19414

Le lunghe mani della notte

Scendeva la sera sui campi intorno al convento; scendeva angosciante perché in quel luogo solo così poteva essere, e una notte lieve e ben accolta non sarebbe stata adatta a quella terra; solo un manto pesante e opprimente poteva liberare per qualche ora dalle miserie della vita chi abitava lì intorno.

Eppure, neanche per il momentaneo oblio che sapeva portare nelle loro vite, gli abitanti della zona non amavano la notte sulle loro case; anzi la temevano, la rifuggivano nascondendosi nelle cucine o nelle stalle, timorosi, senza mai osare uscire e guardarla in faccia.

Quasi mai, per la precisione.

Quando avevo due o tre anni, mio nonno era uscito di casa una sera; abitavamo con lui, vicino al torrente che scorre sul fondo della valle, sotto lo sguardo e l’ombra del convento in cima alla collina; era una casa piccola, la nostra, una casa di contadini che erano riusciti in qualche modo a tirarsi fuori dalla miseria, ma non abbastanza da potersi permettere di far studiare i figli e di comprarsi una casa in paese. Il nonno era un tipo strano, mi hanno raccontato; un tipo taciturno che guardava sempre lontano, quando guidava i buoi nei campi da arare, ma che, quando camminava per i sentieri, dava un’occhiata intorno e poi tornava subito ad abbassare lo sguardo sulla punta dei propri piedi.

Aveva deciso di uscire, quella sera, e non aveva voluto dire il perché a nessuno. La nonna lo aveva guardato preoccupata, a lungo, mentre finivano la cena, ma dopo il primo tentativo andato a vuoto non aveva più fatto nulla per tentare di dissuaderlo. Il nonno era uscito, dopo che mia madre mi aveva messo a letto, ma prima di varcare la porta era salito di sopra a guardarmi dormire. O almeno così mi è stato raccontato.

Non ricordo nulla di quella sera, nulla che non siano stati gli altri a raccontarmi. Non ricordo neppure quale fosse il suo volto.

Quella sera mio nonno non fece ritorno, e non lo videro neppure il giorno dopo, né quello dopo ancora. Da quella sera, nessuno lo vide più.

Mi è stato raccontato, anni e anni dopo, quando ormai mi si reputava abbastanza grande per sapere la verità, che mio nonno era apparso strano nei giorni che avevano preceduto la sua scomparsa. Sentiva già la notte nell’aria, diceva la gente con il senno di poi, sentiva già che il buio lo avrebbe avvolto e se lo sarebbe portato via. Facile parlare e fare profezie, quando tutto oramai è successo. Avevo diciotto anni, forse venti, quando mi hanno raccontato la storia; prima di allora, non sapevo neppure che la nonna, un tempo, non era stata sola come la vedevo adesso. Strane cose, i racconti sul passato; per anni, per decenni nessuno ti dice nulla, e poi all’improvviso piovono su di te rivelazioni e racconti da ogni parte, rovesciandoti addosso tutte le angosce e le domande in una volta sola; quasi volessero vedere se reggerai all’urto o ne sarai schiacciato. Un rito di passaggio, forse. Per lo meno era così che succedeva nella mia terra, dove la notte ti piombava addosso pesante, come un veleno, disposta a donarti riposo e tregua se sapevi prenderla a piccole dosi e senza osare troppo, ma decisa ad assalirti e divorarti appena uscivi dalle regole.

Così era sempre successo a memoria d’uomo, e così continuerà ad accadere finché ci sarà qualcuno ancora disposto ad abitare lungo il fiume, all’ombra del convento.

Il primo a raccontarmi la storia fu un vecchio che abitava più a valle, dove il corso d’acqua piega per dirigersi verso il paese, e che era stato un compagno di gioventù di mio nonno, prima a scuola e poi nei campi. Mi sussurrò tutto quanto all’ombra di un vecchio castagno, dove i bambini adoravano salire e giocare perché era considerato pericoloso da tutte le mamme con un briciolo di buon senso. Ci eravamo trovati lì quasi per caso, o così allora parve a me, in un caldo mezzogiorno di marzo; bisbigliò il suo racconto tutto d’un fiato, quando ebbe finito di bere dalla borraccia che gli avevo offerto, e non badò all’espressione confusa e stupita che io andavo assumendo sempre più. E non mi chiese neppure se avessi qualche dubbio, alla fine, né mi spiegò i motivi della sua rivelazione, ma semplicemente si alzò e se ne andò, zoppicando dalla destra, per lasciarmi solo e confuso con la schiena appoggiata all’albero.

La seconda rivelazione venne qualche giorno dopo, all’alba, questa volta a casa mia. Mi ero svegliato prima del solito e non ero più riuscito ad addormentarmi, e così ero sceso di sotto. Davanti al camino acceso avevo trovato mia nonna, seduta nella sedia a dondolo e avvolta nel suo scialle di lana. Dormiva, ma quando urtai lo spigolo del tavolo si svegliò.

«Che cosa fai qui, nonna?», le domandai.«Non sei andata a dormire?». Era ancora nella stessa posizione in cui l’avevo lasciata la sera prima.

«Non preoccuparti, Pietro, tesoro. Non volevo state da sola nella mia stanza, pensavo a tuo nonno. Tra due giorni saranno diciott’anni che se n’è andato». E piano piano, con la voce tenue e lo sguardo abbassato sugli ultimi resti del fuoco, mi raccontò quella storia; e quando ebbe finito si alzò ed andò in cucina a scaldare il latte.

Altra gente mi parlò di lui nei mesi successivi, persone che conoscevo da una vita o che scorgevo solo di sfuggita talvolta, nei campi; e tutti quanti prima raccontavano, assorti e insieme attenti, e poi si alzavano allontanandosi per fare altro, senza darmi spiegazioni. L’unico che non volle dir nulla, neppure dopo le mie insistenti domande, fu mio padre.

E questa era la cosa più strana di tutte, che proprio lui mi sfuggisse e mi evitasse, lui che era sempre stato così presente nella mia vita, così disponibile e pronto a risolvere i miei dubbi e a guidare i miei passi quando si facevano incerti, lui che giorno dopo giorno, anno dopo anno mi aveva pazientemente insegnato che cosa fosse la vita. O forse era proprio questo il motivo, mi andavo convincendo; forse in tutta quella storia la vita non c’entrava per nulla, e neppure la morte. Perché la notte era la negazione di queste due cose, dalle mie parti, era la negazione di ogni chiara distinzione fra la luce e l’oscurità, fra il bene e il male.

 

Quei giorni erano in apparenza calmi e misurati come tutti gli altri, ma di fatto dentro di me sentivo crescere un’inquietudine che non sapevo spiegarmi altrimenti, se non pensando alle rivelazioni che mi erano giunte riguardo a mio nonno. La vita quotidiana procedeva come sempre, ma nella mia testa c’era una confusione crescente, un vorticare di pensieri che con il passar dei giorni non accennava a diminuire, come avevo inizialmente sperato, ma anzi cresceva ogni momento di più.

E poi venne lei. Come successe non lo so dire, non me ne accorsi allora ed anche adesso non so darne spiegazione. La trovai sul mio cammino un tramonto, quando i raggi del sole si coloravano oramai d’arancione e gettavano lunghe ombre sui campi, rendendo i pali delle vigne simili a magri guardiani posti a cura della terra. Attraversò di corsa i miei passi, mentre ritornavo lentamente verso casa guidando i buoi stanchi, stanco anch’io per la lunga giornata di lavoro.

Portava una veste lunga, bianca, e uno scialle scuro gettato sulle spalle; aveva lunghi capelli neri, scomposti, sciolti intorno al viso, e una strana luce negli occhi, quando si voltò al sentire la mia voce.

«Avete bisogno d’aiuto?», chiesi d’impulso, al vedermela comparire davanti. Sembrava così smarrita, così terrorizzata che la prima cosa che pensai fu che stesse fuggendo. Si fermò in mezzo al sentiero che stava attraversando, a pochi passi da me, e si girò a guardarmi. I suoi occhi mi trapassarono l’anima. Erano neri, più neri del carbone, eppure in fondo ad essi si agitava qualcosa di simile a una fiamma, che sul momento scambiai per paura. Rimasi come pietrificato a guardarla, entrambi immobili; a guardare il suo viso bello e disperato e puro in modo tanto sconvolgente, e le sue labbra rosse, e il seno che si sollevava per l’affanno sotto la veste sottile, che sembrava mossa da un vento che coinvolgeva soltanto lei, lasciando immobili me e la campagna intorno. Rimanemmo fermi così per non so quanto tempo, poi d’improvviso si voltò di nuovo e fuggì.

Avrei voluto chiamarla, avrei voluto correre dietro i suoi passi e raggiungerla, chiederle che cosa l’angosciasse in una maniera tanto profonda, e poi trattenerla, e aiutarla, se mi fosse stato possibile; avrei voluto fare tutte queste cose e molte altre ancora, ma non mi riuscì di muovere un muscolo, né di articolare parola. Quella visione mi aveva talmente scosso da lasciarmi impietrito.

Fu così che rimasi fermo e la lasciai fuggire, vedendo solo che si dirigeva su per la collina nella direzione del convento abbandonato, prima che un filare di alberi la nascondesse definitivamente alla mia vista.

Ritornai quindi a casa, dal momento che non mi restava più molto da fare né molto tempo per rimanere all’aperto, poiché il sole stava rapidamente calando dietro la collina. Quella donna era rimasta solo per pochi istanti nella mia vita e non avevo udito neppure una parola venire da lei, e tuttavia divenne per me un pensiero costante. Non riuscivo a non pensare a lei per tutto il giorno, per tutta la notte, qualunque cosa facessi; era in ogni mio gesto, in agguato, erano gli occhi che per un istante mi sembrava di intravedere tra le fronde di un albero o tra le canne sulla riva del torrente, sapeva di lei ogni gesto insolito che coglievo con la coda dell’occhio negli altri, in qualunque altra persona; era come se tutto fosse pervaso di quei brevi istanti in cui i nostri sguardi si erano incrociati e le nostre anime, implicitamente, si erano sfiorate.

Non credo che lo si potesse chiamare amore; l’amore è altro, come avevo dolorosamente imparato a conoscere a mie spese. E non era neppure passione, né un folle sentimento che sconvolgeva corpo e anima fino a diventare un’insostenibile ossessione. Non era nulla di tutto questo, eppure era un’emozione altrettanto forte e altrettanto coinvolgente ed esclusiva. Mi sentivo come se qualcosa dentro di me avesse visto in quella donna qualcosa di perduto da tempo, qualcosa che aveva sempre cercato e le era stato negato, e che tuttavia conosceva, per qualche strano motivo. Sentivo che doveva essere così, ma non riuscivo a comprendere di che cosa si trattasse; e, non comprendendo, non sapevo darmi pace.

 

Nella mia terra all’ombra del convento si raccontavano molte storie. Probabilmente il motivo di tutti i racconti che si facevano dalle nostre parti era la forzata relegazione nelle case la sera, non solo nel senso che si fantasticava sul motivo che ci chiudeva all’interno di stalle e abitazioni, me soprattutto perché, quando non si può fare nulla d’altro, viene spontaneo raccontare. Dal mio paese erano nati i migliori cantastorie di tutta la regione, da sempre; in noi, anche se nessuno voleva ammetterlo apertamente, c’era una scintilla in più, quando narravamo, c’era quel tocco che cattura gli ascoltatori e li strega, li porta lontani dalle loro vite per il tempo che dura la storia. Per questo al mio paese non c’era bisogno di un’osteria.

Di tutto questo mi rendo conto pienamente soltanto ora, che sono solo e lontano; solo adesso che non ho più nessuno che mi racconti le storie del mio paese, perché non me le posso raccontare da solo; è per questo che i cantastorie mi affascinano così tanto.

Ma volevo dire altro.

Al mio paese c’erano molti racconti, che perdevano le loro origini nelle nebbie del passato. Ci si trovava tutti quanti intorno al fuoco, la famiglia e spesso qualche amico che si era invitato a casa a trascorrere la sera e poi, inevitabilmente, la notte. E il miglior modo per far passare il tempo era parlare. Di solito si cominciava con le notizie di quanto succedeva in paese, i pettegolezzi sui conoscenti, le novità in tutti gli ambiti dalla politica alla cucina all’agricoltura; ma dopo qualche tempo il discorso scappava i mano e scivolava sulle voci che correvano a fior di labbra sul convento, o quando si era più audaci sulle cose che vagavano fuori, la notte. Era a questo punto che, di solito, uno dei presenti iniziava a raccontare; lo faceva come se nulla fosse, incominciando in maniera impercettibile, ma poi ecco che la storia prendeva prepotentemente forma, e stregava tutti. Non si inventava mai nulla di sana pianta; c’era sempre la base di una leggenda sentita prima, magari non dalle nostre parti, e il narratore la riprendeva, l’arricchiva, la lusingava rendendola splendente e unica.

Diverse e sempre nuove erano le avventure, ma i personaggi e i motivi rimanevano sempre gli stessi, tramandati da secoli. Nelle nostre storie erano protagonisti gli uomini, o gli eroi, ed era comprensibile che fosse così; ma con la vita che dovevamo fare, sempre attenti a non tardare troppo la sera, sempre paurosi per i lunghi artigli della notte che portavano via i migliori, per questo e per altri motivi le nostre storie abbondavano di spiriti. Erano esseri sfuggenti, leggeri, che tutti noi conoscevamo bene pur non avendoli mai visti; popolavano il dormiveglia degli eroi delle nostre storie, li aiutavano lungo il cammino, pure apparizioni dietro una siepe o sul fondo di un piatto, per piccoli istanti; non erano malvagi, ma neppure buoni. Erano e basta, come tutte le creature create nel mondo, nate dalla terra o dal vento, come si dice un tempo fossero gli uomini, prima di voler diventare simili a dei. Anche se la nostra vita quotidiana era dura e fin troppo concreta, nell’immaginario di ciascuno di noi vivevano le creature del sogno, sussurranti apparizioni che davano un senso e un conforto alle nostre sere, anche se non ce ne rendevamo pienamente conto, come le fiabe per i bambini. E proprio questo eravamo, tutti: bambini terrorizzati dal buio e dalla notte, desiderosi di storie per andare lontano, con la fantasia. Quelli che fra noi crescevano, ed erano in pochi, dovevano partire. Come mio nonno.

 

Erano passati più di due mesi dal giorno in cui avevo incontrato quella donna enigmatica, quando la sognai. Mi era già successo altre volte, ma si era sempre trattato di una fugace immagine di quell’incontro, rivedere il suo volto, la sua veste, come le avevo conosciute allora, e nulla più. Questa volta però fu diverso. Venne verso l’alba, avvolta nella tunica candida come quella sera, ma questa volta camminava verso di me, tranquillamente, lentamente, guardandomi negli occhi. Quando mi fu vicina si fermò, e io mi accorsi che i suoi occhi erano pieni di lacrime, il suo volto dolente.

«Aiutami», disse in un sussurro, con una voce che mi straziò il cuore. «Aiutami!».

Ero confuso, continuavo a guardarla negli occhi e non comprendevo che cosa volesse da me.

«Come posso aiutarti?», riuscii infine a chiedere.

«Liberami!». Le sue parole erano simili al vento tra le fronde, simili all’acqua del torrente. Di nuovo ebbi quella prepotente sensazione, di nuovo sentii che in lei c’era qualcosa che avevo perduto, che non avevo mai conosciuto, e che tuttavia desideravo con tutta la mia anima.

«Ma io non so come fare quello che mi chiedi», dissi sconsolato dopo qualche momento.

«Devi avere coraggio. Devi scacciare la paura. Solo così potrai avere quello che cerchi. Quello che io cerco. Voi odiate me, ma sono altri i colpevoli della vostra sofferenza. Della mia sofferenza». Mi guardò intensamente e poi cominciò a voltarsi.

«No! Non andartene!», gridai, ma inutilmente. Poi, mentre lei mi voltava le spalle e si allontanava, la rivelazione mi colpì come un pugno. Ero stato uno stupido a non capirlo prima.

Fu a quel punto che mi svegliai.

 

Il giorno dopo era l’ultimo giorno di luglio ed io ero ancora nei campi, nonostante la sera fosse quasi arrivata. Dovevo finire un lavoro perché il giorno dopo sarei dovuto andare in paese, e proprio non mi andava di lasciarlo a metà per così tanto tempo. Non mi ero reso conto del trascorrere del tempo fino a che non vidi la luce del sole farsi più rossa e meno intensa, mentre colorava le cime delle montagne, lontane. Sarei ancora stato in tempo per tornare a casa prima che facesse buio, dal momento che non ero poi così lontano, ma qualcosa me lo impedì. D’un tratto sentii dentro di me una folle rabbia per tutto quanta quella codardia, quel vigliacco nascondersi dalla notte come pecore da un lupo, sempre tremanti, sempre a capo chino, con un’ombra in fondo agli occhi anche quando si camminava in pieno sole nel giorno di festa. Le parole della donna nel mio sogno continuavano a martellarmi la testa, insistenti, pressanti, e i fondo ad esse c’era anche un accenno di accusa. Per non aver capito prima; per essere stato tanto codardo.

Quel mattino, prima di uscire di casa, avevo abbracciato mia madre e poi mia nonna, ed ero rimasto a guardarla a lungo; avevo visto i suoi occhi velarsi di lacrime, eppure non una parola era stata detta fra noi. Non era stato necessario perché lei, come quella sera di tanti anni prima, aveva compreso.

Da solo, nel campo, mentre morivano gli ultimi raggi del sole, sentii la rabbia crescere in me e poi placarsi. Era inevitabile che la gente vivesse così, rintanata nelle case, paurosa; non tutti potevano sacrificare ogni cosa. Ci voleva coraggio.

Coraggio?, mi chiesi, posando gli attrezzi. Ero proprio sicuro di averlo? Le storie sul convento udite anni prima dai vecchi mi tornarono alla mente; storie di ombre nere che si vedevano per qualche istante dietro le finestre senza vetri, prima che il buio calasse del tutto e i contadini come noi si dovessero nascondere. Storie di strane cantilene sentite da dietro le imposte, la notte, e corpi di animali che avevano lasciato il rifugio della stalla e il mattino dopo erano stati ritrovati poco lontani, morti, come prosciugati del sangue e della vita. Qualcuno diceva che nei secoli passati era successo anche ad alcuni uomini, prima che la paura non soprafacesse tutti e li costringesse a non uscire più di casa con il buio, per nessuna ragione. E mille, mille altre storie, nelle quali compariva una donna vestita di bianco e dolente, che io stupidamente non avevo voluto riconoscere. Ma nella notte appena trascorsa, finalmente, avevo compreso. E adesso volevo farla finita.

Intanto intorno a me si era fatto buio. Non mi ero mai trovato all’aperto così tardi, e l’inquietudine si insinuò fra i miei pensieri. Ma non volevo scappare ancora una volta.

Lentamente mi incamminai verso il convento; non sapevo che cosa avrei fatto una volta arrivato là, ma non mi sembrava così importante. Sapevo solo che affrontare le mie paure era l’unico modo per vincere.

Camminavo lentamente, cercando di calmarmi, e fu quasi per caso che, seguendo i miei pensieri, sollevai gli occhi al cielo. Ciò che vidi mi lasciò a bocca aperta. Sopra il mio capo c’era un mantello di velluto tutto ricamato di punti luminosi, infiniti, come manciate di polvere d’oro gettata in aria è rimasta lì, sospesa. Lo so, voi ridete di me, voi ridete perché avete sempre visto le stelle; ma per me era la prima volta, e lo spettacolo mi colpì tanto nel profondo da farmi male al cuore. Per vedere una cosa simile valeva anche la pena morire, dopo tutto.

Fu allora che vennero. Quasi non me ne accorsi, perché lo spettacolo del cielo stellato mi aveva completamente rapito, ma quando sentii in me agitarsi la paura abbassai gli occhi e me li ritrovai quasi davanti. Scendevano come in processione lungo il fianco della collina, dal convento al fondo della valle, una decina di figure nere incappucciate appena distinguibili nell’oscurità. Non si vedeva nulla di loro, ad eccezione degli occhi, che luccicavano minacciosamente fra le pieghe dei cappucci. Per un attimo il terrore ebbe il sopravvento su di me, quando capii che cosa stavano facendo; ma dopo qualche momento ripresi il controllo, facendomi attento. Sapevo che erano loro, quelli che cercavo, e sapevo che erano usciti, come quasi tutte le notti, per andare a caccia.

Quando il primo giunse a qualche metro di distanza da me, la processione si arrestò.

«Un vivo», bisbigliò uno di loro, con una voce che mi fece piegare le ginocchia. Ma non era quello il momento per avere paura. «Come osi camminare per la campagna di notte, uomo? Non sai che cosa ti può accadere?»

«Lo so»

«E vuoi forse finire come tutti gli altri?».

«Può darsi», risposi semplicemente. «Ma credo che non sia stato tu a porre fine ai loro giorni; o sbaglio?».

La figura incappucciata sibilò dall’ira, e fece un passo verso di me. Protese una mano adunca e così fecero i suoi compagni.

«Come osi sfidarci?», sussurrò. «Di te non rimarrà nulla tra qualche istante, sarai tu il nostro pasto!».

«Non puoi farmi nulla», ribattei, cercando di dominare l’impulso di fuggire; «tu non mi puoi toccare, come non hai potuto toccare molti altri! Perché io non ho paura!». Ecco, l’avevo detto; non ero affatto sicuro che avrebbe funzionato, ma non sapevo che altro fare. Se avevo visto giusto, leggendo tra le righe delle innumerevoli storie che avevo ascoltato fin da bambino, e se avevo ben compreso il sogno della notte prima, era quello l’unico modo per vincere.

Per qualche momento tutto rimase immobile, il braccio adunco di quell’essere, i suoi occhi e quelli dei suoi compagni luccicanti nell’oscurità. Poi, lentamente, si fece indietro sibilando per la rabbia.

«Maledetto!», mi urlò contro.

«Maledetti voi, bestie!», gli risposi, nuovamente pieno di rabbia e tuttavia sicuro, quasi sorridente per la vittoria che sentivo di aver raggiunto. Lentamente si ritirarono, risalendo il fianco della collina. Quando furono scomparsi, mi accorsi che avevo la fronte coperta di sudore e stavo tremando.

«Sei arrivato», sussurrò una voce accanto a me. Era la donna vestita di bianco, e le sue labbra erano inarcate in un lieve sorriso. Pareva ancora più bella, e adesso sapevo perché.

«Grazie », le risposi, senza smettere di guardarla. Dopo qualche sforzo riuscii a ricambiare il sorriso.

«Sono io che devo ringraziarti. Ma dimmi: che cosa ti ha dato il coraggio?», mi domandò.

«Tu», le risposi. «Tu e questo cielo coperto di stelle», e alzai nuovamente il capo.

«Allora sai chi sono», mi disse, mentre ritornavo a guardarla. La brezza le agitava la veste intorno alle caviglie e nell’aria si diffondeva un dolce profumo.

«Sì. Sei lo spirito della notte. Sono stato sciocco a non capirlo subito, a non riconoscerti nei racconti della mia gente. Ma alla fine ho compreso».

Solo allora, mentre lei mi stava davanti e mi sorrideva, capii che cosa fosse ciò che avevo scorto in fondo ai suoi occhi e che mi aveva turbato tanto. Era il cielo stellato. Non lo avevo mai visto, eppure era tutta la vita che lo cercavo.

«Devi partire, adesso», mi disse dolcemente.

«E per dove?».

«Lontano. Non puoi restare qui».

«Ma ho vinto!», protestai. «La mia gente deve sapere che cosa li ha spaventati per tanto tempo!».

«Tu hai vinto la tua battaglia, non la loro», disse la donna con una nota di tristezza. «Se anche tornassi per raccontare tutto, non ti crederebbero; o ti verrebbero dietro, la prossima notte, ma pieni di paura. E sarebbe la loro fine; non puoi costringerli ad affrontare quegli esseri. Sono solo bestie codarde che si nascondono nell’ombra, attaccano nell’ombra, e si nutrono delle paure della gente. Ma ognuno deve vincere da sé le proprie paure. E tu non saresti il loro eroe, ma solo un altro dei loro timori».

«Ma così è stato inutile!».

«No. Non vedi? Tu sei qui fuori, e sei vivo. È già abbastanza, non ti pare? E poi mi hai aiutata. Se nessuno vive la notte, la notte muore. Tu mi hai dato la vita, come ha fatto tuo nonno, e altri prima di te. E altri ti seguiranno, non temere».

«Ma per loro d’ora in avanti io sarò solo un altro dei tanti che la notte si è presa e si è portata via… Per loro sarò perso».

«C’è sempre un prezzo da pagare…». La sua espressione si fece seria. «E adesso va’, trova un’altra casa per te. Il mondo è grande, ha molto da offrire…».

«Come un cielo stellato», suggerii, mentre sentivo le lacrime salirmi agli occhi, ma anche una grande pace invadermi l’anima.

«Come un cielo stellato», concordò. Un attimo dopo non era più accanto a me, ed io avevo incominciato il mio viaggio, mentre il profumo dei glicini sotto la luna riempiva la notte.