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"Dobbiamo lottare per le idee, non per le persone che hanno importanza
relativa". Forse questa frase, può essere un inizio per riflettere sulla figura di Bruno Zevi, scomparso improvvisamente a Roma la
mattina del 9 gennaio 2000. Avrebbe compiuto 82 anni dopo pochi giorni. Come Carlo Azeglio Ciampi è stato membro del Partito d'azione e
ha cercato una via di rigore, di onestà, di coraggio "individuale". Al di là delle ideologie, al di là dei partiti, al di là
delle fedi laiche o religiose è l'integrità e il coraggio dell'individuo la vera etica. Il motore di Zevi per più di sessanta anni di
accanito lavoro è stata la costruzione di una coscienza di libertà, una conquista che si doveva compiere costantemente, giorno per
giorno. E sempre rinnovare con fermezza. Ecco perché, almeno ai più vicini, Zevi ricordava le idee di Aldo Capitini, il pedagogo e
filosofo di cui si è celebrato il centenario della nascita.
Zevi quando doveva tracciare un profilo di sé, anche se solo di poche
righe, scriveva sempre "seguace di Carlo Rosselli e membro del Partito d'azione". Se aveva più spazio ricordava la direzione in
America dei Quaderni Italiani, e la partecipazione da Londra all'organizzazione della resistenza.
Quando nel 44 tornò in Italia, era stato costretto a lasciarla nel 1939 per le leggi
razziali, affiancò all'attività politica quella culturale. In America, dove si era laureato a Harvard con il rispettato ma mai amato
Walter Gropius, aveva scoperto con Wright il valore della libertà dell'architettura. L'architettura dà significato alla società. Una
società democratica e libera deve avere un'architettura altrettanto aperta, libera, creativa. L'una cosa aiuta l'altra. Non c'è valore
civile senza architettura libera e non ci può essere vera architettura se non come anelito di libertà.
Ecco perché tra le cose
che sono state scritte su Zevi, una delle più giuste è la menzione alla sua elezione a Fellow dell'American Institute of Architects
"Appassionato e tenace assertore dell'integrazione tra valori democratici e concezioni architettoniche, egli ha rilevato come gli
edifici riflettano l'anima di una società".
Con Zevi la cultura
italiana perde un intellettuale che appartiene alla sua tradizione più nobile e più alta. Quella che non vede mai il fare disciplinare
come separato ma che al contrario sente che qualunque aspetto del proprio lavoro è immerso integralmente nella storia e nella società.
Per Zevi parlare e studiare l'architettura (o l'arte o la musica o la scienza o il pensiero) non era mai scisso dalla sua azione di uomo,
dai suoi valori di cittadino.
Nei primi anni della Ricostruzione italiana il suo contributo è travolgente. Fonda l'Apao
(Associazione per l'architettura organica) cenacolo di lotte e dibattiti, di speranze politiche e architettoniche che si sono travasate
nella ricostruzione italiana. Capeggia l'azione dei giovani architetti romani per fermare la costruzione "archi e colonne" della
testata della Stazione Termini e riesce a far bandire un concorso in cui si afferma una soluzione tra le più belle e vibranti della
nostra architettura del dopoguerra, contemporaneamente con Mario Ridolfi e Pier Luigi Nervi partecipa alla stesura del Manuale
dell'Architetto, indispensabile strumento di aggiornamento professionale per i progettisti italiani. Co-dirige "Metron", che
vedrà importanti scritti dei più anziani Luigi Piccinato e Giuseppe Samonà, nel 1955 fonda "L'architettura" e tiene una
rubrica su "L'Espresso" da cui affianca settimanalmente le battaglie architettoniche e urbanistiche che conduce anche attraverso
l'InArch (Istituto nazionale di architettura) e l'Inu (Istituto nazionale di urbanistica) di Adriano Olivetti.
Via via negli anni la sua azione civile punteggia l'azione critica e didattica. Contro la
legge truffa nel 1953, a fianco della contestazione studentesca nel '68 ma anche attento, sino al rischio personale, nel non svendere la
cultura. È tra i primi a sentire il bisogno di usare la libertà dell'etere come strumento di comunicazione delle idee e fonda nel 1976
Teleroma 56. Si incontra e poi scontra con il Partito socialista all'inizio degli anni Ottanta, diventa presidente e deputato radicale, ma
quando deve scegliere, posto in minoranza sulla adesione al raggruppamento per il Parlamento europeo, dice l'ennesimo "No".
Zevi
è stato anche fermamente un uomo "contro", un uomo dei no. Formatosi negli anni dell'antifascismo conosceva se stesso solo
contro la barbarie, contro la guerra, contro la dittatura, contro l'olocausto, contro l'architettura come espressione di sistemi, di
ideologie, di apparati.
Questi tratti fondativi della sua personalità, sono noti agli architetti, ai lettori, agli studenti che lo
hanno avuto per trent'anni professore prima allo IUAV di Venezia e poi a La Sapienza di Roma. Del suo lavoro di studioso vanno ricordate
almeno cinque tappe fondamentali.
A ventisette anni ha rilevato in un paese chiuso in se stesso e sconfitto, la lezione di Wright.
Verso un'architettura organica (1945) profetizzava una rivoluzione nella concezione del rapporto architettura-natura-uomo che solo Edoardo
Persico aveva intuito. La seconda acquisizione è contenuta in Saper veder l'architettura (1948) tradotto in venti e più lingue.
L'architettura è ricondotta al suo centro: la creazione dello spazio, la capacità di plasmare il vuoto. L'idea era già presente negli
scritti di Alois Riegl dell'inizio del secolo, ma è Zevi che ha fatto dello spazio la categoria interpretativa fondamentale della critica
architettonica.
A trentadue anni dà alle stampe la prima Storia dell'architettura moderna (1950, ampliata nel 1975 e poi nel
1996). La chiave di lettura è anti Giedion: l'architettura moderna non è solo la linea cubismo-razionalismo, ma anche personalità
divergenti: Olbrich o Gaudì, Mendelsohn o Scharoun e, "nella scia dell'impressionismo", Wright. La ricchezza delle
informazioni, l'analisi delle opere rivolta al processo formativo, l'acutezza del giudizio hanno formato generazioni di architetti. A
questa opera seguono approfondimenti sul Neoplasticismo, su Mendelsohn, su Terragni, su Wright.
Negli anni Sessanta si afferma la
quarta conquista. Sulla scia degli studi su Biagio Rossetti, Michelangelo, Palladio, Borromini (e poi Brunelleschi), Zevi compie una
lettura mirata del passato che viene interpretato con le stesse categorie spaziali che ha scoperto nel contemporaneo. La formula è quella
della critica operativa, ma con più precisione si tratta di critica storica: solo attraverso la conoscenza storica "si può
dimostrare che Michelangelo e Borromini hanno da offrire più di Gropius o Aalto perché, nel loro contesto linguistico, furono più
coraggiosi e inventivi".
Nel 1973, l'ultima tappa. Il linguaggio moderno dell'architettura condensa tutto ciò in cui crede.
Un anticodice stabilisce una serie di negazioni (no al monumentalismo, no alla simmetria) e i principi, non le regole, delle sette
invarianti. Inventario di contenuti e funzioni, Asimmetria e dissonanze, Tridimensionalità anti-prospettica, Decomposizione
quadri-dimensionale, Strutture in aggetto e a membrana, Spazio temporalizzato, Reintegrazione di edificio città e territorio. Un codice
moderno che comincia dal paleolitico.
Il suo ultimo volume si chiama Controstoria e Storia dell'architettura (prima in fascicoli a
mille lire, e dal 1998 riccamente illustrato in tre volumi in cofanetto): un lavoro durato oltre "Trent'anni per produrre una
Controstoria dell'architettura in Italia, un 'De Sanctis dell'urbatettura' (urbanistica + architettura)". Critica e architettura sono
positive solo se negano: combattono consuetudini, norme e regole per affermare il valore originale della ricerca artistica. Il progetto di
architettura, di per sé prosa compromissoria tra funzione, costruzione e bellezza, si deve spingere oltre. La funzione diventare tensione
verso spazi umani e organici, la costruzione segnare l'audacia della conquista dinamica dello spazio, la bellezza essere annullata nel
ricominciamento del Grado zero. Un'idea canonizzabile e imbalsamata di "bellezza", anzi, non esiste: è estranea a qualsiasi
modernità. Il volume si chiude con questa frase: "L'ultimo valore consegnato al terzo millennio attiene al rapporto tra architettura
moderna e democrazia liberal-socialista. Su questo terreno vibra la testimonianza di Terragni, Persico e Pagano, per i quali la modernità
- quella che fa della crisi un valore, una morale contraddittoria, dice Baudrillard, e suscita un'estetica di rottura - era sinonimo di
vita etica e civile. L'architettura è il termometro e la cartina di tornasole della giustizia e della libertà radicate in un consorzio
sociale. Decostruisce le istituzioni omogenee del potere, della censura, dello sfascio premeditato, e progetta scenari organici. Fuori di
una modernità impegnata, sofferta e disturbata non c'è poesia architettonica".
La modernità non è un valore
temporalizzabile, è uno stato, una tensione, una coscienza, che "fa della crisi un valore". È questa idea di modernità credo
una delle chiavi fondamentali al suo pensiero.
*
"No all'architettura della repressione, classicista barocca dialettale. Si
all'architettura della libertà, rischiosa antidolatrica creativa". Il volume della Marsilio Zevi Su Zevi e quello della Etas Linguaggi
dell'architettura contemporanea approfondiscono il credo libertario di Bruno Zevi sotto una duplice angolazione. Oggetto sono le
scelte della vita in un caso, cento progetti del decennio scorso nell'altro. Il filo che unisce i due volumi? Libertà e antiautoritarismo
sono valori civili quanto principi per l'architettura: le scelte formali, espressive, spaziali - il "linguaggio" - è chiamato a
sviluppare i valori individuali (funzionali, psicologici, percettivi) contro le imposizioni di sistemi e regimi. Zevi impersona la
componente più peculiare dell'intellettuale italiano: il rapporto arte-politica, (o se si vuole azione critica-impegno civile) che dal
Risorgimento alla Resistenza, dalla Ricostruzione al Sessantotto ci segna. L'American institute of architects, eleggendo a suo Honor
Fellow, puntual-mente ha scritto: "Appassionato e tenace assertore dell'integrazione tra valori democratici e concezioni
architettoniche, egli ha rilevato come gli edifici riflettano l'anima di una società".
Zevi su Zevi, nuova e ampliata
edizione del libro della Magma del 1977, è un volume originale già nella struttura. I rischi agiografici sono evitati con una
organizzazione in brevi sezioni con lunghe didascalie che accompagnano la documentazione fotografica (soprattutto ritratti con amici e
colleghi, ma anche testate di riviste, copertine di libri, pagine di giornali, immagini di allestimenti o di progetti dello stesso
autore). Il lettore può, se lo ritiene, scorrere il libro in maniera non sequenziale, ma se si sofferma sul corpo piccolo dei testi
scoprirà pagine intense. La vita di Zevi può essere ripercorsa attraverso i grandi intellettuali che lo hanno influenzato: Benedetto
Croce, Carlo Rosselli, Ludovico Ragghianti, Lionello Venturi, Giulio Carlo Argan, Lewis Mumford. O attraverso gli uomini politici
(Ferruccio Parri e Ugo La Malfa) o i maestri rifiutati (Walter Gropius) e quelli prescelti (Frank Llyod Wright, Erich Mendelsohn, l'ultimo
Le Corbusier). Ma decisivi sono anche gli amici e i compagni di strada: Ruggero Zangrandi che organizza a Roma la fronda dei liceali al
fascismo (Aldo Natoli, Paolo Bufalini, Mario Alicata), Luigi Piccinato con cui fonda Metron nell'immediato dopoguerra, Mario Ridolfi nella
vicenda del Manuale dell'architetto, Giuseppe Samonà nella prima moderna scuola di architettura italiana (l'Iuav di Venezia), Adriano
Olivetti nelle battaglie dell'Istituto nazionale di urbanistica e i molti progettisti con cui ha firmato opere: da Giuseppe Vaccaro a
Nello Renacco, da Ludovico Quaroni a Vincenzo, Fausto e Lucio Passarelli, da Silvio Radiconcini a Pier Luigi Nervi. Tra le sezioni che
scandiscono il libro nelle tappe decisive della vita, si inserisce la trascrizione di relazioni a convegni, prolusioni, interventi alla
Camera in buona parte inediti o di difficile reperimento.
L'indice dei nomi, la completa bibliografia e alcuni "Fogli
perduti" completano il volume che, accanto all'impegno civile, permette di abbracciare il contributo dell'autore allo sviluppo della
cultura italiana.
Linguaggi dell'architettura contemporanea
(integralmente tradotto in inglese) è un libro difficile da apprezzare con i criteri abituali, ma di questa nuova ricerca rappresenta
l'ultima tappa. L'architettura dei nostri giorni viene introdotta da venti opere che dal dopoguerra ai primi anni Settanta rappresen-tano
altrettanti testi: la Sinagoga di Wright, Ronchamp di le Corbusier, il salone dell'automobile di Morandi, l'Auditorium di Utzon, la chiesa
dell'autostrada di Michelucci (ma anche Safdie, Scarpa, Tange, Kiukutake, Johansen, Parent, Saarinen, Tange, Van Eyck, Daneri, Cosenza,
Kallmann, Wurster, Albini, Mies, Goff).
Le cento architetture che compongono il corpo del libro -come le precedenti tutte
selezionate dalle migliaia che L'architettura ha pubblicato- occupano ciascuna dalle due alle quattro pagine. Molte sono le illustrazioni
a colori, ma presenti sono anche i grafici essenziali.
Zevi percorre con il lettore un itinerario sulla base di quindici nomi di
spicco (Aalto, Scharoun, Kahn, Niemeyer, Barragán, Rudolph, Lasdun, Renaudie, Stirling, Ricci, Soleri, Erickson, Lautner, Mansfeld, Pei)
per poi "scavare nei quindici per afferrare meglio il linguaggio dei cento" (da Meier a Erskine, da Birkerts a De Carlo, e poi
Sacripanti, Pellegrin, Behnisch, Eisenman, Gehry e molti altri).
Nel breve scritto introduttivo viene citato James Wines. "Se
l'architettura deve sopravvivere, con ogni probabilità dovrà essere distrutta nella sua definizione attuale". Zevi parla
esplicitamente di Grado Zero della scrittura architettonica, ma il volume segna anche un Grado Zero della scrittura critica. Le opere e
gli architetti non sono organizzati per aree geografiche, per gerarchia, per tendenze. ma si presentano come un collage, un caleidoscopio
ogni volta ricomponibile dal lettore attraverso sue proprie categorie interpretative. In questa chiave aperta, informale, volutamente
destrutturata, Linguaggi (al plurale, naturalmente) si distanzia dalle puntuali letture di molti altri suoi volumi.
Grado zero
della scrittura critica vuol dire almeno tre cose.
Primo. La critica e l'arte usano i medesimi strumenti con una consapevolezza che
mai era stata così forte in precedenza. L'arte è trasgressiva. Oppone allo stile e alla cultura "una propria verità negativa
" (Filiberto Menna, Critica della critica). Nelle architetture selezionate conta quindi prioritariamente quel che non vi è:
"gli Aldo Rossi, i Michael Graves, i Ricardo Bofill, i Paolo Portoghesi". Il rifiuto dell'arte si travasa in quello della
critica che non spiega, non rassicura, non giustifica. Sceglie frammenti da ricomporre. Gli approfondimenti, se si vuole, possono essere
cercati negli altri sessant'anni di lavoro.
Secondo. Alla scrittura si sostituisce l'immagine. Manfredo Tafuri lo aveva
profetizzato già nel 1968, proprio parlando di critica operativa. Zevi parla con le fotografie e i disegni.
Terzo. La critica si
avventura in una fase difficile, incerta, nuova. Forse in quella che proprio Barthes chiamava "scrittura all'indicativo" o
amodale, lontana tanto dal linguaggio letterario che da quello parlato. È una direzione di cui non conosciamo ancora gli approdi, ma che
invita a riflettere e a cercare.
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Critica e architettura sono positive solo se negano: combattono consuetudini, norme e
regole per affermare il valore originale della ricerca artistica. Il progetto di architettura, di per sé prosa compromissoria tra
funzione, costruzione e bellezza, si deve spingere oltre. La funzione diventare tensione verso spazi umani e organici, la costruzione
segnare l'audacia della conquista dinamica dello spazio, la bellezza essere annullata nel ricominciamento del Grado zero. Un'idea
canonizzabile e imbalsamata di "bellezza", anzi, non esiste: è estranea a qualsiasi modernità. Questa tesi è sottesa nell'
ultima grande fatiche di Bruno Zevi. Quel Controstoria e Storia dell'architettura pubblicato prima in otto distinti fascicoli a
mille lire, poi in un unico paperpack e infine in una nuova e ampliata edizione composta da tre volumi in cofanetto; la sola che permette
di cogliere con evidenza il disegno complessivo dell'opera e la sua piena rilevanza.
I tre volumi -con immagini in buona parte
nuove e molto più numerose rispetto alle precedenti edizioni- sono organizzati in diverse sezioni tematiche. Si inizia da una estesa
introduzione "Concetti di una controstoria" che abbraccia un arco temporale dalla Preistoria al Duemila. A questa segue
"Paesaggi e città" e tra le due un'ampia raccolta di immagini intesa come "Panoramica dell'architettura mondiale" del
tutto inedita rispetto alle versioni precedenti. Il secondo volume "Personalità e opere generatrici del linguaggio
architettonico" seleziona, illustra e commenta le opere chiave della storia italiana dalle Caverne dei Balzi Rossi a Ventimiglia al
Palazzo di Giustizia di Savona. Si tratta di 110 schede in cui si esaminano molte più opere. Infatti ogni scheda è titolata anche
attraverso un tema. Viene così creata una costellazione di architetture associabili all'opera base e nel testo è aggredita
l'originalità e la forza innovativa di una linea di ricerca. Il terzo volume si compone di due parti: la prima è "Dialetti
Architettonici" che si occupa del nesso tra architettura colta e quella spontanea e "Architettura della Modernità" che
rilancia i temi dell'architettura italiana nel contesto internazionale da William Morris a Frank Gehry.
È un lavoro -come scrive
Zevi- durato "oltre Trent'anni per produrre una Controstoria dell'architettura in Italia, un "De Sanctis dell'urbatettura"
(urbanistica + architettura)". Francesco De Sanctis pubblicando nel 1870 la sua Storia della letteratura Italiana ha tentato
di fondare sulla letteratura e sulla lingua italiana uno dei pilastri della nuova nazione. Zevi dà corpo nel suo lavoro a una potente
intuizione di Cattaneo.
"Ha ragione Carlo Cattaneo -scrive- quando afferma, nel famoso saggio del 1858, che la città è
'l'unico principio per cui possono i trenta secoli delle istorie italiane ridursi a esposizione evidente e continua'. Altrimenti, è il
caos: 'senza questo filo ideale, la memoria si smarrisce nel labirinto di conquiste, delle fazioni, delle guerre civili e nell'assidua
composizione e scomposizione degli stati; la ragione non può veder lume in una rapida alternativa di potenza e debolezza, di virtù e
corruttela, di senno e imbecillità, d'eleganza e barbarie, di opulenza e desolazione: e l'animo ricade contristato e oppresso d'una tetra
fatalità".
Insomma i paesaggi, gli insediamenti, gli ambienti, i monumenti architettonici, i tessuti formano una istoria
"evidente e continua" da capire e sondare per rilanciarla come cardine di futuro e di progetto. Per Zevi però si tratta di una Contro
storia, visto che i 130 anni da Francesco De Sanctis non passano invano. E' una storia rappresentata dai grandi eretici, dai grandi
isolati, dagli individui che si sono sempre opposti ai sistemi, alle regole, alle imposizioni. D'altronde il suo credo etico e politico si
basava sulla "sovranità dell'individuo" di Wright e sulla responsabilità individuale di Aldo Capitini.
Il libro è una
terrificante disamina dell'architettura di svariate migliaia di anni e lascia ben pochi edifici integri nelle abituali teche
storiografiche. Zevi combatte ancora una volta Giedion che non riconosce consapevolezza architettonica alla preistoria. Demolisce poi il
tipo del tempio greco e la conseguente mitizzazione neoclassica. Rivendica invece l'eccezione e la trasgressione dell'Eretteo di Filocle
ad Atene. Se il mondo greco è scultoreo, quello romano sviluppa in dieci secoli di storia lo spazio interno e il continuum, sino
alla Villa Adriana. Nel Medioevo l'autore sottolinea l'imprecisione del Romanico "nelle cavità troppo compresse, nelle simmetrie non
rispettate, nei pilastri non a piombo..." e nella scoperta del muro, valido per sé e non più per le ornamentazioni aggiunte.
Dopo
il "traballante romanico" e l'affascinate ibrido che si ha al Sud tra la cultura araba e quella normanna, Zevi ricorda il Gotico
e soprattutto Arnolfo di Cambio e il suo palazzo Vecchio a Firenze.
Nel Quattrocento, Brunelleschi non è il padre del ritorno
all'antico "ma mantiene l'eredità gotica, la poetica delle linee-forza". Il Rinascimento è soprattutto trattatistica, regole,
ossessione per una astratta città ideale, fino a che non arriva il non finito di Michelangelo, la plasticità di Palladio e poi gli
invasi ellittici di Borromini e di Guarini. Poco si salva della vicenda italiana nei secoli seguenti (Rococò, Illuminismo,
Neoclassicismo, Eclettismo). Nel Novecento, il Futurismo non crea architetti, la Metafisica "sfibra ed infetta tutte le arti",
Terragni "è il primo personaggio italiano a rientrare nel circuito internazionale".
La storia dell'architettura italiana
è dissodata con un impeto travolgente che lascia il lettore quasi annichilito. Quale speranza, quale possibilità di lavoro? Ma,
sedimentando, lo shock si decanta, una volontà di superamento riemerge: la critica che combatte lo status quo, non rassicurandoci,
ci aiuta.
Per Zevi l'unica storia che vale la pena di scrivere è una storia della modernità, sempre.
La modernità non è
un valore temporalizzabile, è uno stato, una tensione che "fa della crisi un valore". Ma perché il libro si chiama Controstoria?
Nelle righe biografiche, tra le decine di libri, progetti, cariche e onori l'autore sceglie per definirsi la formulazione "seguace di
Carlo Rosselli e membro del Partito d'azione".
Ora, guardando al suo lavoro con una prospettiva storica (il primo volume è di
55 anni fa) non possiamo non pensare a come Zevi rappresenti uno dei grandi esponenti di una generazione di antifascisti che, al di là
delle idee di ciascuno, si riconosceva Contro la barbarie, la guerra, la dittatura, l'olocausto. Zevi è stato un uomo controcorrente e
questo, anche come studioso, rimane il suo messaggio, le sue idee, la sua Storia: fare uscire i monumenti e il passato dalla pura
filologia, accettarli come vivi, amarli e combatterli come se d'oggi e, attraverso la critica anche asperrima, agire per una profezia di
architettura e di società.
*
Di Bruno Zevi l'opinione pubblica italiana conosce alcune azioni clamorose: il
pensionamento dall'Università nel 1979 con quindici anni di anticipo sul limite d'età, la vittoria del suo simbolo, stridente e
acuminato, sul Gandhi di Pannella, le dimissioni dalla carica di presidente onorario del Partito radicale pur di non sottoscrivere una
scelta per lui blasfema. Aveva rifondato il Partito d'azione e viveva con partecipazione e preveggenza quanto si muoveva nel mondo. Tra
gli architetti italiani era uno dei pochi con prestigio internazionale. Non è un caso che il "New York Times" gli ha dedicato
un lungo articolo.
In grande sintesi, Zevi ha fatto per l'architettura quello che Elio Vittorini o Cesare Pavese hanno fatto per la
letteratura. Ha portato cioè, in un paese sconfitto e da ricostruire, il senso della libertà che aveva imparato ad amare durante il suo
forzato soggiorno negli Stati Uniti. Ma non era l'architettura efficientista dei grattacieli o della produzione standardizzata dei grandi
studi-corporation statunitensi che Zevi propugnava, ma l'opera di un grande e geniale isolato, di un coraggioso pioniere che spingeva lo
sguardo sugli sconfinati orizzonti della frontiera. Frank Llyod Wright era il maestro di cui secondo Zevi anche l'Italia aveva bisogno.
In sessanta anni di accanito lavoro, Zevi ha costantemente divulgato l'ideale di
libertà che aveva inalato in quella America trascendentalista, democratica, roosveltiana: scrivendo moltissimo, dirigendo due riviste,
impegnandosi settimanalmente su "L'Espresso", fondando e rifondando una collana di libri tascabili, inventando Associazioni e
Istituti di cultura, influenzando disposizioni legislative per l'ambiente, l'urbanistica, l'edilizia. Non a caso molti intellettuali,
architetti e studenti, ma anche politici a lui non vicini (come gli onorevoli Veltroni e Melandri), gli hanno tributato un sincero e
sentito omaggio alle esequie. Sono stati un'ora e mezzo al freddo nel cimitero del Verano, mentre la sua comunità celebrava la funzione
religiosa nella cappella ebraica. Zevi, quando doveva fare un autoritratto, anche se solo di poche righe, scriveva sempre: "seguace
di Carlo Rosselli e membro del Partito d'azione".
Si era formato
in quel Lungo viaggio dentro al fascismo ricordato da Ruggero Zangrandi ed era amico e compagno di liceo anche di Aldo Natoli,
Paolo Bufalini, Mario Alicata. Eppure l'anima errante, ribelle e libertaria della sua cultura ebraica, lo tenne sempre lontano
dall'adesione al marxismo. Il valore primo e indissolubile per Zevi è sempre stata la libertà: contro qualunque imposizione, contro
qualunque regola, contro qualunque dogma pur se progressivo.
Studiò a Harvard con Walter Gropius che, tra gli architetti moderni,
fu il principale assertore del lavoro di équipe, e del rifluire di ogni individualità in un obiettivo comune. Secondo Gropius per
rinnovare il quadro sociale e fare emergere una direzione collettiva d'effettivo cambiamento si dovevano accettare compromessi con la
libertà individuale. Era, se vogliamo mutare il quadro da quello disciplinare a quello politico, la stessa posizione di molti
intellettuali italiani. Il pensiero marxista era una così grande liberazione per l'Umanità che la mancanza di libertà dei paesi del
socialismo reale rappresentava un necessario compromesso.
Insomma se per Giulio Carlo Argan, storico dell'arte amico di Zevi ma
vicino al marxismo, l'architetto di riferimento era proprio Walter Gropius per Zevi, pur avendolo avuto come maestro, Gropius era da
rifiutare. Il valore per Zevi risiedeva sempre e solo nell'individuo anzi, come scriveva Frank Llyod Wright, "Nella sovranità
dell'individuo".
Questa posizione che in America aveva una lunga storia (dai pellegrini del Mayflower ai valori cardine del
Trascendentalismo ottocentesco di Thoureau alla Beat generation di Ginzberg o Dylan), nell'italiano Zevi si coniugava politicamente nell'azionismo
di Rosselli e poi di Parri, e filosoficamente nella lezione di Aldo Capitini, pedagogo di matrice cattolica di cui è appena stato
celebrato il centenario della nascita. Anche per Zevi, la liberazione dai limiti e dalle chiusure che si oppongono all'individuo doveva
essere perseguita come conquista personale in una ricerca perennemente rinnovata. Questo percorso "non finito" era d'altronde
anche un valore dell'arte e dell'architettura. Quello che cercava negli aggregati spontanei e popolari o nei paesaggi secondari della pop
art o in un'architettura che non era mai capolavoro in quanto perfezione raggiunta e imbalsamata, ma sempre manifestazione di una vita
rinnovabile. Aprire ancora più a fondo la questione della libertà in una disciplina d'impatto generale come l'architettura, associare il
concetto di libertà a una tensione individuale sino all'eresia è argomento che riguarderà le discussioni e i seminari che sul suo
lavoro sono stati programmati per i prossimi mesi.
Antonino Saggio
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[31dec2000] |