Se il primo dato del lavoro di Piero Ostilio Rossi è occupare uno spazio ancora poco praticato, il secondo consiste nel fatto che il libro ara il terreno più duro. Non si tratta infatti di una "Guida per progettare" strutturata per programmi d'uso o dal punto di vista costruttivo o impiantistico ma l'autore affronta il problema specifico della ricerca estetica del progetto. È un terreno, dicevamo, difficile e allo stesso tempo pericoloso perché espone il libro da una parte alle spallucce dei ricercatori "puri" delle discipline scientifiche o storiche e dall'altra alle critiche di progettisti-architetti che hanno idee diverse anche se pochissime volte rese, come in questo caso, chiare, trasmissibili, esplicite.



I primi approcci al progetto, L'idea sintetica, Per una grammatica della fantasia, Lo sviluppo del progetto, Questioni di "venustas", Strutture e materiali sono i sei capitoli che ripercorrono l'iter del progettare. Per ciascuna fase il ragionamento si svolge su più linee intersecanti: da una parte vi è una mirata selezione di alcune idee portanti condotta anche citando altri autori, dall'altra una messa a fuoco dei quesiti fondamentali e del "modo" di procedere, infine una esemplificazione affidata al corpo delle illustrazioni e all'analisi di realizzazioni significative di questo secolo (nei primi capitoli attraverso l'autorità dei grandissimi, negli ultimi a progettisti contemporanei). Il linguaggio è chiaro ed elegante e strada facendo viene chiarito il senso di alcuni termini che spesso vengono confusi l'uno con l'altro (luogo, sito e contesto per esempio, oppure territorio, spazio racchiuso, soglia).

Il fine è "parlare chiaro, raccontando a tutti non solo l'uso cui [gli edifici] sono destinati, ma anche il modo con cui sono costruiti, l'idea tipologica e spaziale che li sottende e il modo attraverso il quale essi interpretano, e quindi modificano, il sito nel quale sono collocati". Apprezziamo molto anche i suggerimenti pratici che, senza cadere in una manualistica scolastica, l'autore a volte ricorda: quando adoperare una scala di rappresentazione invece di un'altra, quando privilegiare la pianta e quando la sezione, quando la mano libera sul foglio deve vincere sulla riga a T o sul computer, quando la prospettiva o il plastico.

Ciascun lettore in questo ricco testo troverà molte cose che lo interesseranno: lo studente una utile impalcatura complessiva, lo studioso e l'architetto alcune aree che magari aveva sottovalutato. A chi scrive hanno colpito due capitoli. In Per una grammatica della fantasia, Rossi (sulla scorta del libro di Gianni Rodari e del lavoro dei linguisti strutturali), affronta tecniche per stimolare l'invenzione e la creatività. Le figure retoriche di Straniamento, Metonimia e Metafora, vengono così a far parte di un bagaglio di tecniche che possono essere (con un equilibrio che l'autore non si stanca di ricordare e una cura alla transfigurazione che eviti ogni meccanicismo coscientemente adoperate.



In Questioni di venustas, si compie una operazione didatticamente necessaria. L'insegnamento di impronta funzionalista ha teso a cancellare molte tecniche di progettazione del passato Beaux Arts. Per affermare un progettare basato sul fluire tra interno ed esterno, sulla trasparenza, su sistemi costruttivi per punti e aggetti, su un rapporto organico con il sito, su un linguaggio basato sull'astrazione invece che sulla figurazione si dovevano accantonare le impostazioni tese alla simmetria, alla proporzione, al numero in chiave esoterica, alla divina proporzione. Ma da questo azzeramento sono nate generazioni di architetti (non i maestri del moderno che da Le Corbusier a Mies, a Terragni, a Wright ben le conoscevano) che non possiedono più alcuni strumenti per pensare alla forma. È impossibile smontare la ruota di una macchina con un martello pneumatico, basta una chiave inglese. Per risolvere alcuni problemi del progettare (il ritmo, la proporzione, la composizione dei pieni e dei vuoti e altri) sono proprio quei "vecchi" strumenti tra i più utili. L'autore li ricorda uno per uno, ne spiega il funzionamento, ne circoscrive l'uso e ci fa comprendere che conoscerli ci può essere utile, disconoscerli solo ignoranti.

Antonino Saggio

[29dec2000]

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