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Coffee Break

IT REVOLUTION

Tappeti volanti

Antonino Saggio


Bruce Lindsey
"Gehry Digitale. Resistenza materiale. Costruzione digitale"

(La rivoluzione Informatica)
Italia, 2002
Testo&Immagine (Universale di Architettura, n. 108)
prefazione di Antonino Saggio

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[in english]



> IT REVOLUTION BOOK SERIES
Frank Owen Gehry avvia un efficiente studio di architettura nel 1962, ma sedici anni dopo, quasi improvvisamente, sovverte i canoni del suo quotidiano professionismo per una nuova e audace sperimentalità. Si apre una ricerca intensa che nel 1986 è presentata in una mostra monografica che lo lancia all’attenzione internazionale. Nel 2001 la consacrazione è plebiscitaria. Insieme ai più ambiti riconoscimenti cui un architetto possa ambire, decine di realizzazioni si susseguono ai due lati dell’Atlantico, alcune acclamate come opere simbolo dell'architettura contemporanea.

Gehry riunisce di tanti compagni di strada la forza scultorea, il senso dello spazio mosso e frastagliato, un’estetica che guarda all’evolversi turbinoso della società. I progetti si costruiscono in un’incessante sperimentazione dei materiali più diversi, si confrontano con i luoghi in maniera provocatoria e coraggiosa; propongono una espressività dirompente, fluida e dinamica, dialogano, infine, con le forze che finanziano, promuovono, realizzano le opere. I tanti pragmatismi del lavoro di progettazione si muovono dentro la sintesi dell’architettura come arte e non viceversa.

[25feb2002]
Gehry è architetto del fare (e quindi del verbo che muove l'azione piuttosto che dell'aggettivo che descrive gli esiti). Il primo è Assemblare. Al decorativismo post-moderno della fine degli anni Settanta, sostituisce l’unica vitalità della società dei consumi che gli appare utile perseguire. Quella dello scarto, del riciclo, del riuso. Dalla sua casa a Santa Monica, un mondo lasciato stazionare nei back yard delle villette americane viene trascinato sul fronte di un nuovo sentire. Lo chiamerà cheapscape. Il secondo verbo è Spaziare, perché l’architetto individua la possibilità di articolare con gli edifici lo spazio pubblico in un gioco concertato tra interno ed esterno. Ne farà il centro delle sue operazioni, un centro spesso occupato da nuovi pezzi d’arte. Ma, come nell'Università Loyola a Los Angeles, spaziare è anche un modo di studiare soluzioni e fasi di costruzione per rendere attivo il dialogo con le forze esterne allo studio, innanzitutto i committenti.

Separare è un'altra modalità. In opere come l’Edgemar complex prevale la volontà di suddividere i volumi per far nascere nuovi esiti plastici e per creare scene animate che accompagnano, invitano, suggeriscono i movimenti dei fruitori. Slanciare è il verbo chiave per opere come il Museo Bilbao dove le masse seguono traiettorie che energizzano l'ambiente. Il progetto si incunea in una area dismessa scelta apposta dall'architetto: il cheapscape è diventato urbanscape. I volumi scultorei e dinamici conformano non solo il contatto con la città ma anche gli spazi interni in una sorta di iperfunzionalismo, visto che mai si era costruito un museo di così strabiliante efficienza. Infine Liquefare. Nelle ultime versioni della casa Lewis (o nel museo della Musica a Seattle) interno ed esterno, spazio e volumi, atmosfera e materia sono ormai concepiti con un movimento fluido e continuo: emerge un sentire sottomarino, subacqueo, liquido.

Gehry e il suo studio genera decine e decine di modelli. Concepisce in rapidi schizzi e in successivi bozzetti plasma la materia, verifica gli spazi, gli effetti tridimensionali, il gioco dei cavi e dei pieni. Realizzato un modello soddisfacente si può digitalizzarlo (cioè leggerlo per punti con una pantografo elettronico) e realizzare un nuovo modello, questa volta elettronico, che sarà la base di migliaia di altre verifiche e modifiche.

Si potranno, naturalmente, avere nuove infinite visioni tridimensionali, ricavare piante e sezioni, studiare contemporaneamente l’insieme e il più minuto dettaglio. Ma un modello elettronico è per sua natura qualcosa di estremamente diverso rispetto ad uno tradizionale perché è un insieme vivo, interagente (per certi versi “intelligente”). Mentre in un caso le informazioni sono statiche nell’altro le informazioni sono dinamicamente legate le une alle altre. Vi si potrà modificare un elemento architettonico e verificare simultaneamente l’effetto non solo su tutte le visioni desiderate, ma anche sulla normativa, sul costo, sui calcoli statici, sulle dispersioni termiche. Si potrà verificare quando un materiale, rispetto ad un altro incide non solo in tutti gli aspetti quantitativi, ma anche come reagisce alla luce naturale o artificiale. Si potranno mandare le informazioni a chi deve costruire l’opera che (magari utilizzando macchine collegate al calcolatore) potrà realizzare al vero quanto serve. Il modello elettronico diventa in questa accezione uno strumento per studiare, verificare, simulare, e costruire. Non è garanzia di successo, ma per il lavoro di progettazione si tratta della più importante conquista dopo l’invenzione della prospettiva. Gehry "ne è spaventato, ma completamente consapevole".





SCIE DI ELETTRONI. Con queste osservazioni avevamo lasciato Gehry cinque anni fa in Frank O. Gehry, Architetture residuali, mentre quasi contemporaneamente iniziava la storia della serie de "La Rivoluzione Informatica". Oggi, con Gehry Digitale scritto con sapienza da Bruce Lindsey, siamo arrivati al quattordicesimo volume della serie. Vorrei il più schematicamente possibile riassumere alcuni punti che ritengo importanti. 

Ha ragione Lindsey a concentrarsi sul metodo di lavoro complessivo di Gehry perché è da qui che emerge l'innovazione che viene prodotta nello studio attraverso le pratiche digitali. Il lettore troverà dettagliate descrizioni del processo costruttivo mai disgiunte dalla tensione estetica che l'architetto persegue e dal metodo digitale o meno adoperato per perseguirlo: una combinazione di mestiere e di sapienza che giustamente viene rimarcata come "una entità eccezionalmente efficiente".

Come ogni generale, Gehry ha i suoi valorosi colonnelli che nascosti al grande pubblico sono essenziali nel condurre avanti i progetti. Lindsey spesso dialoga con loro e ne estrae quasi in presa diretta osservazioni, idee, piccoli aneddoti: scopriamo cosi che il mitico programma CATIA arriva allo studio grazie a una svendita di paccottiglia in una sede IBM, oppure che all'inizio degli anni Novanta vi erano solo tre malandate workstation, o del ruolo dell'italiana Permasteelisa o dei processi di realizzazione concreta del modello digitale. Il capitolo che narra dello sviluppo del Pesce di Barcellona, il primo progetto dello studio effettivamente guidato dal calcolatore, è entusiasmante e scritto con maestria.

Lindsey tocca anche punti concettualmente importanti. Il primo è quello che egli definisce Skin in. Se il processo modernista si muove a partire dalla griglia strutturale verso l'esterno, il processo di Gehry è l'opposto: dalla conformazione della pelle e cioè della superficie esterna si passa alle orditure secondarie e alla struttura e poi alla conformazione degli spazi. Ora pensiamo alle conseguenze di questo approccio. Questo processo skin in comporta un metodo radicalmente diverso rispetto all'approccio "industriale" e "modernista"? Naturalmente il lettore ci penserà un poco da sé, prima di procedere con le righe successive.

La risposta è: eccome! L'approccio skin in è legato a un cambio paradigmatico di tutta l'architettura. Il metodo modernista era simile a una catena di montaggio: si perfezionavano i pezzi che componevano le macchine-architettura, si standardizzavano le componenti e si rendevano i vari sistemi (della struttura, degli impianti, dei tamponamenti) il più possibile autonomi e indipendenti. Ricordate i 5 punti di Le Corbusier? Il sistema era sommatorio, meccanico, assoluto. Il metodo di Gehry è invece "relazionale": sono le relazioni tra le parti invece della loro indipendenza il segreto. Sotto le curve delle sue architetture, le componenti della costruzione si legano una all'altra attraverso un modello elettronico anch'esso realizzato in strati coordinati: uno che riguarda le superfici esterne, uno a fil di ferro che descrive la geometria e la griglia strutturale e un terzo che delimita i cavi interni. L'insieme forma una sorta di tappeto: ondeggiante, elettronico e, se ricordiamo le traiettorie futuriste e boccioniane con cui avevamo raccontato il suo lavoro, volante. Scie di elettroni luminosi sembrano tracciare iperboli nell'atmosfera.



POLVERE DI STELLE. E fin qui tutto bene. Gehry è all'avanguardia, il suo studio produce altissima innovazione, Gehry stravince. Ma per fortuna c'è moltissimo da fare anche per gli altri. Per capire almeno una direzione dobbiamo concentrarci sul problema della rappresentazione, cui Bruce Lindsey dedica parecchie pertinenti pagine in questo libro. 

Siamo abituati a rappresentare un'architettura già realizzata. A disegnare (o misurare) le piramidi o un palazzo rinascimentale per far ritornare sulla carta qualcosa che conosciamo come una realtà già esistente nello spazio. Ma ci siamo mai chiesti l'inverso. E cioè come e quanto un oggetto reale "assomigliasse" al modo che i suoi contemporanei avevano di rappresentarlo. Forse questa domanda renderebbe evidente che sono le conoscenze stesse che "si rappresentano" nell'oggetto architettonico. Le regole basilari della trigonometria sono fotografate nelle piramidi, un calcolo basato sulla geometria (e non sui faticossimi numeri romani I, II, III, IV) è alla base del Pantheon, la perdita della padronanza geometrica-aritmetica è evidente nel cavernoso e traballante interno di una chiesa romanica, senza le righe e le regole della prospettiva non vi è un "ordinato" palazzo rinascimentale, e senza i volteggi di un compasso non avrebbero preso forma le curve di San Carlino o di Sant'Ivo. Insomma se pensiamo "anche" allo strumento guadagniamo una chiave per capire come alcune spazialità sono nate.

Proviamo ora ad interrogare le nostre idee di architettura "insieme" allo strumento che abbiamo con noi. E domandiamoci: "e se la nostra architettura assomigliasse di più alle potenzialità dei nostri modelli informatici?". Noi vorremmo che la duttilità, l'intelligenza, la velocità e come tante volte abbiamo detto l'interattività del nostro modello digitale possa essere prerogativa dell'architettura realizzata. Una prerogativa non del nostro schermo, ma della nostra architettura costruita esattamente come la concezione misurata ordinata e centrata della prospettiva aveva portato ad una architettura "a sua immagine e somiglianza".

Ora, studiando le architetture e il processo di Gehry capiamo che in questa direzione siamo solo all'inizio. Le architetture di Gehry assomigliano sempre di più ai suoi schizzi. Ma il modello elettronico è molto di più: cattura una possibilità di intelligenza, di mutazione, di cambiamento molto molto più alta che quella di interpretare pur magistralmente i segni e i sogni di un genio.

Digital Gehry è stato scritto dopo un'indagine di prima mano nello studio che è tra i centri più avanzati della ricerca architettonica, costruttiva e digitale di oggi. Il piccolo libro che avete tra le mani è stato possibile grazie alla grande generosità da parte di Frank Owen Gehry e alla collaborazione dei tanti architetti (e scienziati e inventori) del suo team. Lindsey rivela ed esemplifica con una scrittura competente, arguta e partecipe che non vi è ricerca architettonica d'avanguardia che non sia oggi anche una ricerca informatica. Ma allo stesso tempo gli architetti "Nati con il computer" non possono abbassare la guardia. Non siamo che all'inizio della costruzione di un nuovo alfabeto. E vi è un grande lavoro da fare per tutti.

Antonino Saggio

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