Gesù di Nazareth, detto il Cristo (Figlio di Maria)
1. Il problema di Gesù
1. Chi è - o
chi fu - Gesù di Nazareth?
Paradossalmente, proprio in un secolo come il nostro,
così profondamente segnato dalla secolarizzazione, questa domanda ricorre
continuamente. Gesù è un personaggio che interessa, che non lascia
indifferenti; è un personaggio che suscita le più diverse reazioni, che vanno
dall'ammirazione e dalla fede al disprezzo e all'irrisione. E ciò non da oggi.
Infatti, da oltre due secoli, la figura e il messaggio
di Gesù sono sottoposti all'indagine forse più vasta e approfondita che la
storia ricordi, tanto che sarebbe un'impresa assai ardua se si volessero anche
solo catalogare gli studi pubblicati su Gesù. Ancora oggi ogni anno escono su
di lui libri e articoli più che su ogni altro personaggio della storia. Eppure,
nonostante l'immenso impegno profuso da teologi, filosofi, storici ed esegeti,
non si è giunti ancora ad accordarsi sul significato della sua persona e del
suo messaggio.
2. Una figura complessa
Gesù è una figura
molto complessa e pertanto è alquanto difficile raggiungere un accordo
nella considerazione della sua identità. Inoltre il tempo nel quale egli è
vissuto, sia sotto il profilo culturale sia sotto l'aspetto religioso, era
molto turbolento e non è facile giungere sempre a conclusioni sicure e
storicamente inoppugnabili.
Indubbiamente la figura di Gesù è assai complessa; ma
ciò si può dire di ogni grande personalità religiosa: di Buddha, per esempio, e
di Maometto. E tuttavia, né attorno a Buddha né attorno a Maometto si è combattuta
e si combatte la battaglia che c'è stata e c'è attorno a Gesù. Perché?
Probabilmente, la spiegazione profonda va cercata in una
caratteristica esclusiva della sua figura.
Infatti,
fra tutti i grandi personaggi religiosi della storia,
Gesù
è l'unico che ha legato il destino eterno degli uomini
alla fede nella sua persona, cosicché chi crede in lui e nella sua parola
e lo
accetta come salvatore è salvo per sempre,
mentre
chi non crede in lui e lo respinge è perduto eternamente.
Si potrebbe certo ritenere pazzesca e assurda questa
pretesa di Gesù di determinare il destino eterno degli uomini e quindi
respingerla senza prestarle un minimo di attenzione. Non si dà importanza a
quello che dicono i pazzi, gli squilibrati e i megalomani. Ma questo - nel caso
di Gesù - non sarebbe ragionevole. Gesù infatti non fu né pazzo, né
squilibrato, né megalomane. Da quello di più certo che sappiamo di lui - al di
là di tutte le cose fantastiche o romanzate che si sono scritte o si scrivono
sulla sua persona - possiamo dire che egli fu un uomo di perfetto equilibrio
spirituale. D'altra parte, l'altezza morale e religiosa della sua figura, la
straordinarietà del suo messaggio, dei suoi gesti e dei suoi comportamenti,
della sua vita e della sua morte, l'impressione che egli ha lasciato sui suoi
discepoli, il prodigioso movimento che ha preso origine da lui e che in modo
così contrario a tutte le leggi della storia dura ancora oggi, fanno
intravedere in lui qualcosa che va al di là del puramente umano, diciamo pure
qualcosa di divino, e quindi invitano a prendere in seria considerazione la
pretesa che egli avanza - unico nella storia umana - di essere colui che
determina il destino eterno degli uomini.
In altre parole, Gesù - come non ha fatto nessun altro
uomo nella storia - non solo ha posto il
problema del senso dell'esistenza umana, ma ha anche legato tale senso alla sua
persona e al suo messaggio. Ecco perché nessun uomo che non sia chiuso al
drammatico problema della ricerca del senso della vita e s'interroghi perciò
sul suo destino di uomo, non può non porsi il problema di Gesù: non può cioè
non chiedersi chi sia Gesù e quale valore abbia la sua pretesa, non può non
rispondere a una precisa domanda che Gesù un giorno rivolse ai suoi discepoli e
che lungo la storia non cessa - in un
modo o in un altro - di rivolgere a ogni uomo che viene in questo mondo: “Voi,
chi dite che io sia?” (Mt 16,15).
3. Quello di Gesù non è un
problema “neutro”
Gesù dunque, con la sua persona e con la sua parola, non
solo solleva un problema di ordine storico di grande interesse
· chi è stato “storicamente” Gesù di
Nazareth?
ma pone domande “vitali”:
· Gesù era proprio quello che egli ha detto
di essere?
· Il destino degli uomini dipende davvero
dalla fede che si ha in lui?
· La salvezza è legata all'accoglienza del
suo messaggio?
Così, il problema di Gesù - in pratica, l'interrogativo:
“Chi è Gesù?” - non può lasciare nessuno indifferente, almeno nessuno di coloro
che, avendo raggiunto un certo grado di maturità umana e di capacità di
riflessione, si pongono il problema del senso della propria vita. In realtà, la pretesa di Gesù, per quanto a prima
vista possa apparire pazzesca e assurda, potrebbe essere giusta.
Ciò significa che il problema di Gesù non è un problema
“neutro”: chiunque lo affronti e lo prenda in considerazione, sia pure non a
fondo, sente, presto o tardi, che in esso in qualche misura sono implicati la
propria persona e il proprio destino. Il problema di Gesù è, in fondo, un “suo”
problema e, forse, anche “il” suo problema.
2. Le fonti della vita di Gesù
Quello che noi sappiamo
di Gesù lo conosciamo dai Vangeli; altre fonti ci danno qualche scarsa notizia.
Quali sono tali fonti? E, soprattutto, qual è il loro valore storico?
Alcuni fonti sono non
cristiane; altre sono cristiane, ma sono al di fuori dei quattro Vangeli, i
soli accettati dalla Chiesa come divinamente ispirati e quindi garantiti
dall'autorità stessa di Dio.
1. Fonti non cristiane
Essendo Gesù un ebreo, nato, vissuto e morto in
Palestina, ci si potrebbe attendere che i documenti ebraici contemporanei o di
poco posteriori parlino di lui; invece dalle fonti ebraiche non si ricava quasi
nulla di storicamente valido circa la persona, l’insegnamento, la vita e la
morte di Gesù. Certo nel Talmud (IV - V secolo d. C.) si
parla di Gesù, ma si tratta di tradizioni tardive e non autonome, dipendenti
dagli scritti canonici o apocrifi cristiani. Gesù è presentato - in polemica
con i cristiani - come figlio di un soldato chiamato Pandera, che avrebbe messo
incinta sua madre Maria, una parrucchiera, e come mago e seduttore del popolo:
egli, per aver indotto il popolo all'idolatria, sarebbe stato lapidato e poi
appeso a un palo nella città di Lidda alla vigilia della Pasqua. Probabilmente,
nella tradizione si trattava di un giudeo dedito alla magia a cui il Talmud
avrebbe dato il nome di Gesù ha-nozri.
Una testimonianza proveniente dal mondo ebraico è quella
dello storico Giuseppe Flavio, nato
verso il 37 - 38 d. C. in Palestina, fariseo e organizzatore della resistenza antiromana
in Galilea nel 66, ma passato ai romani dopo le vittorie di Vespasiano e di
Tito, dai quali prese il nome gentilizio di Flavio. Nella sua opera Antichità giudaiche egli parla due volte
di Gesù. Nel primo testo riferisce che il sommo sacerdote Anano, al
tempo della successione del procuratore romano della Giudea, Albino, alla morte
di Festo, approfittò dell'assenza del governatore romano per un colpo di mano:
convocò infatti il Sinedrio e fece comparire dinanzi ad esso “il fratello di
Gesù, chiamato Cristo, il cui nome era Giacomo e alcuni altri come trasgressori
della Legge e li fece lapidare”
(Antichità giudaiche, XX, 9, 1, par. 200).
Il secondo testo è molto più ampio e dà numerose notizie
su Gesù; ma sembra che copisti cristiani lo abbiano interpolato per renderlo
favorevole al cristianesimo. Ad ogni modo, come scrive un autorevole esegeta,
quello che di sicuro si ricava da questi due testi è che
“Giuseppe Flavio menziona Gesù come
fratello di Giacomo e lo distingue da altri personaggi chiamati con lo stesso
nome, riferendo l'appellativo e la credenza: chiamato o considerato
"Cristo"; di lui conosce l'attività d'insegnamento e miracolistica;
riguardo al processo e alla condanna di Gesù alla morte di croce menziona
l'iniziativa giudaica e l'intervento decisivo di Pilato; sa anche
dell'esistenza di un movimento di discepoli di origine giudaica e greca che si
richiamano alla sua persona e alla convinzione di averlo visto vivo dopo la
morte” .
(R. Fabris, Gesù di Nazareth, p. 46)
Una seconda testimonianza proviene dal mondo romano: lo
storico Tacito, che scrive gli
Annales negli anni 115-117 d. C., descrivendo l'incendio di Roma (luglio del 64
d.C.), osserva che Nerone, per stornare da sé l'accusa di aver provocato
l'incendio, “fece passare per colpevoli e sottopose a raffinatissimi tormenti
coloro che il volgo chiamava cristiani e odiava per le loro azioni nefande. Cristo,
il fondatore della setta, dal quale avevano preso il nome, era stato
giustiziato dal procuratore Ponzio Pilato, sotto il regno di Tiberio. Ma la
rovinosa superstizione, repressa per il momento, dilagava di nuovo non solo per
la Giudea, luogo di origine di quel male, ma anche per Roma, dove confluiscono
e trovano seguito tutte le atrocità e le vergogne del mondo” (C. Tacito,
Annales XV, 44).
Questa notizia è assai importante, perché proviene da
uno storico serio e molto informato, fortemente contrario al cristianesimo, che
egli considera una “rovinosa superstizione”: egli conosce il fondatore della
setta cristiana, Cristo, e sa che è stato condannato alla pena capitale dal
procuratore della Giudea, Ponzio Pilato, sotto il regno di Tiberio. Tutto ciò
concorda perfettamente con quanto affermano i Vangeli circa il titolo
attribuito a Gesù - Cristo - e circa la morte di Gesù. Specialmente la notizia
del supplizio inflitto da Pilato a Gesù rende vane e ridicole le leggende
secondo le quali la morte di Gesù sarebbe stata apparente oppure un altro
sarebbe morto al suo posto, cosicché Gesù, scampato alla morte, sarebbe fuggito
in India, dove sarebbe morto alla bella età di oltre 80 anni: leggende che
ritornano anche sulla stampa italiana nel tempo di Pasqua!
Accenni a Cristo e ai cristiani si trovano anche in Svetonio e in Plinio il Giovane, ma sono accenni piuttosto vaghi. Ad ogni modo,
servono a smentire la supposizione, davvero peregrina, di alcuni studiosi
(pochissimi in verità) secondo i quali Gesù non sarebbe mai esistito e la sua
storia sarebbe un'invenzione dei cristiani. Infatti non sono soltanto le fonti
cristiane a parlare di Gesù, ma anche fonti ebraiche e pagane
2. I Vangeli apocrifi
Perciò, per conoscere chi è Gesù bisogna interrogare
soprattutto le fonti cristiane. Esse si possono dividere in due categorie: i Vangeli e gli altri scritti del Nuovo Testamento. Questi ultimi sono scritti
occasionali, che rispondono a precisi problemi e a concrete esigenze delle
comunità cristiane. Essi non trattano direttamente della vita e
dell'insegnamento di Gesù, ma suppongono già la catechesi su di lui, sulla sua
persona, sul suo insegnamento, sui suoi miracoli, sulla sua morte e sulla sua
risurrezione; perciò si contentano di richiami storici, talvolta di semplici
accenni a quanto coloro a cui gli scritti sono diretti già conoscono della
tradizione che riguarda Gesù. Così non ci si deve aspettare di trovare molto in
tali scritti per quanto concerne la sua figura. Per esempio, dalle Lettere di
san Paolo si ricava che Gesù, ebreo della stirpe di Davide, è vissuto
soprattutto in Giudea e Galilea, ha raccolto un gruppo di discepoli (i
“Dodici”), tra i quali emergono Cefa - Pietro e Giovanni; alla vigilia della
sua morte ha celebrato con i suoi discepoli la Cena, nella quale ha istituito
l'Eucaristia; è stato messo a morte col supplizio della crocifissione, è stato
sepolto, è risorto da morte ed è apparso vivente a molti testimoni. Si tratta
certamente di notizie essenziali sulla figura di Gesù, ma non tali da farlo
conoscere con una certa compiutezza.
Perciò i testi più importanti per la conoscenza di Gesù
sono i Vangeli. Tra di essi bisogna distinguere quelli apocrifi e quelli
canonici. I Vangeli “apocrifi”, cioè “segreti”, sono quelli attribuiti ad
alcuni Apostoli, ma non accolti dalla Chiesa nel Canone, cioè non riconosciuti
come ispirati da Dio. Sono opere che vanno dal 100 - 150 d. C. al V - VI secolo.
Sono quindi tutti posteriori ai Vangeli canonici. Ma alcuni sono più vicini a
questi ultimi, come il Vangelo degli
Ebrei, il Vangelo degli Egiziani, il Vangelo degli Ebioniti, il Vangelo di
Pietro, che risalgono agli anni 100 - 150 e di cui si possiedono solo
frammenti: questi Vangeli sono di origine giudaico - cristiana ed è probabile
che contenessero anche qualche tradizione o qualche parola autentica di Gesù,
che non si trova nei Vangeli canonici.
Più tardivi sono il Protovangelo
di Giacomo (verso il 150 - 200 d. C.) e altri Vangeli dell'infanzia di
Gesù, che furono scritti per soddisfare la curiosità dei fedeli su punti che i
Vangeli canonici avevano appena sfiorato: perciò si dilungano, in forma
romanzata, sulla nascita e la giovinezza di Maria, la madre di Gesù; sulla
nascita e sull'infanzia di Gesù, con intenti apologetici (per esempio,
difendere la verginità di Maria) o edificanti. Talvolta mancano di buon gusto o
presentano Gesù come un piccolo mago, che fabbrica uccelli di creta in giorno
di sabato e in risposta alle critiche che gli sono rivolte dà ad essi la vita e
li fa volare; o come un ragazzino cattivo che fa morire i compagni che lo
deridono (salvo poi a risuscitarne alcuni poco dopo).
Ci sono poi i Vangeli
gnostici, il più noto dei quali è il Vangelo
di Tommaso scritto verso il 200 - 250, che riporta 114 “detti” di
Gesù: alcuni detti sono identici o molto vicini a quelli dei Vangeli canonici,
ma la maggior parte sono manipolati in senso gnostico oppure sono formulazioni
propriamente gnostiche. Il Vangelo di Tommaso ha in realtà lo scopo di mettere
sotto l'autorità di Gesù le dottrine dello gnosticismo, un sistema di pensiero
radicalmente anticristiano e vivacemente combattuto dalla Chiesa.
In conclusione, dai Vangeli apocrifi non si può ricavare
quasi nulla, per quanto riguarda la storia di Gesù, perché la maggior parte di
essi contengono leggende inventate di sana pianta per motivi di edificazione o
per motivi apologetici, e alcuni di essi sono redatti per giustificare dottrine
eretiche. Cosicché “il loro valore storico diretto, generalmente parlando, è
assai tenue e il più delle volte nullo”.
Per conoscere chi è Gesù non si può che affidarsi ai
Vangeli canonici.
Essi sono quattro: il vangelo secondo Matteo, il vangelo
secondo Marco, il vangelo secondo Luca e il vangelo secondo Giovanni. I primi
tre si chiamano “sinottici” perché,
essendo in buona parte concordanti, se sono disposti su tre colonne parallele,
si possono leggere insieme, formando una “sinossi” (da synopsis, visione d'insieme).
Parlando di Vangeli, è necessario chiarire il termine “vangelo”. Esso viene dal greco euaggellion
(latino: Evangelium) e significa la
“Buona Notizia” o il “Lieto Messaggio” di salvezza che Gesù annuncia,
predicando la venuta del Regno di Dio, che si attua nella sua persona. Questo
messaggio di salvezza ha perciò come suo contenuto essenziale la persona di
Cristo, il suo insegnamento, la sua morte e la sua risurrezione: per cui questi
quattro piccoli libri si possono considerare un unico Vangelo. Perciò i termini
“vangelo” ed “evangelizzare” nella predicazione apostolica designano, l’uno la
predicazione su Gesù Cristo e sulla
salvezza da lui attuata, e l’altro l’azione di annunciare Cristo e il suo
messaggio. Ma questa predicazione s’intende, nel Nuovo Testamento, sempre come
trasmissione orale, fatta a viva voce non per iscritto. Colui che annunzia
oralmente il messaggio di Gesù è chiamato evangelista. Solo agli inizi del
secondo secolo (dal 100 d.C.) si comincia a usare il termine “vangelo” per
indicare lo scritto che contiene il messaggio di Gesù e il termine
“evangelista” per designare l’autore di tale scritto.
Quanto alla lingua,
noi oggi li possediamo solo in greco; quanto al testo, non possediamo più gli originali, ma solo copie, che sono
però antichissime: alcune frammentarie, come quelle dei papiri provenienti
dall'Egitto (dove si poterono conservare a causa del clima secco), altre
complete, come quelle dei codici in pergamena. I papiri sono molto antichi: uno
- il p52 - risale addirittura alla prima metà del secondo secolo (circa il 120
- 130) e riporta un brano del Vangelo di Giovanni.
I codici, che contengono i quattro Vangeli - alcuni dei
quali risalgono al IV secolo, come il Codice Vaticano (detto B) scritto verso
il 350 d.C. - sono circa 270. Dagli studi di critica testuale compiuti con
estrema accuratezza durante un secolo si rileva che il testo attuale dei Vangeli è criticamente sicuro e corrisponde
sostanzialmente al testo originale. Siamo quindi sicuri di possedere i Vangeli
quali sono stati redatti dai loro autori.
4. Autori, data e lingua dei
Vangeli
Chi sono gli autori dei quattro Vangeli? La tradizione
della Chiesa che risale ai primi tempi del cristianesimo parla di quattro
autori: Matteo, Marco, Luca e Giovanni. In realtà, i Vangeli si presentano
senza il nome dei loro autori. Così, la dicitura “Vangelo secondo Marco” non fa
parte del Vangelo, che comincia con le parole: “Inizio del Vangelo di Gesù
Cristo” (Mc 1,1).
Circa la data
di composizione ci sono due opinioni divergenti. L'opinione oggi più comune,
sostenuta dalla maggioranza degli esegeti, colloca la composizione dei tre
Sinottici tra gli anni 65-70 e 75-80 e la composizione del Vangelo di Giovanni
tra gli anni 90-100.
Il Vangelo di Matteo, secondo alcuni, sarebbe stato
composto poco dopo il 70 e, secondo altri, tra l'80 e l'85. Marco avrebbe
scritto il suo Vangelo negli anni tra la morte di san Pietro (64 d.C.) e la
distruzione di Gerusalemme (70 d.C.). Luca avrebbe scritto il suo Vangelo
intorno al 70, né molto prima né molto dopo. Secondo altri studiosi, che sono
oggi una minoranza, tuttavia molto qualificata, i Vangeli dovrebbero essere
retrodatati di alcuni decenni.
Ci sono divergenze anche per quanto riguarda la lingua originale in cui i Vangeli
furono scritti. La maggior parte degli esegeti sostiene che furono scritti in
greco; una minoranza ritiene che furono scritti in una lingua semitica
(aramaico o più probabilmente ebraico) e poi tradotti in greco, a causa dei
numerosissimi semitismi che non si spiegherebbero se la lingua originale fosse
stata la greca. Ad ogni modo, i Vangeli che oggi possediamo sono in greco.
3. La storicità dei vangeli
1. Il genere letterario dei
Vangeli
Quale scopo hanno avuto gli autori dei Vangeli
nel redigerli?
Gli evangelisti sono credenti in Gesù di Nazareth che
scrivono su di lui, raccontando quello che egli ha operato e riportando i suoi
insegnamenti, per destare e consolidare la fede dei discepoli di Gesù. Scrive,
infatti, Giovanni a chiusura del suo Vangelo:
“Molti altri segni fece Gesù in presenza
dei suoi discepoli, ma non sono scritti in questo libro. Questi sono stati
scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché,
credendo, abbiate la vita nel suo nome” (Gv 20,30-31). A sua volta Luca inizia
il suo Vangelo dicendo che lo scrive perché il cristiano Teofilo “si possa
rendere conto della solidità degli insegnamenti che ha ricevuto” (Lc 1,4).
Anche di Marco si può affermare che scrive il suo Vangelo per “condurre il
lettore a riconoscere in Gesù di Nazareth il Figlio di Dio, Colui che ci ha
salvati trionfando del demonio”.
I
Vangeli appartengono perciò a un genere letterario particolare: sono opere di
catechesi, con finalità di evangelizzazione. Appartengono cioè al genere
catechetico, non al genere storico. Non sono vite di Gesù: l'interesse
cronologico è assente, tanto che, attenendosi ai dati dei Vangeli, non si può
stabilire con certezza neppure la durata della vita pubblica di Gesù né sapere
con precisione in quale anno Gesù sia nato e sia morto.
Scrive a questo proposito Giovanni Paolo II nella sua
ultima enciclica Fides et ratio:
Quanto
ai Vangeli, la loro verità non si riduce certo alla narrazione di semplici
avvenimenti storici o alla rilevanza di fatti neutrali, come vorrebbe il positivismo
storicista. Questi testi al contrario, espongono eventi la cui verità sta oltre
il semplice accadere storico: sta nel loro significato nella e per la storia
della salvezza.
A questo punto si pone un problema: poiché i Vangeli
sono stati redatti alcuni decenni dopo la morte di Gesù e poiché sono opere non
storiche, ma catechetiche, possiamo attraverso di essi conoscere chi è stato
realmente Gesù di Nazareth?
In altre parole, qual è il valore storico dei Vangeli?
Il loro genere letterario e la loro distanza dagli avvenimenti che narrano non
costituiscono un impedimento alla conoscenza storica di Gesù?
Da quanto finora detto emerge la necessità di passare
attraverso i vangeli per conoscere Gesù di Nazareth. Ma qui subito si impone
un’altra questione: possiamo essere sicuri che prima gli Apostoli, poi la
Chiesa primitiva, poi coloro che per primi hanno messo per iscritto le
tradizioni e insieme i quattro evangelisti che hanno redatto i Vangeli quali
noi li possediamo, interpretando la figura e il messaggio di Gesù, non li
abbiano alterati o deformati? In altre parole, possiamo essere sicuri che, attraverso questa lunga catena di
“testimoni”, giungiamo a conoscere Gesù di Nazareth?
È possibile o no stabilire il volto vero di Gesù,
di quell’uomo che visse la sua breve storia in Palestina circa venti secoli or
sono? Oppure la sua distanza da noi - nel tempo, nella cultura, nella mentalità
- è così grande da consentirci di intravedere soltanto un’immagine molto
sbiadita, che poi la nostra fantasia e i nostri pregiudizi colorano a
piacimento, facendone una figura simbolica o mitica, proiezione dei nostri
ideali?
È questa la cosiddetta questione del Gesù
storico.
· Chi veramente fu Gesù?
· E prima ancora, quali furono i suoi gesti e
le sue parole?
· Quale fu lo svolgimento della sua vita?
· Che cosa accadde esattamente di tanto
importante un paio di millenni fa, da lasciare un segno profondo in tutta la
storia successiva?
Vale la pena di allontanare subito un equivoco.
Anche se si giunge a ricostruire con esattezza o almeno con grande
approssimazione gli avvenimenti della vita di Gesù, non si ha automaticamente
la risposta all’interrogativo: chi è costui? Quelli che incontrarono Gesù su
questa terra - per i quali, evidentemente, il problema del Gesù storico non
esisteva - si divisero di fronte a quella domanda. La sua identità non poteva
che essere riconosciuta a prezzo di una scelta libera e compromettente, carica
di conseguenze per la vita. La risposta alla domanda: “chi è costui?”, non
veniva semplicemente dai fatti, ma soprattutto dall’atteggiamento personale che
ciascuno prendeva. Tanto meno potrà oggi venire la risposta da un’indagine
storica “neutrale” sui fatti.
Il risultato
massimo che si può sperare di raggiungere con la ricerca sul Gesù storico
sarà quello di trovarsi, come i contemporanei, di fronte ad una pietra di
inciampo, ad una spada tagliente, ad un ultimatum: o con me o contro di me.
Il problema è comunque essenziale, perché il
cristianesimo si fonda non su una dottrina, una “conoscenza”, per quanto
elevata possa essere, ma si fonda sull'evento storico di Gesù di Nazareth,
sulla sua “persona”, cioè su quello che egli storicamente è stato, sulle parole
che egli ha detto e sulle azioni che egli ha compiuto, sulla sua vita, sulla
sua morte in croce e sulla sua risurrezione dalla morte. Solo se è in
continuità vivente con Gesù di Nazareth, il cristianesimo sta solidamente in
piedi e non si riduce a fatto mitico e leggendario, senza reale consistenza.
3. La storia della “critica”
ai Vangeli
Come, storicamente, è stato affrontato questo problema?
Fino al Settecento, il problema del valore storico dei Vangeli non si è posto.
La questione dei Gesù storico fu introdotta
brutalmente da un incredulo “illuminato” tedesco, H.S. Reimarus (1694-1768).
C’erano una volta dodici uomini che si lasciarono sedurre da uno
pseudo-profeta fanatico, abbandonarono i loro umili lavori per dedicarsi
all’impresa grandiosa da costui predicata. Ma il profeta fanatico finì sulla
croce, e i dodici, non volendo riconoscere di essersi ingannati e illusi, ne
nascosero il cadavere e inventarono la storia della sua risurrezione. Il nuovo
inganno durò molto più del primo.
Questa ricostruzione “critica” dei vangeli è
significativa. In che consiste la sua pretesa di criticità? Nel ridurre la
storia inquietante e incredibile dei vangeli alle dimensioni di una faccenda
plausibile, dove tutti i personaggi hanno la statura degli uomini che
conosciamo. Il tentativo di Reimarus si potrebbe così tradurre: state tranquilli,
uomini moderni, duemila anni fa in Galilea non è successo nulla d’insolito,
nulla che vi debba inquietare!
La strada aperta da Reimarus venne percorsa da parecchi
altri tra cui D. F. Strauss con la
sua Vita di Gesù (1837). Essi espressero nei confronti dei Vangeli uno
scetticismo totale. Secondo Strauss, il Cristo dei Vangeli, confessato dai
cristiani come il Dio incarnato, è un Gesù “mitizzato” e quindi c'è un fossato
invalicabile tra Gesù di Nazareth e il Cristo dei Vangeli.
Al contrario di Strauss, la scuola liberale protestante, rappresentata tra gli altri da H. J.
Holtzmann, A. Harnack ed E. Renan, ritenne che fosse possibile scoprire l'uomo
Gesù servendosi di fonti “storicamente pure”, quali si ritenevano il Vangelo di
Marco e una raccolta di parole di Gesù, detta fonte Q (dal tedesco Quelle fonte). Ma nel 1906 A. Schweitzer mostrò che il tentativo
della scuola liberale era fallito, non essendo possibile scrivere una vita di
Gesù. In verità il tentativo della Scuola liberale di ricostruire la verità
storica della vita di Gesù è viziato da una pregiudiziale di fondo. Quella
appunto di voler ritrovare a tutti i costi in Gesù i tratti della loro immagine
“moderno” di religiosità. Questa immagine suppone una visione “romantica”
dell’uomo, della quale i tratti dominanti sono il sentimento mistico-religioso
della vicinanza di Dio e il sentimento di fraternità universale. I teologi
liberali non hanno grande difficoltà a trovare qualche testo evangelico capace
di confermare la convinzione che il Gesù della storia corrisponda
effettivamente a questi tratti del loro uomo ideale.
In base alla loro visione del mondo, questi
studiosi liberali dichiarano pregiudizialmente impossibili alcune cose: i
miracoli, innanzi tutto, ma anche le affermazioni di Gesù incomprensibili sulla
bocca di un uomo, come ad esempio: “Ti sono rimessi i tuoi peccati”. Tutte
queste cose sono eliminate dalla storia di Gesù e attribuite al “mito” che la
fede primitiva avrebbe creato quale espressione della propria ammirazione per
lui.
Negli stessi anni M.
Kahler, distinguendo il “Gesù storico” e il “Cristo del kerygma”, affermò
che quello che a noi oggi interessa è il “Cristo predicato”, che è il Gesù
“reale”. Quanto al “cosiddetto Gesù storico”, sappiamo assai poco; ma questo è
senza importanza.
Colui che ha dato a queste idee un carattere radicale è
stato però R. Bultmann (1884 -
1976). Egli afferma anzitutto che noi non possiamo sapere praticamente niente
della vita e della personalità di Gesù, perché le fonti cristiane in nostro possesso,
assai frammentarie e invase dalla leggenda, non hanno manifestato nessun
interesse su questo punto. Gesù è certamente esistito, ha esercitato il suo
ministero di rabbì giudaico ed è
morto sotto Ponzio Pilato. Ma oltre questo non possiamo saper nulla di lui,
perché i Vangeli sono professioni di fede e il Gesù che essi presentano è in
buona parte un Gesù “mitizzato” dalla primitiva comunità cristiana, la quale,
con la sua forte capacità “creativa”, del Gesù storico ha fatto il Figlio di
Dio incarnato nel seno della Vergine, gli ha attribuito miracoli, lo ha fatto
risorgere dalla morte. Dunque il Gesù dei Vangeli è una figura creata dalla
primitiva comunità cristiana. Del vero Gesù storico possiamo sapere soltanto
che è esistito, ha predicato ed è morto crocifisso. Ma questo fatto non ha oggi
per noi importanza alcuna, perché la fede autentica non si fonda sulla storia;
anzi, trova in questa un impedimento. La fede si fonda sul kerygma, cioè sul
“Cristo predicato” dalla Chiesa e consiste nella decisione di rimettersi
totalmente a Dio che ci interpella nel kerygma. Secondo Bultmann, il Gesù della
storia non sarebbe raggiungibile alla nostra indagine, perché le fonti
cristiane - i vangeli in primo luogo - non lo consentirebbero. Esse sono
preoccupate non di informarci sugli avvenimenti della sua vita, ma di proporre una visione della nostra vita ispirandosi alla sua predicazione.
Scettici sul valore storico dei Vangeli si dichiararono
anche gli esegeti K. L. Schmidt, M. Dibelius, G. Bertram, M. Albertz, che, come
R. Bultmann, si dedicarono allo studio delle tradizioni che sono alla base dei
Vangeli, con lo scopo di fare la “storia delle forme” (Formgeschichte) in cui tali tradizioni si espressero, a cominciare
dalle più antiche, cioè da quelle orali, per passare a mano a mano alle
tradizioni scritte. Essi posero l'accento sul potere creativo della comunità
primitiva, per cui le tradizioni sarebbero creazioni di questa e quindi prive
di ogni valore storico.
A questo scetticismo di Bultmann e degli altri esegeti
della Formgeschichte reagirono non soltanto esegeti protestanti “conservatori”,
come J. Jeremias, ma anche gli stessi discepoli di Bultmann, come E. Kasemann e
G. Bornkamm.
I
Vangeli - scriveva quest'ultimo nel 1956 - non autorizzano affatto “lo scetticismo”.
Essi ci rivelano invece con immediata potenza la figura storica di Gesù, sia
pure in maniera diversa dalle cronache e dalle descrizioni storiche. In maniera
molto evidente, ciò che i Vangeli riportano del messaggio di Gesù, delle sue
opere e della sua storia, è ancor sempre contrassegnato da un'autenticità, una
freschezza e una originalità per nulla offuscate dalla fede pasquale della
Chiesa, tratti questi che ci riconducono direttamente alla figura terrena di
Gesù”
La reazione contro il radicalismo di Bultmann è
proseguita tanto negli esegeti e nei teologi protestanti, quanto negli esegeti
e nei teologi cattolici, cosicché dopo due secoli il cerchio si è chiuso.
La critica storica,
partita dallo scetticismo di Reimarus, per raggiungere il suo culmine in
Bultmann, è giunta oggi ad affermare che noi attraverso i Vangeli possiamo
conoscere veramente Gesù di Nazareth, quello che egli è stato, quello che egli
ha insegnato e ha fatto. Solo che oggi l'affermazione
del valore e della solidità storica dei Vangeli non è acritica, come poteva
essere quella dei secoli passati, ma è criticamente fondata, essendo passata
attraverso un vaglio estremamente severo. Così noi, oggi, abbiamo la sicurezza
morale del valore storico dei Vangeli.
4. Quale storicità nei Vangeli?
La storicità che dobbiamo chiedere ai Vangeli non è però
la registrazione dei fatti nella loro materialità, cioè “come sono realmente
avvenuti”, dunque allo stato bruto, al di fuori di ogni interpretazione. In
realtà lo storico è colui che coglie il fatto, non nella sua materialità
oggettiva, come potrebbe farlo una macchina fotografica o un magnetofono, ma
nel suo senso e nella sua intenzionalità.
In questo senso i Vangeli sono storici. Gli evangelisti, infatti, riportano i fatti
e i detti di Gesù, e dunque la sua esistenza terrena, ma nel senso che Gesù ha
dato ad essi e con la comprensione che ha avuto di essi la primitiva comunità
cristiana.
I Vangeli sono storici perché riportano “avvenimenti
significanti”, carichi di un senso che non è ad essi aggiunto dall'esterno, ma
che è ad essi “interiore”, e che è venuto a mano a mano manifestandosi, quando
i fatti e i detti di Gesù sono stati “vissuti” nella primitiva comunità
apostolica. Bisogna infine notare, sempre a proposito della storicità dei Vangeli,
da una parte che si tratta di “storicità
globale” e, dall'altra, che possono esserci diversi livelli di storicità:
così il racconto della passione ha un livello di storicità più alto dei
racconti dell'infanzia.
5. Come sono nati i Vangeli
Come risulta dalla “storia della redazione”, i Vangeli,
da una parte sono stati redatti dopo alcuni decenni dalla morte di Gesù e,
dall'altra, utilizzano tradizioni scritte e orali che giungono agli evangelisti
dalla primitiva comunità cristiana. Si pone allora il problema: che cosa è
avvenuto nell'intervallo tra la morte di Gesù e la redazione dei Vangeli? È
precisamente il tempo in cui si sono formate le tradizioni orali e scritte su
Gesù, poi raccolte e ordinate dai quattro evangelisti. Essi infatti come appare
chiaramente dalla critica interna dei testi evangelici, sono veri e propri
autori e non semplicemente compilatori; ma il materiale che hanno elaborato,
imprimendovi un marchio personale non è un prodotto della loro fantasia, bensì
proviene dalla tradizione.
Lo stesso evangelista Luca spiega questo processo
nell’introduzione del suo Vangelo
1Poiché molti han posto mano a stendere un
racconto degli avvenimenti successi tra di noi, 2come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono
testimoni fin da principio e divennero ministri della parola, 3così ho deciso anch`io di
fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi e di scriverne per
te un resoconto ordinato, illustre Teòfilo, 4perché ti possa rendere conto della solidità degli
insegnamenti che hai ricevuto. (Lc 1,1-4)
All’indomani della morte di Gesù, la prima
preoccupazione dei discepoli, con ogni probabilità, non fu quella di raccontare
ai giudei increduli la sua vita, ma annunciare la notizia della sua
risurrezione e quindi proclamare che lui era il Messia atteso da Israele.
Sia ai giudei sia ai cristiani, gli apostoli
predicavano inizialmente non per informare ma piuttosto per ricordare,
interpretare e chiarire il senso della vita di Gesù e della sua morte nella
luce nuova dischiusa dalla risurrezione.
Furono le occasioni concrete della vita delle
comunità primitive a rendere “attuale” il ricordo di questo o di quell’altro
insegnamento di Gesù. L’annuncio ai pagani (ad essi occorreva anche raccontare
i fatti), la difesa contro i giudei, l’istruzione di coloro che già s’erano
convertiti, la celebrazione del battesimo o dell’eucaristia, inducevano gli
apostoli e i loro collaboratori a ricordare, secondo le occasioni, questa o
quella parola di Gesù, capace di illuminare il senso del momento presente. Il ricordo
era sempre anche una rilettura del passato alla luce della risurrezione e in
riferimento alla situazione concreta.
Si distinguono tre momenti fondamentali
attraversati dalla tradizione evangelica prima di giungere alla sua
formulazione definitiva.
1. Il primo momento è quello della predicazione e dell’opera di Gesù
anteriore alla Pasqua: di esse furono testimoni oculari i discepoli scelti da Gesù stesso; egli riservò a loro
un’istruzione particolare e si preoccupò attivamente della comprensione che
essi avevano del suo messaggio.
2. Il secondo momento è quello della predicazione
apostolica, alimentata per un verso dalla memoria dei detti e dei fatti di
Gesù, e per altro verso dalla luce nuova ad essi procurata dall’esperienza
pasquale; tale predicazione teneva presenti le esigenze dei vari uditori e dei
diversi contesti concreti della missione della Chiesa.
3. Il terzo momento finalmente è quello della redazione scritta della predicazione apostolica; anche questa
redazione scritta attraversa fasi successive, delle quali i vangeli che noi
possediamo sono il documento ultimo ed insuperabile. Prima si formarono varie
raccolte relative alla figura di Gesù. Erano di diversa estensione: alcune
molto brevi, altre più ampie; alcune narravano i fatti della vita di Gesù,
soprattutto la sua passione e i suoi miracoli; altre riportavano le sue parole,
i suoi insegnamenti, le sue polemiche con gli scribi e i farisei. Così, insieme con le tradizioni orali, che
continuarono a sussistere, si ebbero delle collezioni scritte.
La distinzione di questi tre momenti della
tradizione dei vangeli è sostanzialmente accolta come principio generale per la
lettura di essi anche in autorevoli documenti del magistero della Chiesa.
Qui sorge comunque un’altra questione: le primitive
comunità cristiane, nelle loro tradizioni orali e scritte, hanno conservato e
riferito fedelmente quello che Gesù ha fatto e ha detto, oppure hanno “creato”
di sana pianta, per i loro bisogni liturgici e catechetici, detti e fatti,
attribuendoli a Gesù per dare ad essi maggiore autorità? È la comunità
primitiva che ha “creato” il “mito” Gesù, come pretende R. Bultmann?
6. Continuità tra Gesù e
Chiesa primitiva
Che la comunità
cristiana primitiva sia stata “creatrice” - e non, invece, “tradizionale” - è
cosa storicamente non verosimile. Che cos'era, infatti, la
comunità primitiva? Dalla storia sappiamo che era la comunità dei credenti in
Gesù di Nazareth, il Messia Figlio di Dio, crocifisso e risorto, riunita
attorno ai “Dodici”, cioè attorno a coloro che erano vissuti con Gesù dal
battesimo di Giovanni fino alla sua ascensione al cielo, oppure attorno a
persone da essi designate per essere come loro, “testimoni” di Gesù, della sua
vita, della sua morte e, soprattutto, della sua risurrezione. Nella comunità di
Gerusalemme i “Dodici” e nelle altre comunità i “testimoni” da essi designati
esercitavano (Lc 1,2) “il ministero della parola”, cioè trasmettevano quello
che essi avevano visto e udito da Gesù stesso. In realtà le primitive comunità
cristiane non erano raccolte di liberi pensatori, intenti a creare storie
leggendarie su Gesù, ma erano comunità ben strutturate, assidue - come è detto
della primissima comunità di Gerusalemme - “nell'ascoltare l'insegnamento degli
Apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere” (At
2,42).
Così le primitive comunità cristiane vivevano
dell'insegnamento degli Apostoli. Ora è chiaro che questi, legati a Gesù da un
affetto profondo e insieme da una profonda fede nella sua qualità di Signore
risorto, parlando di Gesù non potevano dire se non quello che avevano visto con
i propri occhi e udito con le proprie orecchie. Il contrario sarebbe stato
psicologicamente impossibile. Solo dopo aver visto Gesù risorto ed essere stati
per molto tempo con lui, e soprattutto dopo che erano stati istruiti da Gesù
risorto sul suo destino e sul modo di comprendere le Sacre Scritture, i loro
occhi si erano aperti sul suo mistero. Così, alla luce di questo mistero,
vedevano in una luce nuova i fatti e i detti del Gesù storico. Proiettavano
cioè sulla vita terrena di Gesù la luce della risurrezione, che faceva loro
vedere e capire Gesù in maniera assai più profonda e dunque assai più vera.
Si formarono così, all'interno delle comunità, alcune
tradizioni su Gesù, che risalivano agli Apostoli e ai loro discepoli e che le
comunità si trasmettevano fedelmente, poiché l'atteggiamento delle comunità
primitive era quello della fedeltà nel “trasmettere” ciò che avevano
“ricevuto”, della fedeltà alla “tradizione”.
San Paolo, scrivendo ai cristiani di Corinto nel 53 - 54 d. C., diceva: “Vi rendo
noto, fratelli, il Vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto [...].
Vi ho trasmesso, dunque, anzitutto quello che anch'io ho ricevuto” (1 Cor
15,1.3). Cioè, san Paolo ha “ricevuto” dalla primitiva comunità cristiana già
verso il 35 d. C. (cioè circa cinque anni dopo la morte e la risurrezione di
Gesù) ciò che egli ora “trasmette” ai Corinzi: che Gesù è morto, è stato
sepolto ed è risuscitato il terzo giorno; che è apparso a Cefa (Pietro) e quindi
ai Dodici, poi a più di 500 fratelli, la maggior parte dei quali vive ancora,
poi a Giacomo e a tutti gli apostoli.
Perciò nelle comunità tutto si reggeva sulla
“trasmissione” delle “tradizioni”.
Esiste dunque una continuità tra il Gesù terreno e la Chiesa
primitiva postpasquale: tale continuità è assicurata dai “testimoni” di Gesù,
cioè in primo luogo dai Dodici e poi da quelli che erano stati testimoni
oculari di quanto Gesù aveva compiuto. Si va quindi dai Vangeli, quali oggi li
possediamo, alle comunità primitive, mediante le tradizioni orali e scritte da
queste tramandate; dalle comunità primitive a Gesù di Nazareth mediante la
testimonianza apostolica.
Nasce a questo punto la domanda: i Dodici e gli altri
testimoni sono stati fedeli nel trasmettere quello che hanno visto e udito da
Gesù? Tutto va nel senso di una risposta positiva. Gli Apostoli sono vissuti per oltre due anni con Gesù giorno e notte:
hanno avuto dunque il tempo di entrare in un contatto profondo e familiare con
lui. È vero che non sempre riuscivano a capirlo, tanto che Gesù talvolta ha
dovuto rimproverarli per la loro lentezza a comprendere; ma ciò non impediva
che quanto Gesù faceva e diceva s'imprimesse fortemente nel loro spirito. Erano
persone semplici, ma spesso, come nel caso di Pietro e Giovanni, d'intelligenza
vivace. Appartenendo a una “civiltà orale”, in cui la memoria era molto
sviluppata, erano in grado di ritenere le parole e i gesti di Gesù. D'altra
parte, Gesù nel suo parlare o ricorreva a parabole oppure usava frasi brevi e
incisive che si imprimevano facilmente nella memoria degli ascoltatori. Tutti
questi motivi fanno pensare che gli Apostoli, nel riferire le opere e le parole
di Gesù, siano stati sostanzialmente fedeli.
Del resto non si vede quale motivo avrebbero avuto per
non esserlo, tanto più che essi non solo erano profondamente affezionati a
Gesù, ma erano colpiti dal fatto che
parlasse con autorità, cosicché le sue parole godevano presso di loro di un
altissimo prestigio. Non potevano dunque essere tentati di cambiarne le parole,
nelle quali vedevano non semplici parole umane, ma una “rivelazione” di Dio,
che andava accolta con rispetto e alla quale non si poteva aggiungere o
togliere nulla.
In conclusione, per mezzo della testimonianza degli
Apostoli possiamo giungere fino a Gesù, possiamo cioè conoscere quello che egli
realmente ha compiuto e ha detto. Naturalmente spesso non possiamo conoscere le
parole di Gesù nella loro esattezza materiale, perché i detti e le parabole di
Gesù sono stati elaborati, attualizzati e applicati alle situazioni concrete
sia dalla Chiesa primitiva, sia dagli evangelisti nella loro qualità di autori
dei Vangeli, di teologi e di maestri delle comunità per le quali scrivevano; ma
almeno in certi casi siamo sicuri di ascoltare le parole di Gesù come egli le
ha pronunziate. Il caso più importante è quello della parola Abbà, usata da Gesù per rivolgersi al
Padre: parola che rappresenta il vertice della rivelazione cristiana, perché
con essa, da una parte, Gesù si rivela come Figlio di Dio e, dall'altra, rivela
Dio come Padre affettuoso e misericordioso degli uomini.
8. Dagli Apostoli ai Vangeli
Siamo così all'ultima domanda: i Vangeli, quali oggi li
possediamo, sono stati fedeli nel riportare la testimonianza degli Apostoli
consegnata alla Chiesa primitiva o l'hanno alterata e deformata nel loro sforzo
d'interpretare e attualizzare il messaggio di Gesù e di applicarlo alle
necessità concrete della loro comunità?
Alcuni fatti obbligano a rispondere che i Vangeli riportano fedelmente la
tradizione apostolica.
·
Così, quando gli evangelisti scrivono il loro
Vangelo, Gesù è adorato come Signore e Figlio di Dio; eppure i
Vangeli riferiscono fatti che potevano sembrare in contrasto con la
divinità di Gesù: che Gesù si è fatto battezzare da Giovanni e si è collocato
in tal modo tra i peccatori, è stato tentato da Satana, nell'Orto degli Ulivi
ha avuto paura di fronte alla morte e sulla croce ha sentito l'abbandono di
Dio, ha detto di non conoscere l'ora della fine del mondo. Evidentemente, non
avrebbero potuto inventare tali fatti.
·
Inoltre, quando gli evangelisti scrivono, la fede
cristiana si è diffusa nel mondo pagano; eppure nei Vangeli si riporta l'ordine
di Gesù agli Apostoli di non predicare ai samaritani e ai pagani.
·
Quando sono redatti i Vangeli, gli Apostoli sono
venerati come le colonne della Chiesa e i testimoni privilegiati di Gesù;
eppure i Vangeli in molti passi riportano fatti che non fanno loro onore e li
mettono in cattiva luce: così, sottolineano la loro incomprensione, i loro
difetti, i rimproveri che Gesù loro rivolge, la loro pusillanimità, il
tradimento di Giuda e il rinnegamento di Pietro.
·
Quando sono composti i Vangeli, il mondo
palestinese in cui Gesù è vissuto è del tutto scomparso, con la distruzione di
Gerusalemme; eppure i Vangeli danno un quadro di quel mondo estremamente esatto
e preciso, che essi non potevano conoscere se non attraverso antiche
testimonianze.
·
Infine, al tempo della redazione dei Vangeli, la
teologia, soprattutto per merito di san Paolo, si è molto sviluppata e termini
come “Regno dei cieli”, “Regno di Dio” e “Figlio dell'uomo” non sono più usati;
invece nei Vangeli Gesù parla continuamente del “Regno di Dio” e abitualmente
chiama se stesso “il Figlio dell'uomo”.
Questi fatti inducono a concludere che i Vangeli,
benché siano stati redatti definitivamente alcuni decenni dopo la morte di
Gesù, ne presentano fedelmente la figura e l'insegnamento. Essi non si possono
spiegare altrimenti se non con la chiara intenzione degli evangelisti di far
conoscere ai lettori nella loro autenticità storica la figura e l'insegnamento
di Gesù. Così si chiude il cerchio: dai Vangeli attuali si va alla Chiesa
primitiva; da questa agli Apostoli; dagli Apostoli a Gesù. Possiamo allora
concludere che i Vangeli, nonostante il loro carattere catechetico e la loro
relativa distanza dagli avvenimenti che narrano, hanno un innegabile e
documentato valore storico. Attraverso di essi noi abbiamo sicuro accesso a
Gesù di Nazareth. Pertanto nessuno - se non qualche superficiale, rimasto su
posizioni di retroguardia - osa avanzare il dubbio che i vangeli siano prodotto
della fantasia religiosa popolare, senza reali collegamenti con l’opera e la
parola di Gesù. Nessuno osa avanzare addirittura il dubbio che Gesù non sia mai
esistito.
L’uomo cerca tra le parole del mondo una parola diversa,
capace di dare speranza, di promettere e dare salvezza. Gesù ha la pretesa di
dare, di essere questa parola. É una pretesa che ci riguarda, ci impone il
confronto.
Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito,
ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato
e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita…, quello che
abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate
in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù
Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta.
(cfr. 1 Lettera di
Giovanni 1,1 e 3-4)
Apriamo il vangelo. Leggiamolo con attenzione e
pazienza. Soprattutto misuriamo la nostra vita con le sue parole perché la
nostra lettura non si trasformi nella soddisfazione di una semplice curiosità.
Cerchiamo anche di pregare, così come via via ne saremo capaci.
E Colui, i cui pensieri sono più grandi dei
nostri pensieri, la cui fedeltà è più grande della nostra incostanza, il cui
amore supera ogni nostra immaginazione, accompagnerà il nostro cammino.
4. Gesù nella storia
1. I
dati biografici
Gesù è un personaggio storico, non un mito
atemporale, perduto in un'epoca lontana. Egli è vissuto in Palestina al tempo
degli imperatori romani Augusto e Tiberio ed è morto sotto Ponzio Pilato nella
città di Gerusalemme. Tuttavia i dati biografici che possediamo su di lui sono
di diverso valore storico: alcuni sono assolutamente sicuri, altri sono
storicamente più incerti e soggetti a discussione. Ciò dipende dal fatto che
gli autori dei quattro Vangeli, che costituiscono per noi la fonte più
importante per la conoscenza di Gesù, sono interessati non tanto alla sua
biografia quanto al suo messaggio. Essi non intendono propriamente scrivere una
"vita dì Gesù" e quindi realizzare libri di storia, ma vogliono
compiere opera di annuncio e di catechesi. Ciò che soprattutto interessa
loro è quello che Gesù ha fatto e ha detto: il "quando", il
"come", il "dove" hanno ai loro occhi minore importanza.
È necessario tenere presente questo fatto per non
lasciarsi impressionare dalla scarsità dei dati biografici su Gesù: non
sappiamo, per esempio, in quale anno egli sia nato e in quale anno e giorno
preciso sia morto. Neppure dobbiamo scandalizzarci per le divergenze che su alcuni punti della
vita di Gesù troviamo nei Vangeli: le fonti e le tradizioni diverse a cui gli
evangelisti hanno attinto possono spiegarle nella maggior parte dei casi.
Soprattutto non dobbiamo scandalizzarci se nei Vangeli troviamo qualche
imprecisione storica.
Un
esempio.
Così, per fare un esempio, il Vangelo di Luca (2,2) parla di un censimento fatto al tempo in cui Quirinio
era governatore della Siria: censimento che sarebbe stato il motivo per cui
Giuseppe, sposo di Maria, che era incinta di Gesù, si recò insieme a lei a
Betlemme per farsi registrare. Ora, un censimento si svolse in Palestina, ma
esso avvenne, secondo quanto riferisce lo storico Giuseppe Flavio, nel 6-7
d.C., perché allora Quirinio diventò governatore della Siria: fu compiuto,
quindi, circa 12 anni dopo la nascita di Gesù. Sono state avanzate numerose
proposte interpretative per giustificare l'esattezza storica di quanto scrive
Luca. A tutt'oggi però non si può dire che sia stata trovata una spiegazione
pienamente soddisfacente, anche se le soluzioni del problema presentate dai
vari studiosi, pur non raccogliendo il consenso generale degli storici, non
mancano di forti probabilità: il fatto, per esempio, che Giuseppe Flavio parli
di un censimento eseguito da Quirinio nel 6-7 dopo Cristo non esclude che lo
stesso Quirinio abbia fatto un censimento nella Palestina 14 anni prima
(l'intervallo tra un censimento e l'altro era di 14 anni), cioè tra il 12 e l'8
avanti Cristo, e dunque nel tempo della nascita di Gesù, avvenuta nel 6-5
avanti Cristo (tra l'annuncio del censimento e il suo svolgimento effettivo
passava parecchio tempo). Perciò anche se l'indicazione storica di Luca,
secondo la quale Giuseppe e Maria sarebbero andati da Nazaret a Betlemme a
motivo del censimento, non può essere storicamente provata con certezza, non
può neppure essere respinta come falsa: se ha alcuni argomenti contro di sé, ne
ha altri a suo favore.
Ma anche nel caso che tale indicazione non fosse esatta, nel senso che
Giuseppe e Maria non si sarebbero recati a Betlemme a causa del censimento, ma
per altri motivi che noi non conosciamo e che quindi Luca, che ha scritto il
suo Vangelo 70-8o anni dopo gli avvenimenti, avendo saputo che al tempo di Gesù
c'era stato un censimento, abbia fatto di esso il motivo per cui Giuseppe e
Maria si recarono a Betlemme, incorrendo in tal modo in una imprecisione
storica, non ci si dovrebbe né meravigliare né scandalizzare, e tanto meno si
dovrebbe mettere in dubbio la storicità dei Vangeli.
In altre parole, questa e altre imprecisioni
storiche che si possono trovare nei Vangeli non devono scandalizzare i lettori
fino a far concludere che, poiché alcuni fatti della vita di Gesù, narrati
dagli evangelisti, sono storicamente poco precisi o poco esatti, non possiamo
essere certi di nulla oppure possiamo dubitate di tutto quello che riguarda
Gesù. La storia di Gesù è simile a
quella di ogni uomo. Il fatto che egli sia il Figlio di Dio fatto uomo non
cambia la sua condizione umana, storica: la condizione cioè di un uomo la cui
vita contiene fatti storicamente sicuri e fatti storicamente non accertabili o
della cui storicità sì può dubitare. La fede cristiana è fondata sulla storia,
cioè su fatti storici realmente avvenuti, come la nascita di Gesù, l'annuncio
del Vangelo da lui fatto, i miracoli da lui compiuti, la sua morte sulla croce
e la sua risurrezione dalla morte; ma la credibilità della fede cristiana non
comporta che tutto, nella vita di Gesù, debba essere storicamente certo o
accertabile. In realtà, quella su cui si fonda la fede cristiana è una storicità globale. Essa, cioè, riguarda
i fatti nella loro sostanza, non la precisione di tutti i dettagli degli avvenimenti.
Bisogna poi rilevare che il
fatto che i Vangeli siano libri divinamente ispirati non comporta l'assenza in
essi di eventuali imprecisioni e inesattezze per quanto riguarda la storia, la
geografia, le scienze: ciò che l'ispirazione divina garantisce assolutamente
è la verità religiosa, la verità che riguarda Dio e quello che Dio rivela
agli uomini perché si possano salvare, non l'esattezza storica dei fatti
narrati, l'esattezza della loro collocazione geografica e tanto meno
l'esattezza delle informazioni scientifiche. I Vangeli non sono libri di storia
o di scienza, ma sono libri che riportano la rivelazione delle verità religiose
che Dio ha rivelato per mezzo di Gesù Cristo in vista della salvezza degli
uomini e delle donne.
2. Il
luogo e la data della nascita di Gesù
"Dove" e "quando" è nato Gesù?
Circa il "dove",
tanto Matteo (2,1) quanto Luca (2,6-7), pur attingendo a fonti diverse,
concordano nel dire che Gesù è nato a Betlemme di Giudea, una cittadina
distante pochi chilometri da Gerusalemme. Betlemme era il luogo di origine
della famiglia di Davide: era giusto perciò che nascesse nella città di Davide
il Messia promesso da Dio al popolo d'Israele, che sarebbe dovuto essere di
discendenza davidica.
Che il Messia dovesse nascere a Betlemme era
convinzione comune, tanto che Giovanni la riporta come un'obiezione contro la
messianicità di Gesù, il quale era conosciuto come galileo e di cui si ignorava
la nascita a Betlemme: “Il Cristo [il Messia] viene forse dalla Galilea? Non
dice forse la Scrittura che il Cristo verrà dalla stirpe di Davide e da
Betlemme, il villaggio di Davide?” (Gv 7,41-42).
Circa il "quando"
è nato Gesù, i Vangeli si accontentano di dire:
“Al tempo di Erode,
re della Giudea” (Lc 1,5);
“Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del
re Erode” (Mt 2,1).
Questo re, di origine idumea, e perciò mezzo
giudeo e mezzo pagano e amico dei romani, regnò dal 37 al 4 a.C. Durante il suo
regno, con l'aiuto dei romani, ingrandì i suoi territori e ricostruì con grande
sfarzo il Tempio di Gerusalemme, ma fu odiato dal popolo, sia per la sua
origine, sia per la sua crudeltà. Infatti fece assassinare nel 35 Aristobulo III, nel 34 il cognato Giuseppe, nel 30 Ircano II, nel
79 la moglie Mariamme, nel 28 Alessandra, nel 27 il cognato Costobaro e i figli
di Babas, nel 7 i suoi figli Alessandro e Aristobulo; e nel 4, cinque giorni
prima di morire, fece giustiziare suo figlio Antipatro.
Sotto questo tiranno sanguinario dunque nacque
Gesù, e non meraviglia che un simile uomo desse l'ordine di uccidere i bambini
di Betlemme per colpire Gesù, nel quale poteva vedere un pretendente al trono.
Circa l'anno della nascita di Gesù, il
monaco scita Dionigi il Piccolo, morto prima del 556, la collocò
nell'anno 753 dalla fondazione di Roma; ma sbagliò i suoi calcoli, cosicché la
data tradizionale della nascita di Gesù - 25
dicembre del 753 ab Urbe condita
- è errata.
Non è esatto il giorno, perché l'assegnazione della nascita di
Gesù al 25 dicembre - che risale al III-IV secolo - fu dovuta, da una parte, a
considerazioni simboliche (il 25 dicembre
in quel tempo era ritenuto il solstizio d'inverno e la luce cominciava a
crescere e poteva dunque ben significare Cristo-Luce, che nasce e cresce) e,
dall'altra, a considerazioni storiche. Nel 276 l'imperatore Aureliano aveva
istituito per il 25 dicembre la festa del Sol invictus in onore
di Mitra; ora, il vero Sol invictus era
Gesù, e dunque quel giorno poteva giustamente essere dedicato a ricordarne la
nascita.
Non è esatto l'anno, perché Gesù nacque "al tempo del re Erode". Ora Erode
morì nel 750 dalla fondazione di
Roma, dunque tre anni prima della data in cui Dionigi fa nascere Gesù. Ma
poiché Erode fece uccidere i bambini di Betlemme "dai due anni in
giù" (Mt 2,16), la nascita di Gesù va collocata almeno
due-tre anni prima della morte del tiranno, cioè verso l'anno 748-747 dalla
fondazione di Roma, dunque nel 6-5 avanti Cristo. In altre parole, Gesù
probabilmente è nato circa sei anni prima della data tradizionale.
Ma, se Matteo e Luca sono piuttosto vaghi circa
la data di nascita di Gesù, sono invece espliciti e precisi nel dire "come" è nato. Essi infatti
affermano che Gesù è stato concepito senza intervento di uomo, ma "per
opera dello Spirito Santo", cioè attraverso un intervento
"creatore" di Dio, che non è assolutamente di natura sessuale, come
invece avviene nei racconti della nascita dei semidèi ad opera di un dio che si
unisce sessualmente a una donna. Perciò Giuseppe è lo sposo di Maria, ma non è
il padre naturale di Gesù, bensì solo quello legale, capace quindi di
trasmettergli la prerogativa della discendenza davidica. Evidentemente questo
fatto non può essere storicamente dimostrato, ma è rivelato da Dio e appartiene
al nucleo essenziale della fede cristiana.
É importante rilevare che la concezione verginale
di Gesù è un fatto reale, non semplicemente un simbolo, è il "segno
divino" dell'avvenimento più straordinario della storia umana:
l'incarnazione del Figlio di Dio, l'entrata di Dio nella storia umana.
3. La
vita di Gesù a Nazaret
Fin dalla sua infanzia Gesù ha abitato a Nazaret, una cittadina della Galilea, patria di
Giuseppe e di Maria, sua madre.
Quale lingua - o quali lingue - imparò a parlare Gesù?
Al suo tempo la lingua ebraica, in cui era
scritta la massima parte della Sacra Scrittura, non era più né parlata né
compresa dalla popolazione: essa restava come "lingua sacra" ed era
coltivata particolarmente dagli "scribi", il cui compito era di
studiare la Sacra Scrittura e di farla conoscere al popolo. La lingua che
questo usava era, invece, l'aramaico:
una lingua semitica, al pari dell'ebraico e abbastanza simile ad esso, ma non
del tutto, cosicché, quando la Sacra Scrittura veniva letta al popolo, per
renderla comprensibile, gli scribi vi aggiungevano la traduzione in aramaico o
la parafrasavano in questa lingua: di qui l'origine dei Targum. Così, la lingua parlata da Gesù abitualmente nella sua
predicazione al popolo era l'aramaico, come appare da alcune parole aramaiche
che i Vangeli ci hanno conservato.
Ma Gesù doveva conoscere anche
l'ebraico. Lo mostra un episodio
narrato dal Vangelo di Luca: un giorno Gesù entra nella sinagoga di Nazaret ed
è invitato a leggere un brano della Sacra Scrittura. Egli legge senza
difficoltà un brano del profeta Isaia, scritto in ebraico (Lc 4,16-19). Lo mostra anche il fatto che egli è chiamato rabbì, cioè "maestro", non solo dai suoi discepoli, ma dal
popolo e dagli stessi scribi: ora questo titolo era attribuito a coloro che
nelle sinagoghe leggevano, traducevano e commentavano la Sacra Scrittura.
Oltre all'aramaico e all'ebraico, Gesù conosceva
anche il greco?
È possibile, poiché la Galilea, sua patria,
confinava con regioni in cui si parlava il greco, era di popolazione mista ed
era attraversata da strade di comunicazione internazionali: si trattava perciò
di un Paese in cui il greco era abbastanza diffuso.
In ogni caso, la lingua materna di Gesù era
l'aramaico, che egli doveva parlare con la particolare inflessione usata
dai galilei e con certe sfumature dialettali che distinguevano subito un
galileo da un abitante della Giudea.
A Nazaret, Gesù imparò da Giuseppe il mestiere di
carpentiere e lo praticò fino
all'inizio della sua vita pubblica. Quest'attività artigianale era apprezzata
nell'ambiente ebraico del tempo. Il lavoro manuale era sacro, tanto che i rabbini
e i sacerdoti, oltre al loro ministero, dovevano esercitare un mestiere.
Quest'attività artigianale garantiva a Gesù un'autonomia sociale ed economica e
non lo faceva appartenere alla categoria dei più poveri del suo popolo.
Gesù dunque era ben inserito nel suo ambiente e
nulla faceva sospettare in lui qualcosa di straordinario. Questo spiega lo
stupore con cui al suo paese ne fu accolta la predicazione:
«“Donde gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è
stata data? E questi prodigi compiuti dalle sue mani? Non è costui il
carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Joses, di Giuda e
di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?”. E si scandalizzavano di
lui» (Mc 6,2-3).
Su un punto soltanto Gesù si discostava dal suo
ambiente: per la sua scelta di non
sposarsi. Una scelta che non trovava un'immediata giustificazione nel
giudaismo tradizionale e che fa pensare a Geremia, il quale scelse il celibato
come un segno per i suoi contemporanei (cfr Ger
16,1-13): per Gesù era il segno
del tempo nuovo inaugurato dall'irruzione del regno di Dio nella storia umana.
In realtà, anche se nulla appariva all'esterno, la vita interiore di Gesù negli
anni che passò a Nazaret dovette essere singolarmente profonda.
4. La
"famiglia" di Gesù
Gesù ha avuto fratelli e sorelle o era figlio
unico? La questione è stata nel passato ed è ancora oggi dibattuta. Gli esegeti
razionalisti non credenti e molti esegeti protestanti ritengono che Gesù abbia
avuto fratelli e sorelle nati prima e dopo di lui da Giuseppe e da Maria.
In realtà, i Vangeli parlano di
"fratelli" e di "sorelle" di Gesù: come fratelli sono
nominati Giacomo, Giuseppe (o
Joses), Simone e Giuda.
Ma questi erano fratelli carnali di Gesù oppure
cugini o parenti stretti? Per risolvere la questione, bisogna fare attenzione
ad alcuni fatti:
1) nella lingua greca per designare il
"fratello" e il "cugino" si usano due termini differenti: adelphos (fratello) e anepsios (cugino); invece nella lingua
ebraica il termine "fratello" indica tanto il fratello carnale quanto
il cugino e il termine "sorella" tanto la sorella carnale quanto la
cugina, oppure indica un parente stretto. Gli evangelisti Marco e Matteo hanno
scritto in greco, ma per indicare i cugini e i parenti stretti di Gesù hanno
usato il termine "fratello", che era quello corrente negli ambienti
di lingua aramaica, com'era la Galilea al tempo di Gesù. Sarebbe strano se
avessero usato il termine "cugino", che non era in uso nell'ambiente
in cui visse Gesù.
2) I "fratelli" di Gesù non sono
mai chiamati figli di Maria. Così Gesù è chiamato "il figlio di
Maria", ma Giacomo e gli altri sono soltanto suoi "fratelli". In
realtà, come appare da Mc 15,40,
almeno due di essi, Giacomo e Joses, sono figli di Maria, che non è la madre di
Gesù, ma è una sua "sorella", cioè una sua "cugina", che
sta accanto a lei sotto la croce di Gesù (Gv
19,25). Che questa Maria, madre di Giacomo e di Joses, fosse in realtà non
sorella carnale della madre di Gesù, ma sua "cugina" o parente
stretta, appare dal fatto che in una stessa famiglia non ci potevano essere due
sorelle con lo stesso nome.
3) Se Maria, la madre di Gesù, avesse avuto
altri figli, non si spiegherebbe il fatto che Gesù, sulla croce, affida sua
madre al "discepolo che egli amava", il quale "da quel momento
la prese nella sua casa" (Gv 19,26-27).
È evidente, infatti, che, se Maria avesse avuto altri figli grandi, sarebbe
spettato ad essi prendersi cura di lei, e non a un estraneo.
Si può, dunque, concludere con certezza che Gesù
era figlio unico di Maria e non aveva fratelli e sorelle carnali, ma soltanto
una numerosa schiera di cugini e di cugine.
5.
Gesù annuncia il regno di Dio
All'età di circa 34 anni, nel 28 d. C., Gesù
improvvisamente lasciò Nazaret e la sua famiglia per recarsi in Perea - a Betania,
al di là del fiume Giordano - e in
quel luogo sottoporsi al battesimo, cioè al rito d'immersione nell'acqua
corrente del fiume, proposto alle folle da Giovanni il Battista come simbolo e
impegno di conversione in vista del giudizio imminente di Dio. Nella vita di
Gesù il battesimo ricevuto da Giovanni fu
un momento decisivo: con la discesa dello Spirito Santo su di lui, egli fu
rivelato come Figlio di Dio e fu investito della missione di annunciare il
regno di Dio. La vita di Gesù ricevette un indirizzo nuovo: d'ora in poi
egli non sarebbe stato più il carpentiere di Nazaret, ma il predicatore
itinerante, annunziatore del regno di Dio.
Giovanni il Battista è visto dagli evangelisti
come il “precursore” di Gesù, la cui missione si compie quando Gesù inizia la
sua: infatti Gesù comincia a predicare dopo che Giovanni è stato imprigionato
dal tetrarca Erode Antipa e rinchiuso nella fortezza di Macheronte, dove sarà
decapitato qualche tempo dopo. Tuttavia, nella sua predicazione Gesù segue
una via diversa da quella del suo precursore. Non predica come Giovanni
l'imminenza del giudizio punitivo di Dio, ma, mentre chiama gli uomini alla
conversione, annuncia che il regno di Dio si è fatto vicino e si offre come
dono di salvezza per tutti, a cominciare dai poveri e dai peccatori. In realtà,
Giovanni il Battista è l'ultimo dei grandi profeti dell'Antico Testamento, che
annuncia il castigo imminente di Dio e chiama i peccatori alla penitenza. Gesù
si ricollega a questo richiamo profetico alla conversione, ma lo supera,
annunciando che il regno di Dio entra con la sua persona nella storia umana
come offerta misericordiosa e gratuita di salvezza per tutti.
Gesù si presenta come un rabbì, un "maestro": egli normalmente insegna
nelle sinagoghe oppure all'aperto e, quando si trova a Gerusalemme, nell'area
del Tempio, dove parla e discute con gli studiosi della Torah ("scribi"), appartenenti al partito dei farisei, la
cui caratteristica essenziale è un particolare rigore nell'interpretazione e
nell'osservanza della Legge. Il suo insegnamento ha subito un successo
straordinario: folle sempre più numerose accorrono per ascoltarlo. Esse sono
impressionate dall'autorità con cui parla: infatti non si appella nel suo
insegnamento agli antichi rabbì, come
fanno gli scribi, ma parla come “uno che ha autorità” (Mc 1,22).
Nei suoi spostamenti è seguito da un gruppo di
discepoli che egli si è scelto: essi condividono la sua vita itinerante, dopo
aver lasciato le loro famiglie, e lo aiutano nel ministero apostolico. Sono i
"Dodici", il primo dei
quali è Simone, chiamato da Gesù Kefas ("pietra":
di qui il nome Pietro), e l'ultimo è Giuda Iscariota, “quello che poi lo tradì”
(Mc 3,10): si tratta di uomini
provenienti da un ceto modesto, “senza istruzione e popolani”; nessuno
di essi è fariseo; anzi i farisei li disprezzano perché non conoscono la Legge;
alcuni sono sposati, come Simone, di cui si ricorda la suocera guarita da Gesù.
Nel gruppo dei "Dodici" emerge Simone-Pietro:
uomo di temperamento forte, vivace, impulsivo, talvolta irriflessivo, ma, come
tutti gli altri, animato da un ardente amore e da una totale devozione verso
Gesù.
Con i "Dodici" lo seguono stabilmente alcune donne, che lo assistono con i loro beni
(cfr Lc 8,2-3).
Per annunciare il suo messaggio Gesù percorre in
lungo e in largo la Palestina, spingendosi per brevi periodi anche oltre i suoi
confini, a nord nella Fenicia e ad est nella Decapoli. Ma i luoghi principali del suo ministero sono la Galilea, in
particolare le cittadine attorno al lago di Tiberiade e, tra queste, Cafarnao,
e la Giudea, particolarmente Gerusalemme, dove, secondo quanto
afferma l'evangelista Giovanni; Gesù si è recato varie volte per la festa di
Pasqua e per le altre feste, soggiornandovi frequentemente. È vero che i
Sinottici parlano di una sola Pasqua celebrata da Gesù a Gerusalemme: la Pasqua
della morte. Ma è risaputo che essi hanno organizzato i loro Vangeli sullo
schema di un viaggio compiuto da Gesù dalla Galilea a Gerusalemme, in Giudea,
passando per la Samaria: uno schema quindi artificiale, che serve a dare unità
ai loro Vangeli, ma che non corrisponde alla realtà storica.
6. Lo
scontro con i capi religiosi e politici di Israele
Alla sua attività di annunciatore del regno di
Dio, Gesù associa un'intensa attività di guaritore e di esorcista: egli infatti
è il “profeta potente in opere e parole” (Lc
24,19), che, mentre svolge un'incessante attività d'insegnamento, accoglie le
folle palestinesi, che gli portano i loro malati perché li guarisca. E difatti,
con la sola forza di una sua parola o con un semplice gesto delle mani, egli
guarisce le più diverse malattie e libera gli indemoniati dal potere di Satana,
che ha riconosciuto in lui il “Santo di Dio” (Mc 1,24). Queste guarigioni di ammalati e liberazioni di
indemoniati accrescono enormemente la popolarità di Gesù; ma nello stesso tempo
suscitano gelosia e preoccupazione nei capi religiosi e politici del popolo
d'Israele, in pratica, nelle classi sacerdotali e dell'aristocrazia,
appartenenti al partito dei sadducei (dal sacerdote Sadoq), strenui avversari
dei farisei (rigidi osservanti della Torah),
ma loro alleati nella lotta contro Gesù.
Così, Gesù si trova di fronte una doppia serie di
avversari: da una parte, i sacerdoti e gli anziani del popolo, di tendenza
sadducea; dall'altra, i dottori della Legge (gli scribi), di tendenza
farisaica. Il contrasto non è dovuto soltanto alla gelosia per il successo di
Gesù presso il popolo; molto più profondamente è dovuto al fatto che, col suo
insegnamento, Gesù sovverte da cima a fondo la religione tradizionale,
quale si era venuta costituendo a opera dei sacerdoti e degli scribi d'Israele
e le cui istituzioni principali erano la Torah e il Tempio. Di fatto, lo
scontro di Gesù con gli scribi-farisei avviene sulla Torah, mentre lo
scontro con i sacerdoti-sadducei avviene sul Tempio. Questo doppio
scontro si concluderà con la morte di Gesù sulla croce.
Lo scontro sulla Torah
avviene, anzitutto, a proposito del riposo sabbatico, che per gli
scribi-farisci è assoluto, mentre per Gesù è relativo alle necessità dell'uomo,
perché "il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il
sabato" (Mc 2,27): perciò Gesù
guarisce anche di sabato e permette ai suoi discepoli, che hanno fame, di
raccogliere le spighe in quel giorno e mangiarle. Lo scontro avviene, poi,
sulla purità rituale. Gesù rigetta ogni formalismo nella ricerca e nella
tutela della purità rituale, dicendo ai farisei: "Voi farisei purificate
l'esterno della coppa e del piatto, ma il vostro interno è pieno di rapina e di
iniquità" (Lc 1,39). Questo formalismo
legalista è per lui ipocrisia. Quello che vale per Gesù è l'impegno per la
purità interiore, del cuore, per una religiosità non formalistica, ma autentica
e per un rapporto di giustizia e di carità verso il prossimo.
Lo scontro sul Tempio avviene per il fatto che questo, invece di essere un luogo
di preghiera, è diventato un luogo di mercato e una "spelonca di
ladri" (Lc 19,46): di qui il
gesto audace e provocatorio della cacciata dei mercanti dal Tempio. Un gesto
che decide la sorte di Gesù. Tanto più che Gesù giunge a predire la distruzione
del Tempio e quindi ad affermare il superamento dell'istituzione templare e del
culto che vi è connesso, e dunque la nascita di una religione nuova, al cui
centro non ci sarebbe stato più il Tempio di Gerusalemme.
La predicazione di Gesù - che dunque minava le
basi della religione ebraica, come era vissuta dai sacerdoti-sudducei e dagli
scribi-farisei, e che perciò poneva Gesù fuori di essa - non poteva che
concludersi tragicamente.
Se ora ci chiediamo quanto è durata la sua vita pubblica, dobbiamo rispondere che non
lo sappiamo con precisione. Secondo lo schema adottato dai Sinottici,
l'attività di Gesù - predicazione in Galilea, viaggio a Gerusalemme, attività
in questa città conclusasi con la crocifissione - sarebbe durata da sei mesi a
un anno. Ma lo schema dei Sinottici è chiaramente artificiale. Perciò è più
attendibile storicamente il Vangelo di Giovanni, secondo il quale Gesù sarebbe
stato a Gerusalemme per tre Pasque successive: ciò significa che la sua vita
pubblica è durata da due anni a due anni e mezzo.
7. La
morte di Gesù
La vita di Gesù si conclude in un arco di tempo
estremamente breve con una morte atroce. Infatti, dopo appena due anni/due anni
e mezzo di predicazione, egli è stato condannato e messo a morte con il
supplizio della crocifissione a
Gerusalemme, capitale religiosa della Giudea, sotto il procuratore romano
Ponzio Pilato. Il fatto è assolutamente certo. Della morte di Gesù non
parlano soltanto i quattro Vangeli e gli altri scritti del Nuovo Testamento,
bensì anche fonti non cristiane. Ne parla lo storico ebreo Giuseppe Flavio.
Ne parla lo storico romano C. Tacito nei suoi Annales, scritti intorno
al 115 d. C.
Della morte di Gesù non conosciamo la data precisa. Sappiamo soltanto che essa
avvenne nel pomeriggio di un venerdì, vigilia di Pasqua. In quale anno e in
quale giorno? Non possiamo dirlo con certezza.
Circa l'anno,
poiché è assai probabile che Gesù abbia cominciato la sua predicazione
all'inizio del 28 e che il suo ministero sia durato poco più di due anni, la
data più verosimile della sua morte è l'anno 30. Circa il giorno, gli evangelisti non sono
concordi. I Sinottici dicono che Gesù celebrò la cena pasquale il giovedì sera.
Ora la legge ebraica fissava per questo pasto la sera del 14 Nisan. La morte di
Gesù sarebbe quindi avvenuta il giorno dopo, verso le tre del 15 Nisan. Invece
il Vangelo di Giovanni afferma che Gesù fu crocifisso il giorno in cui gli
ebrei, di sera, celebravano la cena pasquale, dunque il 14 Nisan.
Quale
delle due date - il 14 o il 15 Nisan - è da preferire?
Gli esegeti sono incerti, perché per l'una e per l'altra ci sono
argomenti a favore e argomenti contro. I più si orientano per il 14 Nisan. Poiché, tra il 28 e il 34 d.
C., il 14 Nisan è caduto di venerdì solo due volte, e precisamente nell'anno 30
(7 aprile) e nell'anno 33 (3 aprile), e poiché l'anno 33 sarebbe troppo
tardivo, perché la vita pubblica di Gesù, cominciata nell'anno 28, sarebbe
durata troppo a lungo (cinque anni, invece di due/due e mezzo circa), la data
più probabile della morte di Gesù è il 7 aprile dell'anno 30.
Se, invece, si segue la cronologia dei Sinottici, secondo i quali Gesù
sarebbe morto il 15 Nisan, giorno di
Pasqua, sempre di venerdì, la data della sua morte sarebbe il 27 aprile del 31
d.C.
Il destino di Gesù si compie
in poco tempo: cinque giorni prima della sua morte, egli entra in Gerusalemme
come messia a dorso di un asino, cioè umile e mansueto, come aveva profetato
Zaccaria (9,9) e, giunto nel Tempio, ne scaccia con un gesto clamoroso i
venditori degli animali che dovevano servire per il sacrificio pasquale,
rovesciando i banchi dei cambiavalute. Questo gesto spinge i sacerdoti e gli
anziani del popolo, già irritati per le sue prese di posizione sul Tempio, ad
arrestarlo; ma non lo fanno subito, temendo di scatenare un tumulto tra la
folla, composta in buona parte di galilei, che ha acclamato Gesù come messia.
Così, dopo che uno dei "Dodici", Giuda
Iscariota, si è offerto di consegnare Gesù nelle loro mani, lo arrestano di
notte nell'Orto degli Ulivi, dove Gesù era solito recarsi a pregare, dopo che
ha celebrato la cena pasquale con i suoi discepoli e dopo che, durante e dopo
la cena, ha compiuto un gesto straordinario - ha dato da mangiare ai suoi
discepoli il suo corpo sotto il segno del pane e da bere il suo sangue sotto il
segno del vino - e ha detto loro di rinnovarlo in sua memoria.
Tradotto in catene nel palazzo del sommo
sacerdote Caifa, dov'è radunato il Sinedrio
- massimo organo giudaico di governo e suprema corte di giustizia, di cui
facevano parte sommi sacerdoti, sadducei e farisei -, Gesù viene interrogato e
giudicato reo di morte come bestemmiatore e falso messia. La mattina del
venerdì, giorno di Pasqua secondo i Sinottici oppure vigilia di Pasqua secondo
Giovanni, Gesù viene consegnato al procuratore romano Ponzio Pilato con l'accusa di essere un sedizioso e un ribelle al
potere romano. Pilato, dopo aver tentato di liberarlo avendolo riconosciuto
innocente, per paura di essere accusato presso l'imperatore, lo condanna a
morire crocifisso: supplizio, quello della crocifissione, riservato agli
schiavi e ai ribelli. Dopo essere stato flagellato e dileggiato dai soldati
romani, Gesù è condotto al supplizio e costretto a portare la trave trasversale
(patibulum) fino al luogo dell'esecuzione, dove si trovava già infisso in
terra il tronco verticale della croce (stipes). Nel luogo detto Golgotha (il
"Cranio"), appena fuori di Gerusalemme, Gesù viene inchiodato al patibulum ed elevato sullo stipes tra sofferenze atroci. Muore
verso le tre del pomeriggio, dopo aver emesso un grande grido.
Deposto dalla croce e portato frettolosamente in
un sepolcro vicino al luogo del supplizio, il suo corpo non viene trovato dalle
donne che avevano assistito alla sua morte e alla sua sepoltura e che la
mattina dopo il sabato, cioè una quarantina di ore dopo la morte, sono tornate
al sepolcro per rendere a Gesù gli onori funebri che non avevano potuto
essergli resi la sera del venerdì, per la fretta con cui si era proceduto alla
sepoltura. Fretta dovuta al fatto che era imminente il giorno festivo - il
sabato - in cui ogni lavoro, ma soprattutto la cura dei morti, era proibito.
Invece del cadavere di Gesù, le donne si trovano di fronte a esseri misteriosi
(angeli), i quali dicono loro che Gesù è risorto e che vadano ad annunciarlo ai
discepoli. La constatazione che il sepolcro
è vuoto la fanno anche due discepoli - Simone e Giovanni -, ma la
prova che le donne hanno detto la verità è data da Gesù stesso, il quale appare
varie volte ai suoi discepoli, si fa riconoscere da essi perché ha ancora i
segni - nelle mani, nei piedi e nel costato - della crocifissione, parla e
mangia con loro e li istruisce sulla loro futura missione. Essi infatti
dovranno essere in tutto il mondo i testimoni della sua risurrezione e dovranno
annunciare a tutti gli uomini quello che Gesù ha detto e ha compiuto, affinché
credano in lui e si salvino.
Così la vita di Gesù non si chiude - come quella di tutti
gli uomini - con la morte, ma si prolunga con la risurrezione. Da questa
infatti ha origine la grande avventura cristiana, che rappresenta una svolta
nella storia del mondo e continua ancora oggi dopo 20 secoli di grandezze e di
miserie, di successi e di sconfitte: 20 secoli segnati dalla persona di Gesù di
Nazaret, morto sotto Ponzio Pilato e risorto, che ora è vivente presso il
Padre, come il Signore della storia, ma nello stesso tempo è con i suoi
discepoli sino alla fine del mondo.
5. Gesù una personalità
sconcertante
I Vangeli non ci danno un
ritratto di Gesù di Nazaret né fisico, né morale; anzi, non paiono interessati
a tratteggiarne la figura, preoccupati soprattutto di trasmettere il suo
messaggio e narrare quanto egli ha compiuto. Tuttavia è possibile, scorrendo i
Vangeli, venire a contatto con la personalità di Gesù, tanto essa è
straordinaria e capace di rivelarsi attraverso quello che egli dice e fa.
1. La
persona di Gesù
Non sappiamo nulla della sua figura fisica; ma
dalla sua persona doveva emanare un fascino particolare, come mostra
l'entusiasmo delle folle che lo seguivano. Luca ricorda l'esclamazione di una
donna: “Beato il grembo che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!”
(Lc 11,27).
Neppure sappiamo qualcosa della costituzione fisica di Gesù; ma da
quello che i Vangeli dicono della sua attività, si può presumere che essa
dovette essere sana e molto robusta: se non fosse stata tale, non avrebbe
potuto sostenere l'enorme mole di lavoro a cui Gesù si sottopose nei due-tre
anni di vita pubblica e i disagi che gli imponeva la vita randagia di
predicatore itinerante.
2. I sentimenti di Gesù
Quello che più colpisce in Gesù è la bontà. Non può vedere un dolore senza
sentirsi mosso a porgere aiuto: tutti i miracoli che si narrano di lui sono
compiuti per bontà, per lenire una sofferenza o prevenire un pericolo. Tutte le
forme del dolore umano hanno nel suo cuore una risonanza profonda: si commuove
dinanzi al pianto della vedova di Nain (Lc 7,13) e scoppia a piangere dinanzi al sepolcro dell'amico Lazzaro
(Gv 11,35).
Ma la sua non è una compassione superficiale e
passeggera, poiché dietro la sofferenza fisica egli vede profilarsi l'ombra del
peccato e il potere di una forza
maligna di cui il peccato rende schiavo l'uomo: egli ha perciò pietà dell'uomo,
irretito nel peccato e in balìa di Satana, suo mortale nemico. Proprio questa
pietà lo fa scendere alla radice del male e gli fa togliere, prendendoli su di
sé, i peccati degli uomini: nello stesso tempo in cui guarisce i corpi dalle
malattie, libera le anime dal peccato e dal potere di Satana. Perciò, al
paralitico che hanno calato dal tetto dinanzi a lui perché lo guarisca, Gesù
dice per prima cosa: "Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati" (Mc 2,5). In realtà, le guarigioni
corporali che Gesù opera non sono se non l'aspetto esterno della lotta che egli
ha ingaggiato col male e con Satana, la conseguenza visibile di una lotta
invisibile e spaventosa che egli conduce contro il peccato e di cui la sua
morte sulla croce sarà il punto culminante e decisivo.
Verso gli apostoli
poi, suoi compagni di vita e suoi amici più cari, Gesù mostra affetto e premura
nelle loro fatiche, pazienza nell'istruirli e dolcezza nel correggerli. Eppure
essi sono tanto inferiori a lui per intelligenza, sensibilità e nobiltà
d'animo: sono spesso gretti, litigiosi, invidiosi; non comprendono quello che
egli dice loro o capiscono una cosa per un'altra; soprattutto, sanno così poco
elevarsi all'altezza del loro maestro, la cui grandezza incute loro timore e
rispetto. E tuttavia Gesù non li ama meno per questo; piuttosto si mette al
loro livello, li interroga, discute con loro e si consulta con essi.
3. Le “preferenze” per bambini, malati, peccatori e poveri
Tuttavia, la bontà di Gesù si rivela
particolarmente verso i poveri, gli ammalati, i bambini, i peccatori. Le folle che lo seguono sono formate in
gran parte da povera gente, oppressa dai potenti, sempre in lotta con la
miseria e la malattia, spesso affamata. Di queste moltitudini Gesù ha una
profonda compassione.
Per gli ammalati
Gesù ha un amore particolare: li guarisce dalle loro malattie anche in giorno
di sabato, attirandosi l'ostilità dei farisei e dei dottori della Legge,
secondo i quali nel giorno consacrato al Signore non è permesso neppure operare
guarigioni. Ha una cura particolare dei lebbrosi, proprio perché essi -
costretti a vivere lontano dagli altri, in stato di totale abbandono - sono i
più miseri. Egli, sfidando la Legge, la quale proibiva di avvicinare i
lebbrosi, li fa avvicinare a sé, li tocca con le sue mani e li guarisce.
Una particolare predilezione Gesù mostra per i bambini. Quando le mamme glieli
presentano perché li benedica, Gesù li prende tra le sue braccia e li benedice
con affetto e commozione intensi; anzi, rimprovera i suoi discepoli, che, con
l'intento di evitargli un fastidio, cercano di mandarli via.
Ha poi pietà e misericordia per i peccatori, li tratta con dolcezza,
anche a costo di scandalizzare coloro che si ritengono giusti e onesti e
trovano disdicevole che Gesù tratti con simili persone: così, scandalizzando il
fariseo Simone che lo ha invitato a tavola, lascia che una prostituta
gli bagni i piedi di lacrime e glieli asciughi con i propri capelli, li baci e
li cosparga di olio profumato, affermando che essa è migliore del fariseo,
perché è capace di amare più di lui (Lc
7,36-50); libera dal furore ipocrita dei farisei un'adultera sorpresa in
flagrante, dicendo che chi è senza peccato scagli la prima pietra (Gv 8,3-11).
Per Gesù i peccatori non devono essere evitati e
disprezzati - come fanno i farisei - perché non osservano la Legge, ma devono
essere amati, perché sono poveri malati che hanno bisogno del medico. Il
peccato è segno di una profonda miseria spirituale. Il peccatore non va
punito, ma aiutato a redimersi; non va allontanato da Dio, ma avvicinato a Lui;
non va disprezzato e trattato con durezza e intransigenza, ma amato e trattato
con indulgenza, finché c'è in lui una scintilla di speranza di conversione.
Ecco perché Gesù va in cerca dei peccatori, non spezza la canna infranta e non
spegne il lucignolo ancora fumigante.
Ma c'è un motivo più profondo che spinge Gesù ad
amare i poveri, gli ammalati, i bambini e i peccatori: è il particolare
amore che Dio ha per loro e il fatto che abbia destinato proprio a loro il suo
regno. In realtà, i poveri, gli umili, i piccoli, i peccatori, per la loro
condizione, sono, più di altri, vicini al regno di Dio, disposti a entrarvi,
aperti a riceverlo. Poiché le condizioni per entrarvi sono la povertà,
l'umiltà, il sentimento della propria miseria, la semplicità e la purezza di
cuore. Perciò, mentre chiama "beati" i poveri, perché loro è il
regno dei cieli, mentre afferma che chi non diventa come un bambino e non
accoglie il regno di Dio con la semplicità del bambino non potrà entrarvi, Gesù
lancia in faccia ai "giusti" soddisfatti della propria perfezione:
"In verità vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel
regno di Dio" (Mt 21,31).
4. Il rapporto con il Padre
Gesù sente profondamente la
trascendenza di Dio, la sua grandezza unica. Nessuno si può paragonare a Lui.
Di fronte a Lui nessuno è buono.
Solo Dio è grande e solo la sua volontà conta:
perciò bisogna pregare che il suo nome sia santificato, che il suo regno venga
e che la sua volontà sia fatta dagli uomini sulla Terra come è fatta dagli
spiriti celesti; bisogna temere solo Dio, non i potenti, che possono solo
uccidere il corpo, ma non possono mandare l'anima nella Geenna, come può fare
Dio; bisogna adorare Dio solo, non gli idoli del denaro e del potere; bisogna
amare solo Dio "con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutto lo
spirito" (Mt 22,36). Solo Lui
infatti merita tutto l'amore dell'uomo. Perciò non bisogna amare, ponendola
sullo stesso piano di Dio o accanto a Lui, nessun'altra creatura; non bisogna
servire nessun altro padrone:
5. Gesù uomo “libero”
Questo rapporto filiale con Dio fa di Gesù un
uomo audacemente libero. Libero da ogni interesse terreno, libero dalla
famiglia, ma soprattutto da ogni legge umana, che pretenda d'imprigionare
l'uomo in osservanze puramente esteriori. Di qui la sua lotta contro le leggi
della purità rituale e le tradizioni degli antichi, che riducono la religione a
mera precettistica esteriore, a un culto senz'anima: non è il mangiare senza
lavarsi le mani che rende immondo l'uomo, ma il male che esce dal suo cuore.
Anzi, egli è libero
di fronte alla stessa Legge morale mosaica, che ha l'audacia di cambiare,
non per abolirla, ma per perfezionarla. In particolare è libero dagli interessi politici. Rifiuta perciò di farsi
coinvolgere nel movimento degli zeloti, che combattono per la liberazione della
Palestina dal giogo romano.
E se Gesù è sovranamente libero di fronte agli
uomini, è pienamente assoggettato alla volontà del Padre, fa sempre le cose che
sono gradite a Lui.
Questa volontà del Padre, che Gesù vuol seguire
fino in fondo, gli dà il coraggio di andare avanti nel compimento della sua
missione, fino alla morte. Questa incombe su di lui fin dal principio.
Infatti, dopo i primi successi della sua predicazione in Galilea, Gesù sente
che una opposizione, sorda ma tenace, nasce e si organizza contro di lui:
farisei e scribi, anziani e sommi sacerdoti, pur nemici tra di loro, sono uniti
contro di lui e ben presto pensano di eliminarlo, vedendo in lui un gravissimo
pericolo per la religione ebraica e per la stessa nazione.
6. L’insegnamento di Gesù
1. Una
dottrina nuova insegnata con autorità
Gesù di Nazaret è sconcertante e straordinario
non solo per la sua personalità, ma anche per il suo insegnamento e per il modo
in cui egli ha insegnato.
Quello che ha maggiormente colpito gli uditori di Gesù è
il fatto che egli insegnava “come uno che ha autorità e non come gli scribi”. Questi, in quanto teologi e
dottori della Legge (Torah), ritenuta
definitiva e immutabile, si limitavano a illustrarne e a discuterne i precetti
e ad esporre l'interpretazione tradizionale con richiami a quanto avevano detto
e insegnato i più famosi scribi. Così si inserivano nella lunga tradizione
ininterrotta che da Mosè giungeva fino a loro attraverso i grandi maestri dei
passato. Nella forma esterna, l'insegnamento di Gesù non si distingueva molto
da quello degli scribi del suo tempo. Anch'egli traeva dalla Scrittura lo
spunto della sua predicazione. Anch'egli, al pari degli scribi, usava frasi
brevi e incisive e ricorreva a immagini, similitudini ed esempi, prendendoli
dalla vita del popolo e dalla natura.
Certamente, le sue parabole e i suoi detti
avevano una forza penetrante, una bellezza poetica e una profondità di pensiero
che non trovavano riscontro nell'insegnamento degli scribi. Tuttavia, non era
questo ciò che distingueva Gesù da loro e che lasciava “stupiti del suo
insegnamento” (Mc 1,22) coloro che lo ascoltavano. Era invece il fatto che egli
parlava “come uno che ha autorità”. Quale “autorità”?
Non solo quella di esporre e spiegare la Sacra Scrittura, ossia l'Antico
Testamento, che Gesù riconosce come rivelazione di Dio, ma l'autorità
d'interpretarla autenticamente, mostrando quello che Dio ha inteso rivelare
realmente, di liberarla dalle incrostazioni delle tradizioni umane non
rispondenti al pensiero di Dio (cfr Mt 15,3-6),
di portarla a compimento (cfr Mt 5,17) dichiarando decaduti precetti e leggi -
come la possibilità del divorzio - che Dio, tenendo conto della debolezza
dell'essere umano e della sua “durezza di cuore” (Mt 19,8), aveva dato per
mezzo di Mosè.
Il fatto più stupefacente era che Gesù fondava
la sua autorità su se stesso, sulla sua persona. In realtà, i suoi
ascoltatori non potevano non essere colpiti da parole come queste: “Avete
inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere. Ma io vi dico” (Mt
5,21-22)
2.
Gesù e la legge
Nella Legge di Mosè una particolarissima
importanza aveva il riposo nel giorno di
sabato. La sua osservanza era concepita in modo assai rigido: era infatti
proibito accendere il fuoco, raccogliere
la legna, preparare i cibi. Per
“santificare” il sabato ci si riuniva
nella sinagoga, si pregava in comune e si faceva una lettura commentata della
Sacra Scrittura.
Gesù non abroga la legge del sabato; anzi, in
quel giorno egli frequenta la sinagoga. Tuttavia
afferma che il precetto dell'amore è più importante di quello del sabato
e che, perciò, se c'è da fare del bene a chi è nel bisogno, lo si deve fare
anche a costo di violare il sabato. Così egli compie guarigioni miracolose in
giorno di sabato, affermando che “il sabato è fatto per l'uomo e non l'uomo per
il sabato”. Perciò, a coloro che lo
accusano di guarire in giorno di sabato rimprovera con indignazione e tristezza
“la durezza dei loro cuori”. Ma c'è
di più: non solo Gesù spiega in che senso dev'essere inteso - in conformità col
volere di Dio - il riposo sabbatico, ma si attribuisce un potere anche sul
sabato.
Con la stessa libertà Gesù si comporta nei
riguardi delle leggi di purità legale
prescritte dal Levitico e rese più
rigide dai farisei del suo tempo con l'imposizione di abluzioni ripetute e di
lavaggi minuziosi. Non solo egli si
“contamina” col toccare un lebbroso e col toccare un cadavere prendendo la mano
di una bambina morta, ma rigetta in
teoria e in pratica tali norme, dichiarando in tal modo invalida gran parte
della Legge mosaica. Quella che conta per Gesù non è la purezza rituale,
esteriore, ma la purezza del cuore, interiore. Infatti, l'unica purezza
è quella interiore.
3.
Gesù e il regno di Dio
Gesù, dunque, ha insegnato in un modo che
ha destato stupore nei suoi ascoltatori per il fatto che si è attribuito
un'“autorità” assolutamente impensabile sulla Legge di Mosè. Ma stupore assai
più grande ha suscitato la sua dottrina.
Il nucleo centrale di questa “dottrina nuova”, e
quindi della predicazione di Gesù nei pochi anni della sua vita pubblica, è il
“Vangelo del regno”, cioè il lieto
annunzio che il regno di Dio viene, si è fatto vicino e, anzi, irrompe già
nella storia umana nella persona e nella parola di Gesù: «Dopo che Giovanni fu
arrestato, Gesù si recò nella Galilea predicando il Vangelo di Dio e diceva:
“Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al
Vangelo”».
Con l'espressione “regno di Dio”, Gesù indica la manifestazione potente e gloriosa e
la presenza salvifica di Dio. Proclamando che “è vicino” il “regno di Dio”,
egli afferma la volontà di Dio di porre fine al presente ordine ingiusto e di
liberare dai loro mali coloro che soffrono; afferma la decisione misericordiosa
di Dio di voler regnare nel mondo facendosi carico delle ingiustizie e delle
sofferenze umane, quindi distruggendo il regno del male e il potere di colui
che è il principe di questo regno, Satana. Il tempo dell'attesa del regno di
Dio è terminato - annunzia Gesù - e Dio vuole regnare nel mondo prendendosi
cura dei poveri, dei piccoli, degli umili, dei disprezzati, dei malati, dei
peccatori. Egli offre il suo regno gratuitamente e misericordiosamente a tutti
gli uomini, ma in primo luogo ai poveri, agli infelici, ai diseredati, a coloro
che non hanno nessun titolo di benemerenza. Infatti, il regno di Dio non si
merita con le opere buone né si conquista con la propria volontà e il proprio
impegno: esso è grazia, cioè un dono gratuito di Dio che dev'essere accolto con
apertura di cuore e riconoscenza umile e gioiosa.
È importante notare che il regno di Dio di cui
parla Gesù non è di ordine politico: non è cioè la restaurazione del
regno di Davide, come era sognata dal nazionalismo ebraico del suo tempo. Esso
è una realtà misteriosa di cui solo Gesù può far conoscere la natura. Infatti
egli, conformandosi all'agire del Padre, non la rivela se non ai piccoli e agli
umili, non ai potenti e ai sapienti del mondo. Il mezzo con cui Gesù rivela la
natura e le esigenze del regno di Dio sono soprattutto le parabole.
Così, il regno di Dio è simile al seme
seminato in un campo, che produce frutto abbondante se cade nella terra
buona, cioè se è accolto con cuore buono e aperto, se la parola di Dio è
ascoltata e compresa. Il regno di
Dio cresce e si sviluppa per virtù propria: “Il regno di Dio è come un uomo che
getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme
germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa. Poiché la terra produce
spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga” (Mc 4,26-28). Esso si svilupperà, come il lievito messo nella pasta.
Inizia umilmente, poiché è piccolo come un granello di senape, ma è destinato a
divenire un grande albero in cui faranno i loro nidi gli uccelli del cielo:
infatti è destinato a tutti i popoli, non essendo legato a nessuno in
particolare, neppure al popolo ebraico.
Il regno di Dio si attua in due tempi.
Per un verso esso è già venuto: con Gesù il regno di Dio “si è fatto vicino” (Mt 1,15), è qui. Dopo Giovanni Battista,
l'era del regno di Dio è aperta (Mt 11,12-13). La liberazione degli indemoniati
compiuta da Gesù con la potenza della sua parola è il segno dell'irruzione del
regno di Dio nella storia umana. Per un altro verso il regno di Dio verrà. Gesù, con la sua parola lo annunzia
e con la sua azione lo rende presente. Ma è solo l'inizio: nella sua pienezza
il regno di Dio verrà alla fine dei tempi. Ora esso è nel mondo e cresce tra le
difficoltà e le opposizioni dei nemici: di Satana e di coloro che si mettono
dalla sua parte; ma alla fine del mondo apparirà in tutta la sua potenza e
gloria e in tutta la sua dimensione salvifica. Quello che gli uomini devono
fare ora è anzitutto pregare che esso venga presto: “Padre, venga il tuo
regno”. Poi, disporsi a entrarvi, per non restare esclusi dal regno di
Dio, quando alla fine dei tempi la zizzania sarà separata dal buon grano e
legata in fastelli per essere bruciata (Mt
13,30) e i pesci cattivi separati
da quelli buoni e gettati via. In realtà, il regno di Dio è un dono del suo
amore misericordioso per tutti, ma è anche un valore essenziale, anzi “il”
valore, il tesoro, la perla preziosa che bisogna acquistare a
prezzo di tutto ciò che si possiede.
Per ricevere tale dono, gli uomini devono
adempiere alcune condizioni. Anzitutto, devono divenire poveri in spirito, cioè
farsi un'anima di povero, diventare umili;
poi assumere un atteggiamento di bambino, acquistando la semplicità del
cuore e la fiducia filiale in Dio. Poi, ancora, è necessario cercare
attivamente il regno di Dio e la sua giustizia, avere una perfezione più grande
di quella degli scribi e dei farisei. In una parola, non contentarsi di dire:
“Signore, Signore”, ma compiere la volontà del Padre e fare opere di carità
verso i fratelli più bisognosi: gli affamati, gli assetati, i carcerati, gli
ignudi, i pellegrini, i malati. Poiché tutti sono chiamati al regno di Dio, ma
non tutti saranno eletti.
4. I
destinatari del Regno
Dio, perciò, dona il suo regno: ma chi ne sono i
destinatari più diretti e immediati? Lo sono tre ordini di persone. In primo
luogo i poveri, gli affamati, gli
afflitti e i perseguitati: “Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio.
Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi che ora
piangete, perché riderete. Beati voi quando gli uomini vi odieranno e quando vi
metteranno al bando e vi insulteranno e respingeranno il vostro nome come
scellerato, a causa del Figlio dell'uomo. Rallegratevi in quel giorno ed
esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nei cieli” (Lc 6,20-23). Tutta la storia biblica è percorsa dal favore di Dio per i
poveri, dalla speranza che Dio li libererà dalla loro condizione. La novità del
“Vangelo” di Gesù sta nel fatto che, rivolgendosi ai poveri che lo attorniano,
egli annunzia loro che la loro attesa di un intervento liberatore di Dio
comincia a essere esaudita fin d'ora: Dio comincia a rendere giustizia agli
oppressi e a difendere i deboli e in tal modo si rivela come sovrano giusto e
potente; Dio comincia a prendere a cuore la sorte dei poveri, non perché
abbiano titoli o qualità particolari che li raccomandino a Lui, ma perché Egli
è giusto e buono, e quindi libera e salva quelli che sono nel bisogno.
Destinatari privilegiati del regno di Dio sono in
secondo luogo i “piccoli”, vale a
dire tutti coloro che, sia per l'età, come i bambini, sia per la loro
condizione sociale sono privi di diritti e di dignità a tutti i livelli. Di
questi esseri deboli e indifesi Dio si prende cura, in quanto è il signore e il
sovrano che rende giustizia e si schiera perciò dalla parte di coloro a cui tra
gli uomini essa non è resa. I potenti, i forti, i ricchi si fanno giustizia da
sé e non hanno perciò bisogno dell'intervento di Dio. Ai “piccoli” appartengono
i discepoli che si stringono attorno a Gesù: non solo essi sono poveri, ma per
la loro condizione modesta non hanno prestigio sociale e per la loro scarsa
cultura e osservanza religiosa appartengono al “popolo della terra” che gli
scribi e i farisei, conoscitori e osservanti della Legge, disprezzano. Proprio
a loro Dio ha dato il suo regno. Nulla, dunque, dà diritto al regno di Dio: né
il prestigio sociale, né l'osservanza religiosa, né le qualità morali sono
titolo di merito. In tal modo Gesù afferma la totale gratuità del regno.
Infine, destinatari privilegiati di questo sono i peccatori e tutti coloro che la
mentalità ebraica corrente considera peccatori perché lontani da Dio ed esclusi
dal popolo eletto. Nel pensiero di Gesù, Dio non è solo colui che è giusto e
benefico; è anche colui che ha misericordia per i peccatori, li perdona e li
salva. I “peccatori” sono tutti coloro che non sono in regola con le norme
morali e con le prescrizioni rituali della Legge. Così, sono peccatori i
“pubblicani”, cioè gli esattori di imposte locali, sia perché sono sospettati
di essere disonesti, sia perché frequentano ambienti pagani e sono noncuranti
delle norme di purità legale; sono “peccatrici” le prostitute. Eppure, agli
scandalizzati farisei Gesù dichiara: “I pubblicani e le prostitute vi passano
avanti nel regno di Dio”. Insieme con i peccatori Dio chiama nel suo regno i pagani, che le correnti contemporanee
del giudaismo escludono dalle promesse di Dio fatte ad Abramo, salvo che non
diventino “proseliti” e in tal modo partecipino alla comunità d'Israele. Così,
il regno di Dio non è un privilegio nazionale, dovuto all'appartenenza al
popolo d'Israele; anzi, dichiara Gesù, molti pagani parteciperanno con Abramo e
gli altri patriarchi al banchetto del regno di Dio, mentre ne saranno esclusi
gli ebrei increduli.
5. Il
volto nuovo di Dio
Se l'annunzio del regno di Dio, che è venuto e verrà,
forma il nucleo centrale del messaggio di Gesù, la nuova immagine di Dio che
egli dà ne forma il cuore. Per Gesù, Dio è “un Dio per gli altri”; ma è
soprattutto il “Padre”. Questo
appellativo, applicato a Dio, non è nuovo, perché nella tradizione biblica Dio,
in quanto ha cura d'Israele per l'alleanza che ha contratto con esso, è
chiamato “padre”: Perciò, anche se usato con una certa riserva, il nome di
“padre” applicato a Dio si trova già nella Bibbia.
In realtà, Gesù non si rivolge a Dio se non
chiamandolo “Padre”: così, in tutte le preghiere di Gesù, Dio è invocato sempre
come “Padre”, a eccezione del suo grido sulla croce: “Dio mio, Dio mio, perché
mi hai abbandonato”, che è però l'inizio del Salmo 22, il quale non poteva
essere recitato da Gesù se non nella sua forma propria. Tuttavia, la novità più
straordinaria è che, da Gesù, Dio è chiamato abbà che in aramaico significa “Padre mio”, cioè papà.
Nell'ambiente religioso palestinese del 1 secolo era assolutamente impensabile
che ci si potesse rivolgere a Dio con tale espressione, la quale serviva a
designare nei rapporti familiari il padre terreno: essa sarebbe sembrata
irrispettosa verso Dio. Il fatto che Gesù l'abbia usata nella sua preghiera
denota da un lato la profonda intimità che egli aveva con Dio e dall'altro la
sua assoluta confidenza in Lui.
Così, per Gesù,
il volto nuovo di Dio è quello della paternità. Anzitutto, questa paternità non
riguarda soltanto Israele, ma si estende a tutti gli uomini. In particolare
sono figli di Dio i poveri, i piccoli, gli umili, i peccatori, i discepoli di
Gesù, che includono i giudei e i pagani che compiono la volontà di Dio, e in
tal modo formano la nuova comunità di Dio.
Dio è Padre e perciò ha cura e provvidenza per i suoi, non facendo
mancare loro il necessario, se essi cercano prima di tutto il suo regno: “Non
affannatevi dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa
indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani: il Padre vostro celeste
infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua
giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”
Proprio perché Padre, Dio è misericordioso e pronto a perdonare e a salvare ciò che era
perduto: quando il giovane prodigo, che ha abbandonato il padre per andare a
dissipare i suoi beni vivendo nella dissolutezza, torna alla casa paterna, il
padre gli corre incontro, lo abbraccia e lo reintegra nella sua dignità di
figlio, facendo festa per il suo ritorno (Lc
15,11-24). Così agisce Dio con i peccatori che tornano da Lui. Questo agire
del Padre verso i peccatori spiega il modo di comportarsi di Gesù nei loro
riguardi: se egli è buono e misericordioso nei loro confronti è perché Dio si
comporta così. Lo stesso vale per i poveri, per i piccoli, per i malati e i
bisognosi di ogni sorta: se Gesù li circonda di un amore particolare, lo fa
perché essi sono i prediletti del Padre, i destinatari privilegiati del regno
di Dio.
6.
L’insegnamento morale
Anche le norme morali che Gesù dà ai suoi
discepoli non rappresentano una novità assoluta. Al giovane ricco, che
gli chiede che cosa deve fare per entrare nella vita eterna, Gesù propone
l'osservanza del Decalogo. Allo scriba, che gli chiede qual è il più grande
comandamento della Legge, Gesù risponde citando le Scritture: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il
cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più
grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso”.
La novità
dell'insegnamento morale di Gesù sta nel fatto che esso è connesso con
l'annunzio del regno e con la rivelazione della paternità di Dio. Se il
regno di Dio è venuto, bisogna accoglierlo come i bambini, con umiltà e
semplicità di cuore, bisogna accettarne le esigenze per non essere esclusi da
esso: ciò significa vivere nello spirito delle beatitudini, poiché il regno di
Dio è destinato ai poveri in spirito, ai miti, ai sofferenti, ai
misericordiosi, ai pacifici, ai puri di cuore, ai perseguitati per la causa di
Dio e del Vangelo; significa praticare una “giustizia” più grande di quella
degli scribi e dei farisei, cioè non perdersi nel legalismo e nel formalismo
farisaico, ma essere interiormente retti e puri e praticare la giustizia e la
misericordia, e in tal modo sforzarsi di essere perfetti come è perfetto il
Padre celeste. Se Dio è il Padre buono e misericordioso verso tutti i suoi
figli, anche cattivi e peccatori, gli uomini devono imitarlo, amando con amore
gratuito e incondizionato tutti, anche i cattivi, anzi anche i propri nemici.
Così, quello che è nuovo nell'insegnamento morale
di Gesù è, in primo luogo, che tutte le esigenze etiche sono condensate
nell'amore, cioè nel duplice precetto dell'amore di Dio con tutto il cuore
e dell'amore del prossimo come se stesso; è, poi, che il prossimo non è soltanto chi appartiene alla propria famiglia, al
proprio clan, alla propria nazione, alla propria religione, ma abbraccia lo
straniero, il diverso, il nemico personale o della propria nazione e della
propria religione; è, infine, che non basta astenersi dal far del male al
prossimo, ma bisogna positivamente fargli del bene: “Tutto quello che volete
che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro”. Anche nelle situazioni
d'ingiustizia, non bisogna rispondere con l'ingiustizia: “A chi ti percuote
sulla guancia, porgi anche l'altra; a chi ti leva il mantello, non rifiutare la
tunica. Da' a chiunque ti chiede e a chi prende del tuo, non richiederlo” (Lc 6,29-30). Questo, non per una scelta
ideale di pacifismo non-violento, ma per essere figli di Dio, Padre
misericordioso.
7.
«Rendete a Cesare quello che è di Cesare»
1.
Gesù e i problemi politici del suo tempo
Quale atteggiamento ha assunto Gesù di fronte ai
problemi politici del suo tempo e della sua patria? Per comprenderne il senso e
l'originalità, si deve ricordare che egli è vissuto in un'epoca politicamente
assai agitata, anzi di vera e propria rivoluzione politica contro l'occupazione
della Palestina da parte dei romani. Al tempo di Gesù, infatti, la Palestina,
già soggiogata nel 63 a.C. da Pompeo, il rivale di Cesare, era diventata
provincia romana nel 6 a.C., quando l'imperatore Augusto aveva deposto il
figlio di Erode il Grande, Archelao, in seguito alle lamentele dei samaritani
per la sua cattiva amministrazione.
Questa caduta della Palestina sotto il dominio
straniero diede origine a violente insurrezioni. Nacque per tale motivo il movimento zelota, fondato da Giuda il
Galileo e dal fariseo Sadoq che fu
attivo durante tutta la vita di Gesù e dopo la sua morte. Dopo aver condotto
sporadiche azioni di guerriglia, che avevano le loro basi di partenza nel
deserto di Giuda, nel 66 d.C. gli
zeloti diedero inizio, con la conquista della cittadella di Massada da parte di
Menalien, figlio o nipote di Giuda il Galileo, alla grande sollevazione contro
i romani, che doveva portare nel 70 alla distruzione di Gerusalemme.
Contro il movimento zelota, che reclutava i suoi
adepti tra i giovani e nella popolazione rurale più povera delle province di
frontiera, come la Galilea, l'Idumea e la Perea, si accanirono i procuratori
romani. Di particolare crudeltà diede prova Ponzio Pilato.
Se gli zeloti rappresentano il partito avverso
agli occupanti romani, questi trovano appoggio nell'aristocrazia sacerdotale e
laica, che forma il nucleo essenziale della setta dei sadducei.
Il realismo politico - grandi proprietari terrieri e
capi del popolo, essi avrebbero tutto da perdere schierandosi contro Roma -
consiglia ai sadducei un
atteggiamento di lealismo opportunistico verso la potenza occupante, che
si manifesta anche con un sacrificio offerto ogni giorno nel Tempio, a nome
dell'imperatore di Roma, come ricordano Giuseppe Flavio e Filone di
Alessandria. Per tale motivo tra zeloti e sadducei c'è una forte inimicizia.
Anche gli esseni,
ma per motivi diversi da quelli dei sadducei, sono lealisti verso il potere
romano. Essi ritengono che “è sempre per la volontà di Dio che il potere va in
mano a un uomo” (Giuseppe Flavio). Non hanno, certo, simpatia per i pagani, ma attendono,
per poterli sterminare, l'intervento escatologico di Dio; nel frattempo,
vogliono vivere in pace, ritirati nel deserto.
Invece i farisei
sono divisi. Alcuni sono vicini agli zeloti; ma la grande maggioranza è
contraria all'azione violenta contro l'impero romano: nell'attesa che Dio
liberi il suo popolo dal giogo romano, suscitando “il re figlio di Davide
affinché egli regni su Israele e purifichi Gerusalemme dai pagani che la
calpestano” (Salmi di Salomone, 17,2
3-2 5), essi si sottomettono a JHWH che ha imposto loro il dominio di Roma.
In conclusione, la situazione della Palestina al
tempo di Gesù era, sotto il profilo politico, quella di un Paese soggetto a
una potenza straniera, nel quale, però, covava, alimentato dal movimento
zelota, un forte fermento rivoluzionarlo che si esprimeva in azioni di
guerriglia.
In questa situazione, quale atteggiamento assume Gesù?
2.
Gesù e gli zeloti
Gli zeloti costituivano un forte e
popolare movimento politico-religioso di liberazione nazionale e di restaurazione
teocratica. Esso affondava le sue radici nell'Antico Testamento, in quanto si
ispirava allo “zelo per la Legge”, cioè alla determinazione di uccidere
chiunque violasse la Legge, senza aver riguardo alla propria vita, per
conservare puro Israele.
Il problema che ora si pone è il seguente: in quali
rapporti fu Gesù con il movimento zelota? Fu egli stesso uno zelota o almeno
simpatizzò con gli zeloti? Che Gesù fosse stato un rivoluzionario sociale e
politico è una vecchia tesi che risale a Reimarus, ma non è storicamente
accettabile: essa è contraddetta dalla più antica e più sicura tradizione
evangelica.
Ciò, però, non significa che Gesù non abbia avuto
a che fare con gli zeloti o che non abbia detto parole e compiuto gesti che
potevano essere interpretati come parole
e gesti di zelotismo. In realtà, Gesù nella sua vita pubblica si è subito
trovato di fronte al problema zelota e ha dovuto prendere posizione assai
presto. Molto probabilmente le tentazioni, che i Sinottici pongono
all'inizio del suo ministero, devono essere interpretate anche come il rifiuto
di Gesù di seguire la via degli zeloti.
Gesù vede nello zelotismo qualcosa di satanico,
che si oppone radicalmente al disegno di Dio, che egli ha la missione di
compiere.
Pur rifiutando radicalmente lo zelotismo, Gesù ha
esercitato un certo fascino sugli zeloti. Infatti alcuni suoi discepoli
hanno fatto parte del movimento zelota. La cosa è certa per l'apostolo
Simone, come risulta dal soprannome che gli danno gli Atti e i Vangeli. Per
altri discepoli di Gesù, alcuni indizi farebbero pensare a una loro passata
appartenenza al movimento zelota. Così, il termine Iskariot, con cui si indica Giuda il traditore, potrebbe essere la
trascrizione semitica della parola sicarius.
Se così fosse, si spiegherebbe meglio il tradimento di Giuda. Anche Pietro
potrebbe aver fatto parte del movimento zelota: certi suoi atteggiamenti -
vuole dissuadere Gesù dal seguire la via della croce; nell'Orto degli Ulivi
porta una spada e colpisce con essa Malco – sono di marca zelota.
Ma ci sono, soprattutto, alcune parole e
alcuni gesti di Gesù che potevano essere interpretati come ispirati allo
zelotismo: le sue parole sulla “spada”, il suo ingresso a Gerusalemme, la
cacciata dei mercanti dal Tempio. Infatti Gesù è stato condannato a morte dai
romani come zelota ribelle e come pretendente al trono regale d'Israele. È
quanto mostra il “titolo” (cioè il motivo della crocifissione) fatto porre da
Pilato sulla croce di Cristo: Gesù il Nazareno il re dei Giudei.
In conclusione, possiamo dire che, se Gesù non fu
uno zelota, fu tuttavia per forza di cose in costante contatto con lo
zelotismo; anzi, egli stesso fu condannato a morte come zelota.
3.
Gesù respinge lo zelotismo
Nonostante questi contatti col movimento zelota,
Gesù respinge radicalmente il messianismo politico-religioso degli zeloti,
ritenendolo “satanico”; in particolare respinge il loro ricorso alla violenza,
alla “guerra santa” per instaurare il regno di Dio sulla Terra.
Anzitutto, Gesù non ha voluto essere un Messia
politico. Secondo la concezione comune del suo tempo, il Messia avrebbe dovuto
essere un grande re, discendente di Davide, che si sarebbe messo a capo di un
esercito di liberazione.
Gesù non vuol essere un Messia di questo tipo.
Per tale motivo egli non si attribuisce mai il titolo di “Messia” (lo fa una sola volta, quando Caifa lo interroga
ufficialmente dinanzi al Sinedrio: Mc 14,62);
e quando Pietro gli dice: “Tu sei il Messia”, ordina severamente ai
discepoli che non ne parlino con nessuno.
Egli teme infatti che, proclamandosi Messia, il popolo lo creda il
Messia-Re da esso atteso. Anzi, affinché anche i suoi discepoli, che
condividono le aspettative messianiche comuni, capiscano che egli non è il
Messia re e guerriero che essi attendono, appena Pietro fa tale affermazione,
Gesù comincia a insegnare “apertamente” che egli dovrà soffrire e morire, tanto
che Pietro se ne scandalizza e vuol correggere Gesù, pensando che egli si
sbagli. Ma Gesù insiste e rimprovera duramente Pietro, dicendogli: “Lungi da
me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”.
Questo è anche il motivo per cui Gesù non si dice
mai esplicitamente “figlio di Davide”,
anche se implicitamente si attribuisce la discendenza davidica. Poiché il Messia-Re, atteso dal popolo,
doveva essere “figlio di Davide”, se Gesù si fosse attribuito questo titolo
avrebbe confermato le aspettative messianiche popolari.
Se Gesù non ha voluto essere il Messia politico
atteso dal popolo, non ha però rifiutato ogni titolo messianico. Egli, infatti,
aveva la coscienza di essere Figlio di Dio e Messia, ma un Messia diverso da
quello che il popolo giudaico attendeva. Per esprimere tale diversità, egli non
si è detto Messia, ma “Figlio dell'uomo”.
Quale significato Gesù
ha dato alle parole “Figlio dell'uomo”?
Non è stato Gesù a coniare questo titolo: esso
era già noto nell'ambiente palestinese dov'egli viveva. Infatti è presente
nell'apocalittica giudaica antica. Nel libro di Daniele (7,13) compare per la prima volta
l'espressione “figlio dell'uomo”, applicata a un personaggio che viene sulle
nubi del cielo e a cui l'Antico dei giorni (Dio) dà dominio, onore e regno. Ne
parla poi il libro di Enoch etiopico, scritto nel 1 secolo avanti Cristo
e negli stessi toni il IV libro di Esdra, che però è del 94 dopo Cristo; esso afferma che il Figlio
dell'uomo sorge dai flutti del mare, cioè dall'aldilà, e si eleva sulle nubi
come un Salvatore.
Perciò, delle due concezioni messianiche, presenti nell'ambiente in cui viveva - quella
politica e nazionalistica del Messia-Re, discendente di Davide, che era
comune alla grande massa del popolo giudaico, e quella trascendente e
sovranazionalistica del Figlio dell'uomo, “luce dei popoli” e salvatore di
tutto il mondo, che era ristretta ad alcuni circoli apocalittici - Gesù fa propria
la concezione messianica del Figlio dell'uomo, mettendo da parte così il
messianismo di stampo politico e nazionalistico.
Chiamandosi Figlio dell’uomo, però, Gesù si
attribuisce, da una parte, la funzione di giudice
e di salvatore escatologico: alla fine dei tempi, quando la persecuzione
della comunità da lui stabilita avrà raggiunto il parossismo, egli verrà sulle
nubi del cielo, circondato da schiere di angeli, che invierà a radunare dai
quattro venti tutti gli uomini per il giudizio finale, nel quale salverà i suoi
eletti e li farà partecipare alla sua gloria, e condannerà coloro che lo hanno
respinto nella persona dei poveri e dei sofferenti; dall'altra, si attribuisce
la funzione redentrice del Servo di
JHWH umiliato e sofferente, di cui parla il Deuteroisaia.
Gesù, cioè, fa un passo avanti rispetto alla
concezione esclusivamente apocalittica del Figlio dell'uomo. Per lui il
Figlio dell'uomo non verrà soltanto alla fine dei tempi, ma è già venuto.
Certo, la funzione essenziale del Figlio dell'uomo è il giudizio escatologico;
ma il giudizio che egli pronuncerà sugli uomini alla fine dei tempi comincia a
delinearsi fin da adesso: gli uomini, infatti, saranno giudicati secondo
l'atteggiamento che essi assumono fin d'ora nei suoi riguardi e nei riguardi di
coloro - i poveri e i sofferenti - nei quali egli è presente. Solo che, mentre
alla fine dei tempi il Figlio dell'uomo apparirà nella sua gloria, ora egli
appare nell'umiltà e nel nascondimento: il futuro Giudice escatologico è ora il
“Servo di JHWH”, che soffre e muore per salvare uomini e donne.
Ecco perché nei Vangeli ci sono due serie di
parole che riguardano il Figlio dell'uomo: una fa riferimento alla sua futura
condizione gloriosa di giudice escatologico,
l'altra alla sua condizione terrena di umiliazione e di sofferenza, di
Servo di JHWH sofferente.
Evidentemente, identificandosi, nella sua
condizione terrena, col Servo di JHWH, Gesù si pone al polo opposto della
concezione del Messia-Re guerriero e vittorioso: egli salverà gli uomini, ma
non con la lotta politica e militare, bensì con la sua sofferenza e la sua
morte. Non poteva, così facendo, respingere in maniera più radicale il
messianismo politico-religioso degli zeloti.
4.
Gesù respinge la violenza rivoluzionaria
Gesù non soltanto non ha voluto essere il
Messia-Re, liberatore d'Israele dal giogo dei romani con la lotta armata, ma ha
respinto ogni idea di violenza rivoluzionaria.
Anzitutto Gesù rinuncia coscientemente all'uso
della violenza, poiché predica la
non-violenza e l'amore per i nemici.
Gesù è poi assolutamente estraneo a ogni idea
di “guerra santa” contro i romani oppressori. Già egli è contrario all'idea
che l'uomo possa “forzare” con la sua azione la venuta del regno di Dio: questo
verrà come un “dono” in maniera inattesa. Ma quello che più conta è che Gesù riconosce
l'autorità dell'imperatore di Roma sulla Palestina e non solo non intende
opporsi ad essa, ma afferma che si deve pagarle il tributo che ha
imposto: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio” (Mc 12,17). In tal maniera Gesù si stacca
tanto dagli zeloti quanto dai collaborazionisti, per porsi sulla linea dei
profeti: per ora Dio ha dato a Cesare il potere e bisogna ubbidirgli. Se,
però, si deve ubbidire a Cesare, c'è in tale sottomissione un limite
invalicabile: Cesare può pretendere quello che è suo, può richiedere quello che
è necessario all'esistenza dello Stato; ma il suo diritto non va oltre. Egli
non può chiedere e pretendere di avere quello che appartiene a Dio; se lo
facesse, bisognerebbe resistergli e disubbidirgli.
In tal modo, nei confronti dello Stato romano,
Gesù prende le distanze dall'atteggiamento degli zeloti, perché afferma che si
deve pagare l'imposta e perché non ritiene che ciò sia un atto di idolatria.
Nello stesso tempo prende le distanze dai collaborazionisti, tentati di vedere
nell'imperatore un “dio” e di prestargli, perciò, ubbidienza assoluta. Infatti
egli afferma che, sopra l'imperatore romano e sopra lo Stato e i suoi diritti,
c'è Dio e ci sono i diritti di Dio e del suo regno: quindi, primato di Dio su
Cesare, primato del regno di Dio su quello di Cesare.
5.
Gesti politici di Gesù
Ci sono, tuttavia, nella vita di Gesù, alcuni
gesti che hanno tutta l'aria di essere “politici”: cioè “messianici”, ma del
messianismo politico-religioso proprio degli zeloti.
Essi sono l'entrata
trionfale in Gerusalemme e la cacciata
dei venditori dal Tempio. Che fossero gesti che potevano essere
interpretati come atti di zelotismo appare evidente dal fatto che essi
formarono la base dell'accusa che i sommi sacerdoti e i capi del popolo
presentarono a Pilato per chiedere la condanna a morte di Gesù come ribelle.
Entrando in Gerusalemme a dorso di un puledro,
Gesù ha voluto manifestarsi al popolo come Messia; nello stesso tempo, però, ha
evitato tutto ciò che potesse dare alla sua manifestazione messianica un
carattere politico e guerriero, anche se il popolo lo acclama “Figlio di
Davide” e “Re d'Israele”, attribuendogli i titoli di Messia-Re, guerriero e
liberatore d'Israele. Infatti, Gesù non entra in Gerusalemme su un cavallo da
guerra, ma, come è scritto nel libro di Zaccaria, su un puledro preso in
prestito, come un principe di pace, e in atteggiamento povero e “umile”.
Quanto alla cacciata dei mercanti dal Tempio, essa non fu affatto un assalto al
Tempio da parte di Gesù e dei suoi seguaci, e neppure riguardò tutto il Tempio;
fu, invece, un gesto compiuto dal solo Gesù nell'atrio dei gentili alla maniera
degli antichi profeti, per esprimere la sua riprovazione per lo stato di
profanazione in cui le autorità competenti avevano ridotto il Tempio, che
secondo l'insegnamento dei profeti doveva essere “casa di preghiera”, non
“spelonca di ladri”.
6. La
riserva escatologica di Gesù
Quali conclusioni si devono trarre da quanto
abbiamo detto sin qui? La prima è
questa: si commette un madornale errore storico quando si vuol fare di Gesù un
rivoluzionario o almeno un fautore del ricorso alla violenza rivoluzionaria
allo scopo di liberare un popolo dall'oppressione politica, militare ed
economica. Gesù ha rifiutato la violenza - ogni violenza - e, piuttosto che
farla subire agli altri, l'ha subita lui stesso. Non solo, ma ha predicato
e praticato l'amore per tutti, anche per i nemici, e nel suo agire non ha fatto
distinzioni e non ha discriminato nessuno a motivo delle sue idee politiche:
così, tra i suoi discepoli c'erano lo zelota Simone e il pubblicano Matteo, pur
essendo zeloti e pubblicani nemici mortali.
Certo, Gesù non fu un fautore dell'ordine
stabilito: egli ruppe con l'orgogliosa sicurezza degli ebrei di essere il
popolo eletto; ruppe con l'ideologia farisaica, affermando che i pubblicani e
le prostitute (i peccatori) avrebbero preceduto i farisei (i giusti) nel regno
dei cieli (Mt 21,31); soprattutto
ruppe su certi punti con la stessa Torah, per riproporre le esigenze originali
di Dio. Gesù non fu, dunque, un conservatore, ma un innovatore e un
rivoluzionario così radicale e pericoloso per l'ordine stabilito che i custodi
di questo, consapevoli del rischio che egli faceva correre all'ebraismo, decisero
di toglierlo di mezzo e, per raggiungere tale scopo, non trovarono via migliore
e più facile di quella di accusarlo presso Pilato come ribelle all'autorità
romana.
Tuttavia la rivoluzione di Gesù fu di carattere
religioso e spirituale, non politico e sociale. Evidentemente questa
rivoluzione religiosa e spirituale, per la sua profondità e radicalità, non
poteva non avere conseguenze rivoluzionarie per l'ordine sociale e politico; ma
non era questo lo scopo primo che Gesù si prefiggeva, bensì l'annuncio della
venuta del regno di Dio e l'entrata degli uomini e delle donne nel regno
escatologico del Padre.
La seconda
conclusione è la seguente: di fronte alla politica Gesù assume un
atteggiamento di “riserva escatologica”; non nel senso che egli condanni
o disprezzi la politica, anche se si mostra fortemente critico nei suoi
riguardi, ma nel senso che, confrontata col regno di Dio, la politica, come
realtà di questo mondo che passa, non ha molta importanza o almeno non ha
l'importanza primaria che taluni le attribuiscono. Gesù accetta le diverse
situazioni politiche come dati di fatto, che vanno accettati come appartenenti
a un mondo di peccato destinato a perire, e perciò di secondaria importanza:
per tale motivo, egli riconosce l'autorità romana e afferma che essa ha diritto
al tributo; non predica la rivoluzione contro Roma, anzi condanna chi nella
lotta armata contro l'occupante romano vede un mezzo per affrettare la venuta
del regno di Dio; non chiama gli schiavi a sollevarsi contro i loro padroni,
come avevano fatto Spartaco e altri.
La vera libertà che conta per Gesù non è la
libertà politica, ma la libertà dal peccato, perché solo tale libertà
interiore consente di partecipare già fin d'ora al regno escatologico che Gesù
ha portato nel mondo con la sua persona.
La terza
conclusione completa la seconda: la “riserva escatologica” che Gesù ha nei
confronti della politica non lo porta al deserto, come gli esseni e Giovanni
Battista. Gesù infatti vive nel mondo, tra gli uomini, e si trova a
dover affrontare continuamente problemi di ogni genere, anche problemi
politici. Egli non li evita, ma dà ad essi una soluzione: non, certo, una
soluzione “politica”, ma religiosa. In tal modo, egli, pur tenendosi lontano
dalla politica propriamente detta, predicando la giustizia, la non-violenza,
chiamando gli uomini all'amore universale e al servizio dei poveri e mostrando
che l'autorità dev'essere non dominazione ma servizio, agisce profondamente
sulla vita politica.
In altre parole, la sua “riserva escatologica”
nei riguardi della politica non è per Gesù un alibi che lo dispensa dall'agire
in questo mondo e per questo mondo; l'attesa del regno futuro non gli fa
trascurare questo mondo che passa. Solo che l'azione “politica” di Gesù in
questo mondo e per questo mondo non riguarda direttamente e primariamente il
mutamento e la riforma delle strutture politiche e sociali, ma la conversione
del cuore.
8. “Guai a voi ricchi”
Gesù e
il problema sociale della ricchezza
1. La situazione sociale al tempo di Gesù
Qual
era la situazione sociale della Palestina al tempo di Gesù?
Dalle testimonianze bibliche ed extrabibliche si
deduce che, al tempo di Gesù, la condizione delle grandi masse popolari era di
povertà e spesso di miseria.
La grande maggioranza del popolo palestinese era
formata da gente di condizione modesta e, spesso, povera: proprietari di
piccoli appezzamenti di terreno che coltivavano in proprio, piccoli
commercianti, artigiani, pescatori, salariati e lavoratori a giornata, pastori.
Costoro erano “poveri” sotto il profilo sia sociale sia economico: non solo,
infatti, avevano pochi beni materiali, ma, a causa della scarsa conoscenza che
avevano della Torah e della poca
osservanza di tutte le sue prescrizioni, erano disprezzati dai dottori e
conoscitori della Legge (gli scribi) e dagli “osservanti” (i farisei). Questi
li chiamavano con frase dispregiativa “il popolo della terra”.
Questo “popolo della terra” era sottoposto a
pesanti tasse da parte degli “esattori” delle imposte dirette, i quali ne
subappaltavano la riscossione ai “pubblicani”.
Costoro, approfittando del fatto che il pubblico ignorava le tariffe doganali,
si abbandonavano a ogni sorta di soprusi, riscuotendo dalla gente assai oltre
il dovuto. Per tale motivo erano considerati imbroglioni e pubblici peccatori,
ed erano odiati profondamente dal popolo, che essi sfruttavano senza ritegno;
l'odio e il disprezzo per i pubblicani erano accresciuti dal fatto che essi,
oltre che imbroglioni, venivano considerati traditori della patria, perché
riscuotevano le tasse per conto degli occupanti romani.
In conclusione, al tempo di Gesù, la
situazione della Palestina era, sotto il profilo politico, quella di un Paese
occupato militarmente da una potenza straniera, la quale lo sfruttava
economicamente nell'unica maniera possibile, cioè con l'imposizione di gravosi
tributi; e, sotto il profilo sociale ed economico, quella di un Paese che oggi
chiameremmo sottosviluppato, con un'economia di semplice sussistenza, in
cui a una piccola aristocrazia del denaro, del potere e della cultura, formata
dalle grandi famiglie sacerdotali, dai sadducei, dagli scribi e dai farisei, si
opponeva, senza tuttavia formare una “classe” omogenea, la grande massa del
“popolo della terra”, disprezzato dagli aristocratici e taglieggiato dai
pubblicani. La vita del popolo palestinese era, perciò, abbastanza misera. In
peggiori condizioni si trovavano quelli che, non possedendo in proprio, erano
costretti a lavorare alle dipendenze altrui, come i salariati e i lavoratori a
giornata, che lavoravano nelle grandi proprietà terriere con salari molto
modesti, i pastori, che pascolavano greggi altrui, e infine gli schiavi.
2.
Gesù e la rivoluzione sociale
La situazione della Palestina al tempo di Gesù
era esplosiva non solo - come si è visto - sotto l'aspetto politico, ma anche
sotto il profilo sociale. Infatti la lotta che gli zeloti conducevano contro i
romani non intendeva solo la liberazione politica del Paese dal giogo
straniero, ma anche la sua liberazione sociale ed economica: comportava, cioè,
non solo l'indipendenza del Paese, ma anche l'abolizione del pagamento delle
imposte, la distribuzione della grande proprietà fondiaria e la liberazione
degli schiavi.
In
questa situazione quale atteggiamento assume Gesù?
Da una parte, Gesù, di fronte
ai problemi sociali del lavoro e della proprietà, assume un atteggiamento di distacco: si tratta di realtà di questo
mondo che passa e perciò sono di poco conto quando vengono poste a confronto
con la realtà vera e suprema, che è il regno di Dio; dall'altra, egli stigmatizza
con forza l'ingiustizia sociale di questo mondo.
Così, per quanto riguarda il problema del lavoro, Gesù, lavoratore egli stesso,
mostra stima e amore per quelli che lavorano, specialmente per quelli che fanno
i lavori più umili: agricoltori, pescatori, vignaioli, casalinghe, tanto che ne
fa i protagonisti delle sue parabole; ma non oppone questi lavoratori a coloro
che esercitano professioni, diremmo noi oggi, liberali. E lontano da Gesù ogni
giudizio di valore sul lavoro manuale e sulle altre professioni: non ne fa un
problema né economico, né sociale e neppure religioso. Il lavoro per lui è una
realtà di questo mondo. Il suo messaggio escatologico non lo porta a
deprezzarlo, ma neppure a esaltarlo. Vuole soltanto che i suoi discepoli, i
quali hanno avuto da lui la missione di predicatori del Vangelo e di “pescatori
di uomini”, lascino ogni altro lavoro per potersi dedicare interamente alla
predicazione. come, del resto, ha fatto egli stesso, abbandonando il suo lavoro
di “carpentiere” .
Circa il problema della proprietà privata e della divisione tra ricchi e poveri, Gesù, da
una parte, mantiene una sorta di distacco, come se questi problemi non
lo interessassero. Non solo constata che nel mondo ci sono ricchi e poveri, ma
sembra accettarlo come un dato di fatto purtroppo ineliminabile: “I poveri li
avrete sempre con voi”, egli dichiara (Mc 14,7). Personalmente, poi, egli non
si sente chiamato a risolvere problemi di ordine economico.
Sente, infatti, che la sua missione è di un
altro ordine. Non deve occuparsi delle cose di questo mondo né proporsi il
miglioramento delle condizioni socioeconomiche degli uomini del suo tempo, ma
deve occuparsi soltanto della predicazione del regno di Dio.
D'altra parte, però, Gesù condanna con vigore l'ingiustizia sociale. Che ci siano ricchi i
quali possono banchettare “tutti i giorni lautamente” (come il ricco epulone
che “vestiva di porpora e di bisso”) e ci siano, invece, poveri che non possono
mangiare ogni giorno a sufficienza come il “mendicante Lazzaro” che “giaceva
alla porta” del ricco, “coperto di piaghe” e impossibilitato a “sfamarsi di
quello che cadeva dalla mensa del ricco”. Dio interviene a correggere l'attuale
ingiusta situazione, del mondo, ribaltando la condizione dei ricchi e dei
poveri. È importante, però, osservare che, se Gesù condanna l'ingiustizia
sociale di questo mondo, non invita tuttavia gli uomini a rovesciare l'attuale
ordine ingiusto: questo sarà compito di Dio, quando stabilirà il suo regno
escatologico e porrà fine alle attuali ingiustizie. Perciò Gesù, pur
riconoscendo che l'ordine attuale del mondo è radicalmente e profondamente
ingiusto, non predica una rivoluzione sociale.
Gesù,
dunque, non si fa promotore di una riforma delle istituzioni per una migliore
ripartizione della ricchezza. Significa questo che egli accetti, sia pure a
malincuore, l'ordine attuale ingiusto e lasci che i ricchi si godano le loro
ricchezze e i poveri soffrano senza speranza? No, certamente. Se Gesù non
formula un programma rivoluzionario di riforma delle istituzioni sociali,
perché sarà Dio a giudicarle e a sovvertirle con l'instaurazione del suo regno,
chiama i ricchi a convertirsi a Dio e a condividere con i poveri le loro
ricchezze e annuncia ai poveri che Dio sta per porre fine alle loro angustie.
In altre parole, Gesù non si presenta come un riformatore delle istituzioni
sociali, ma come un riformatore delle coscienze individuali.
Ecco ciò che distingue la
rivoluzione di Gesù dalle altre rivoluzioni
sociali: queste mirano alla riforma delle istituzioni, Gesù mira alla
riforma interiore, alla conversione del cuore. Le rivoluzioni sociali si basano
sulla forza e sulla violenza, in quanto oppongono forza a forza e violenza a
violenza, la rivoluzione di Gesù si basa sulla legge dell'amore. Le rivoluzioni
sociali danno la priorità alla riforma delle istituzioni, garantendo che, una
volta mutate in meglio le istituzioni, anche gli uomini saranno migliori; Gesù
dà la priorità alla conversione del cuore, al cambiamento individuale, sapendo
che i mali e le ingiustizie sociali sono frutto dell'egoismo, dell'ingiustizia,
dell'avidità, della volontà di dominio e di potenza degli esseri umani. Il suo
messaggio tende a migliorare l'individuo e per tale strada a riformare i
rapporti sociali: per Gesù, chi non è convertito a Dio, chi è schiavo del
denaro, non può amare il prossimo, non può avere con lui rapporti che siano di
giustizia e di carità.
Per tale motivo, la
predicazione di Gesù sulla ricchezza non ha di per sé un carattere sociale, ma
primariamente un carattere religioso,
anche se con riflessi sociali. Egli cioè mira alla conversione dei ricchi a
Dio; è chiaro, però, che tale conversione a Dio non può non significare
conversione ai poveri. Così, per esempio, la conversione a Dio del pubblicano
Zaccheo lo porta a dare metà dei suoi beni ai poveri e a dare il quadruplo a
quelli che egli ha frodato nella sua professione di pubblicano. Così, la
ricchezza è vista da Gesù essenzialmente in rapporto a Dio e al suo regno: essa
può essere un grave impedimento all'entrata nel regno di Dio; bisogna,
condividerla coi poveri.
3.
Gesù e la richezza
Quando Gesù pronuncia la tremenda parola: “Guai a voi, ricchi, perché avete già la
vostra consolazione” (Lc 6,24), che cosa vuol dire? È una condanna dei
ricchi per il solo fatto di essere ricchi? È una condanna dei ricchi in quanto
classe sociale opposta alla classe dei poveri?
Osserviamo che Gesù non ha condannato i ricchi in
quanto tali. Se lo avesse fatto, si sarebbe posto in contraddizione con se
stesso. Egli infatti ha avuto spesso a che fare con i ricchi: si è lasciato
invitare a tavola dal ricco Simone e
da “uno dei capi dei farisei”, è
stato ospite di famiglie agiate, come quella di Lazzaro e delle sorelle Marta e
Maria, ha ricevuto l'aiuto di persone facoltose e ha annoverato tra i suoi
amici persone ricche, come Nicodemo, Giuseppe di Arimatea e Zaccheo, “capo dei
pubblicani”.
Chi sono, perciò, i
ricchi contro i quali si scaglia Gesù?
Sono quelli che fanno della ricchezza il loro
dio, che pongono la loro fiducia nella ricchezza e trovano in essa la loro
consolazione; sono quelli che non sanno privarsi delle loro
ricchezze per condividerle con i poveri; sono quelli a cui la ricchezza chiude
il cuore a Dio e all'attesa del suo regno. Gesù perciò non condanna tutti i
ricchi indiscriminatamente, ma soltanto coloro che cedono alle insidie della
ricchezza, ai pericoli che la ricchezza porta con sé. Per comprendere in che
cosa consistano tali insidie e pericoli, bisogna riflettere sul fatto che per
Gesù il bene supremo dell'uomo è la partecipazione al regno di Dio: questo è la
perla preziosa per comprare la quale l'essere umano deve vendere tutto. Ora, che cosa, tra l'altro, impedisce
all'uomo di rispondere all'appello di Dio, il quale, per mezzo di Cristo, lo
invita a partecipare al suo regno? La ricchezza.
Non che essa sia un male in se stessa; ma, a
motivo della forza di attrazione che esercita sul cuore dell'uomo, costituisce
per lui un pericolo e un'insidia spirituale e può allontanarlo dal regno di
Dio. Infatti la ricchezza tende a conquistare talmente tutto l'essere umano da
rendergli molto difficile il servizio e l'amore di Dio e quindi l'accettazione
del suo dono: “Nessuno può servire a due padroni: o odierà l'uno e amerà
l'altro, o preferirà l'uno e disprezzerà l'altro: non potete servire a Dio e a
mammona” (Mt 6,24).
La ricchezza poi fa sì che l'uomo ponga in essa
la sua fiducia e attenda tutto da essa, invece di porre la sua fiducia in Dio e
attendere da Lui il dono della salvezza. In tal modo viene a mancare nell'uomo
la disposizione essenziale per ricevere il dono di Dio, che è di sentirne il
bisogno e quindi di attenderlo umilmente. Perciò Gesù afferma che è
praticamente impossibile che un ricco entri nel regno di Dio: “E più facile che
un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei
cieli” (Mt 19,24). Infine la
ricchezza ha il triste potere di soffocare la parola di Dio e d'impedirle di
fruttificare nel cuore dell'uomo: “Sopraggiungono le preoccupazioni del mondo e
l'inganno della ricchezza e tutte le altre bramosie, soffocano la parola e
questa rimane senza frutto” (Mc 4,19).
Come appare chiaro da queste parole di Gesù, egli
è contro la ricchezza non per motivi sociali, ma per un motivo religioso:
la ricchezza costituisce un impedimento per l'uomo ad accedere al regno di Dio.
Essa è un laccio, un “inganno” al
quale l'uomo non può sfuggire senza l'aiuto di Dio; è un padrone spietato di cui l'uomo diviene schiavo, fino al
punto di odiare e disprezzare Dio. Chi
perciò cerca di accumulare ricchezze è un insensato, uno “stolto” che non si rende conto della vanità
della ricchezza e della sua incapacità di conservargli la vita.
Che cosa deve fare,
allora, il ricco per entrare nel regno di Dio?
Deve, dice Gesù, rinunciare a quello che possiede
e darlo ai poveri in elemosina: “Vendete ciò che avete e datelo in elemosina” (Lc 12,33). Perché dare le proprie ricchezze ai poveri? Per un motivo di
giustizia sociale? Questa prospettiva non è assente in Gesù; tuttavia non è
preminente: per lui si tratta di farci “amici” che al momento della morte ci
accolgano nel regno di Dio. Questi “amici” non possono essere se non i
“poveri”, perché essi sono gli amici di Dio e i destinatari naturali del suo
regno.
Ma come farsi amici i poveri? Dando loro “la
iniqua ricchezza”: “Ebbene, io vi dico: Procuratevi amici con la iniqua
ricchezza, perché quando essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore
eterne” (Lc 16,9). Per Gesù, la ricchezza è “mammona
d'ingiustizia”, perché è spesso
accumulata con la disonestà e l'ingiustizia e facilmente porta chi la possiede
a essere disonesto e ingiusto, e perché allontana gli uomini dal regno di Dio:
l'unico uso buono e onesto che se ne può fare è quello di condividerla coi
poveri.
Non manca però, anche nell'Antico Testamento, una
corrente di pensiero che mette in forte risalto sia la malvagità dei ricchi,
sia i pericoli della ricchezza. Così i profeti
sanno che non ogni ricchezza è dono e segno della benedizione di Dio.
A questa corrente profetica si ricollega Gesù, in
maniera però assai originale, nella sua visione della ricchezza. Anche i discepoli di Gesù avranno presenti le
invettive degli antichi profeti contro i ricchi.
4. La
ricchezza ieri e oggi
Quello che il Vangelo condanna non è il possesso
della ricchezza in se stesso, ma l'uso che se ne fa. Chi infatti pur possedendo
la ricchezza, se ne serve per il bene degli altri, creando lavoro e benessere a
beneficio della comunità e particolarmente dei più poveri, non cade sotto la
condanna di Gesù; è invece condannato chi non pone la sua ricchezza a servizio
degli altri, ma se la gode egoisticamente oppure la reinveste unicamente a
scopi egoistici o per sfruttare gli altri, badando esclusivamente al maggiore
profitto personale.
Questo significa che l'elemosina oggi non
è l'unica maniera di usare bene la ricchezza. Ciò detto, però, tutte le altre
parti dell'insegnamento di Gesù sulla ricchezza conservano ancora la loro
validità. Così, anche oggi il Vangelo condanna l'avidità della ricchezza, la
ricerca affannosa di essa; condanna coloro che nella ricchezza pongono tutta la
loro fiducia e tutte le speranze, dimenticando Dio e il suo regno; condanna
coloro che si aggrappano con tutte le forze ai beni della Terra, dimenticando
la vita eterna; condanna coloro che si servono della ricchezza per opprimere e
sfruttare gli altri o per accrescere il loro potere. Anche oggi conserva valore
quanto Gesù dice sui pericoli e sulle insidie della ricchezza. Il richiamo alla
povertà volontaria, anche in una società consumistica come la nostra, non ha
perduto la sua validità.
Così l'insegnamento di Gesù sulla ricchezza,
nonostante i radicali cambiamenti avvenuti nella struttura sociale ed economica
del nostro tempo, rispetto a quella della Palestina del 1 secolo, resta del
tutto valido ancora oggi, non solo nel suo spirito profondo, ma anche nelle sue
determinazioni particolari.
9. La
morte di Gesù sulla croce
Il nucleo essenziale del “mistero” di
Gesù sta nella sua morte e nella sua risurrezione dalla morte. Si tratta in
realtà di un solo mistero in due tempi.
Affrontiamo il mistero della morte di Gesù, come
e perché Gesù è morto sulla croce.
1. Gli
annunci della propria morte da parte di Gesù
La morte di Gesù non è avvenuta per caso o per un
insieme di circostanze avverse e sfortunate. Essa è stata prevista e
preannunciata da lui stesso. Il Vangelo di Marco afferma che per tre volte Gesù
ha annunciato la sua morte per mano delle supreme autorità del popolo ebraico e
dei pagani, come un evento voluto da Dio.
La prima
volta Gesù annunciò esplicitamente la sua passione, la sua morte e la sua
risurrezione dopo che Pietro, nei dintorni di Cesarea di Filippo, a nord della
Galilea, aveva riconosciuto che egli era il Messia:
“E incominciò a insegnar loro che il Figlio dell'uomo [Gesù] doveva
soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli
scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare”
(Mc 8,3 1).
Gli avversari che lo avrebbero messo a morte
erano i membri del Sinedrio di Gerusalemme: gli “anziani” rappresentavano il
patriziato privilegiato di Gerusalemme ed erano seguaci della tendenza
sacerdotale sadducea; i “sommi sacerdoti”, o capi dei sacerdoti, erano i titolari delle più alte
cariche sacerdotali e nel Sinedrio rappresentavano il gruppo nel quale veniva
scelto il “sommo sacerdote”, che doveva presiederlo: essi, di tendenza
sadducea, erano la forza politica dominante in Gerusalemme. Gli “scribi” erano
i dottori della Legge e nel Sinedrio rappresentavano prevalentemente il
partito dei farisei.
Questo primo
annuncio di morte, la quale doveva essere preceduta dal “rigetto” da parte dei
capi del popolo ebraico, fu accolto male dai discepoli di Gesù, i quali avevano
del Messia la concezione comune agli ebrei del loro tempo: il Messia sarebbe
stato un personaggio glorioso, che avrebbe liberato il popolo ebraico dal giogo
politico dei romani e avrebbe fatto d'lsraele un popolo libero, grande e
felice. Perciò - narra Marco - “Pietro lo [Gesù] prese in disparte e si mise a
rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i discepoli, rimproverò Pietro e
gli disse: “Lungi da me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo
gli uomini” (Mc 8,37b-33). Pietro non
vuole che Gesù soffra e muoia e perciò “rimprovera” Gesù, volendo distoglierlo
dalla sofferenza. Ma Gesù lo richiama all'ordine e lo ammonisce, con le parole
“Lungi da me”, a restare al suo posto, nella sequela di colui che esprime il
pensiero e la volontà di Dio. Pietro, in realtà, in quel momento è un “satana”,
cioè un avversario, un oppositore e un tentatore di Gesù, perché lo vuol
distogliere dal cammino che Dio gli ha assegnato. Infatti Pietro non pensa
“secondo Dio”, ma “secondo gli uomini”, cioè non sostiene la causa di Dio, ma
quella degli uomini, la cui ragione si ribella alla sofferenza del Messia, che
invece è voluta da Dio, poiché il Figlio dell'uomo “deve molto
soffrire”.
Il secondo annuncio della sua morte Gesù lo diede attraversando la
Galilea, quando ormai aveva smesso di dedicarsi all'istruzione del popolo e
aveva iniziato il viaggio verso Gerusalemme, dove si sarebbe compiuto il suo
destino. Anche in questo caso i discepoli non capiscono e hanno paura di
chiedere spiegazioni a Gesù, per timore di essere rimproverati, come era
successo a Pietro nei dintorni di Cesarea.
Il terzo
annunzio della morte Gesù lo diede mentre, con i suoi discepoli e con un gruppo
di pellegrini, era in viaggio per “salire” a Gerusalemme: Gesù camminava avanti
con risolutezza, quasi per affrettare il passo verso il compimento del suo
destino di morte, tanto che i suoi discepoli ne erano sbigottiti e gli altri
pellegrini erano pieni di timore. A un certo punto egli prese in disparte i
Dodici e cominciò a dir loro quello che gli sarebbe accaduto:
“Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il
Figlio dell'uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi: lo
condanneranno a morte, lo consegneranno ai pagani, lo scherniranno, gli
sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno; ma dopo tre giorni
risusciterà” (Mc 10,33).
Questo terzo annunzio della morte di Gesù
rispetto ai due precedenti è molto più preciso: si parla del luogo della morte,
Gerusalemme; della “consegna” di Gesù ai capi dei sacerdoti, della sequenza:
condanna a morte-consegna a Pilato-derisione di
Gesù-flagellazione-uccisione-risurrezione.
Gesù dunque ha previsto e preannunziato la sua
morte in maniera assai chiara. Indubbiamente, egli poteva pensare che la sua
predicazione e il suo comportamento nei confronti della legge ebraica, in
particolare dell'osservanza del sabato e delle prescrizioni rituali circa gli
alimenti, costituissero un pericolo per la sua vita. Così non doveva ignorare
che, dopo che ebbe guarito nella sinagoga di Cafarnao, in giorno di sabato, un
uomo che aveva la mano inaridita, “i farisei uscirono subito con gli erodiani
[dalla sinagoga] e tennero consiglio contro di lui per farlo morire” (Mc 3,6). Tuttavia, ragionando umanamente, non poteva avere la certezza
di andare incontro a una morte violenta. Invece Gesù ha avuto tale certezza
e l'ha comunicata ai suoi discepoli in maniera sempre più esplicita.
2.
Gesù non sfugge davanti al conflitto con i suoi nemici
Gesù non ha soltanto preannunziato la sua morte e
le sofferenze che l'avrebbero preceduta, nonché la risurrezione che l'avrebbe
seguita, ma, dinanzi alla prospettiva di essa e, dunque, al fallimento della
sua missione, non si è tirato indietro. Egli ha proseguito nel suo cammino, pur
essendo pienamente consapevole che esso portava alla morte. Così non fugge
dinanzi ai pericoli che potrebbero essergli fatali. Infatti attacca
frontalmente e instancabilmente il modo in cui i farisei e gli scribi
interpretano la legge mosaica, suscitando in essi un odio mortale nei suoi
riguardi. Non si cura della grave insidia che potrebbe tendergli Erode Antipa, che aveva già fatto
uccidere Giovanni il Battista
Una volta giunto nelle vicinanze di Gerusalemme,
Gesù compie alcuni gesti provocatori,
che lo mettono contro la potente classe dominante della città, composta dagli
anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, che decidono la sua morte.
Anzitutto egli entra in Gerusalemme come Messia: lo fa in maniera
estremamente modesta, a dorso di un asinello, per significare che egli non è
il Messia politico, venuto a restaurare il regno d'Israele. Ma la folla,
probabilmente non grande, che lo precede e lo segue entusiasta, proclamando:
“Benedetto il regno che viene, del nostro padre Davide!” (Mc 11,10), lo esalta come
Messia, e ciò non può non irritare e preoccupare i capi dei sacerdoti sadducei,
che temono per le sorti d'Israele e per il loro potere. Infatti, dinanzi a una
sollevazione popolare provocata da un sedicente Messia, i romani non potrebbero
non intervenire duramente, facendo pesare ancora di più il loro già
inflessibile giogo sulla nazione ebraica.
D'altra parte, Gesù, con la parabola dei
vignaioli omicidi, che uccidono il figlio del padrone inviato a riscuotere i
frutti della vigna, non solo smaschera le intenzioni omicide dei suoi avversari
nei suoi riguardi, ma annunzia loro che Dio li castigherà e darà ad altri la
sua vigna: porta così il conflitto con i capi del popolo ebraico al suo più
alto e drammatico livello, tanto che questi vorrebbero catturarlo subito, ma
non lo fanno solo per paura della folla. In tal modo Gesù sfida i suoi
avversari in maniera così dichiarata che questi non possono pensare se non a
farlo morire (cfr Mc 12,1-12.).
Ma il punto più alto della sua provocazione è la cacciata
dei mercanti dal Tempio di Gerusalemme: si tratta infatti di “un'azione
simbolica che condanna in modo dimostrativo il vecchio ordine cultuale” perché
rivendica il Tempio intero come luogo di preghiera, di adorazione a Dio per
tutti i popoli. In realtà, l’iniziativa di Gesù contro i mercanti, che erano
autorizzati dalle autorità giudaiche, e certo ancor più la sua implicita
minaccia contro il Tempio, rendono comprensibile la reazione dei sacerdoti e
degli scribi. Essi cercano di renderlo innocuo, perché temono lui e le più
vaste azioni dei suoi sostenitori che possono venir provocate dal suo gesto”.
3.
Gesù procede nel suo cammino che lo condurrà alla morte
Gesù dunque sa che questo suo comportamento lo
conduce alla morte, e tuttavia va avanti con estrema decisione. Perché?
A prima vista parrebbe che egli abbia il gusto
della sfida, della lotta, al punto che quanto più questa rischia di divenire
mortale per lui, tanto più egli si sente attirato a combattere per la purezza
della religione ebraica. Si spiegherebbe così perché non lo facciano desistere
dalla sua lotta né la crescente avversione degli scribi e dei farisei, che lo
tallonano continuamente, pronti a coglierlo in fallo per poterlo accusare, né
la diminuzione del favore e dell'entusiasmo delle folle, che a poco a poco lo
abbandonano perché egli non intende essere il Messia politico che esse
desiderano, né l'abbandono di alcuni suoi discepoli, né i gravi sospetti che si
accumulano su di lui negli ambienti sacerdotali di Gerusalemme. Questi,
infatti, vedono in lui un pericolo per la religione ebraica, di cui egli
combatte le principali istituzioni - la Legge, il Tempio e il Sabato - e
soprattutto un pericolo per l'esistenza stessa d'Israele, poiché i romani,
dinanzi a un movimento rivoluzionario come quello di Gesù, interverrebbero
pesantemente, privando la nazione ebraica di quel poco di libertà e autonomia
di cui gode ancora, almeno in campo religioso.
E tuttavia non c'è in Gesù il gusto della
lotta e tanto meno quello della sfida. Egli non è contro nessuno: né contro
gli scribi, i farisei e i capi dei sacerdoti, né contro la Legge e il Tempio,
né contro gli occupanti romani, ai quali riconosce perfino il diritto di
riscuotere il tributo (Mc 12,17). La
sua missione è predicare la venuta del regno di Dio e la conversione
d'Israele; portare a compimento la Legge ebraica; manifestare l'amore di Dio
verso i peccatori, i poveri e i piccoli e predicare la chiamata di tutti gli
uomini alla salvezza mediante la fede nel suo Inviato - Gesù - e mediante la
pratica di una religione più interiore, e dunque non formalistica e
preoccupata delle pratiche esteriori, ma attenta a vivere l'amore di Dio “sopra
ogni cosa” e del prossimo “come se stesso”. Se talvolta usa parole dure e
sferzanti, lo fa con sofferenza interiore e solo quando incontra la malafede,
l'ipocrisia, la cecità volontaria, il rifiuto preconcetto della sua parola,
l'accusa che egli non è l'inviato di Dio, ma un invasato di Satana. Perciò
la dura lotta con i suoi avversari non è voluta da lui, ma gli è imposta dalla
malvagità umana. Gesù è vittima dell'odio degli uomini e la sua morte non è che
l'atto finale di una congiura delle forze del male.
Questa tragica situazione, in cui è posto dai
suoi nemici, Gesù non solo non la rifiuta e non la sfugge, ma l'accetta: non
però passivamente, ma assumendola attivamente con coraggio e senza esitazione.
Perché? Il motivo profondo di questo comportamento, che può apparire strano, è
la convinzione che nella sua vita e nella sua morte si attui un disegno di
Dio: che cioè, attraverso le orribili vicende di cui sono protagonisti responsabili
e attori colpevoli gli uomini - i quali, nella loro libertà e sotto l'impulso
delle loro passioni, lo calunniano, lo odiano, gli tendono insidie mortali e
infine lo uccidono -, si compia la volontà di Dio su di lui. Non che Dio voglia
il male che i suoi nemici commettono a suo danno, poiché gli uomini non sono
marionette nelle sue mani, ma conservano la loro libertà e sono dunque
responsabili del male che compiono. Egli però si serve anche del male commesso
liberamente dagli uomini per realizzare la loro salvezza, poiché nel
misterioso piano di Dio il sangue del giusto innocente, sparso colpevolmente
dai suoi nemici, è versato per salvarli. E Gesù è precisamente il Giusto
innocente che, soffrendo e morendo per mano degli empi, è l'artefice della
loro salvezza.
Gesù legge questo suo destino di sofferenza e di
morte nella Sacra Scrittura, che esprime la volontà e il disegno di Dio. Dice
infatti dopo la sua risurrezione ai suoi discepoli riuniti nel Cenacolo:
“Sono queste parole che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna che
si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e
nei Salmi". Allora aprì loro la mente all'intelligenza delle Scritture e
disse: "Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dal morti
il terzo giorno"” (Lc 24,44-46).
In particolare Gesù legge il suo destino nella
figura del “Servo di Jahvè”, sul
quale Dio “fece ricadere l'iniquità di noi tutti” e che “per l'iniquità del mio
popolo fu percosso a morte” (Is
53,6-8).
Così, Gesù non solo assunse attivamente il
proprio destino, ma diede alla sua morte il senso di “espiazione” e di “riscatto” per i peccati. “Il Figlio dell'uomo -
egli disse una volta ai suoi discepoli che si disputavano i primi posti nel
suo futuro regno messianico, deludendoli amaramente - non è venuto per essere
servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,45).
Ma fu soprattutto alla vigilia della sua morte,
nella cena di addio, che Gesù diede un significato salvifico alla sua morte
imminente, parlando del suo sangue come del “sangue dell'alleanza, versato per
molti” (Mc 14,24).
4. I
racconti della passione
Il dramma della morte di Gesù si è svolto in un
arco di tempo assai breve. Il resoconto che ne abbiamo - tutti e quattro i
Vangeli parlano lungamente della passione e della morte di Gesù - è molto
circostanziato, con un'insolita abbondanza di particolari sui luoghi e sulle
date.
Quanto alla storicità
dei racconti evangelici riguardanti la passione e la morte di Gesù, si deve
certo riconoscere che sono influenzati dal desiderio di dimostrare l'avverarsi
delle profezie dell'Antico Testamento, ma non si può affermare che tale
desiderio abbia determinato la narrazione dei fatti. Se gli evangelisti
avessero voluto fare opera apologetica, di difesa della fede nel Cristo
risorto, non avrebbero riportato il grido di Gesù sulla croce “Dio mio, Dio
mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc
15,34), né avrebbero narrato che, la notte precedente la sua morte, nell'Orto
degli Ulivi, aveva sentito “paura e angoscia” (Mc 14,33) e aveva pregato il Padre che, se fosse possibile,
allontanasse da lui il “calice” della sofferenza e della morte: due fatti
“scandalosi” per chi credeva che Gesù era il Figlio di Dio.
D'altra parte, se avessero voluto fare opera di
edificazione, avrebbero abbondato in racconti edificanti oppure nella descrizione
delle sofferenze di Gesù, facendone risaltare il coraggio nel sopportarle.
Invece gli evangelisti narrano fatti che compromettono il buon nome dei
discepoli di Gesù, che al tempo della composizione dei Vangeli erano venerati
dalla Chiesa. Così parlano del tradimento di Giuda, del triplice
rinnegamento di Pietro, della fuga vergognosa dei discepoli, i
quali, nonostante le promesse di seguirlo fino a morire con lui, lo abbandonano
al suo destino. Per quanto riguarda le sofferenze di Gesù, essi sono di
una sobrietà estrema, limitandosi a dire che Pilato fece “flagellare Gesù” (Mc 15,15) e che i soldati “lo
crocifissero” (Mc 15,24). Quando si
pensa alle sofferenze spaventose che comportavano la flagellazione e la
crocifissione, non si può non riconoscere che gli evangelisti, con la loro
concisione e la loro freddezza, non hanno voluto edificare e commuovere il
lettore, ma solo narrare, nella loro nuda crudezza, fatti storici.
Si deve ammettere che c'è, nei racconti della
passione di Gesù, la tendenza a sottolineare con forza la responsabilità degli
ebrei nella morte di Gesù e a sminuire il più possibile quella dei romani. Di
tale tendenza si deve tener conto nella ricostruzione delle vicende della
passione. Ciò non significa tuttavia che bisogna ritenere non storici i fatti
che mostrano la responsabilità degli ebrei (non di tutti gli ebrei del tempo di
Gesù evidentemente, e tanto meno degli ebrei di oggi, ma dei capi del popolo
ebraico che parteciparono alla condanna di Gesù e lo consegnarono a Pilato, e
della folla di Gerusalemme che ne chiese la crocifissione); significa soltanto
che certi fatti e certe parole, troppo sfavorevoli agli ebrei, vanno letti in
maniera più benevola. In realtà la
responsabilità della morte di Gesù fu tanto degli ebrei quanto dei romani:
infatti il sinedrio ebraico giudicò Gesù, lo condannò ingiustamente a morte
come bestemmiatore e lo consegnò a Pilato come ribelle all'autorità romana.
Pilato, pur rendendosi conto dell'innocenza di Gesù, sotto la pressione della
folla che ne chiedeva la crocifissione e per paura di essere accusato presso
l'imperatore di aver lasciato in vita un ribelle all'autorità romana, dopo
aver fatto flagellare Gesù allo scopo di ammansire la folla, lo consegnò ai
suoi soldati perché lo crocifiggessero come “re dei giudei”, quindi come un
ribelle a Roma, facendo scrivere sulla sua croce: “Gesù il Nazareno, il re dei
Giudei”.
5. Le
tappe della passione
La passione di Gesù inizia nell'Orto degli Ulivi,
dove Gesù - dopo la cena di addio,
nella quale, per dare un esempio di carità e di servizio fraterno, ha lavato i
piedi ai suoi discepoli e ha comandato loro di celebrare in sua memoria il rito
della Cena - si è recato, come faceva abitualmente, per pregare, mentre i suoi
discepoli riposavano. Qui infatti egli è preso da un'angoscia mortale, di
fronte alla prospettiva della morte, tanto da pregare il Padre di evitargliela. Ma, facendo uno sforzo
supremo di adesione alla volontà del Padre, dice: “Però non ciò che io voglio,
ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36).
Intanto giunge, guidato da Giuda, il traditore che si era accordato con i
sommi sacerdoti per consegnare loro Gesù quando non ci fosse pericolo di una
sollevazione della folla, un distaccamento mandato dal Sinedrio: al segnale
convenuto - Giuda avrebbe baciato
Gesù - le guardie lo arrestano. Pietro allora, per difendere Gesù, con una
spada recide l'orecchio destro a un certo Malco, servo del sommo sacerdote
Caifa. Gesù si lamenta che siano venuti a prenderlo di notte come un brigante,
ma non oppone resistenza.
Dopo l'arresto, Gesù viene portato davanti ad Anna, che aveva esercitato l'ufficio di
sommo sacerdote dal 6 al 15 d.C., e che perciò non è più sommo sacerdote in
carica, ma tuttavia gode di un enorme prestigio nella casta sacerdotale.
Sommo sacerdote in quel momento è suo genero, Giuseppe
Caifa (di cui è stata recentemente trovata la tomba), e a lui compete
presiedere il Sinedrio al quale spetta giudicare Gesù. Perciò l'interrogatorio
a cui Anna sottopone Gesù, chiedendogli conto del suo insegnamento e dei suoi
discepoli, non ha carattere ufficiale. Probabilmente Anna vuol raccogliere
qualche confessione da parte di Gesù che possa servire nel processo che dovrà
tra breve svolgersi dinanzi al Sinedrio, che si sta radunando. Ma Gesù lo
delude, affermando il carattere pubblico della sua attività: egli non ha nulla
di segreto e di nascosto da rivelare, perché ha parlato sempre in pubblico.
Questa serena dignità di Gesù nel rispondere sembra irriverente e ingiuriosa a
una guardia, che lo schiaffeggia.
Dopo l'inutile interrogatorio, Anna invia Gesù da
Caifa, presso il quale si è riunito
il Sinedrio, composto da “tutti i
capi dei sacerdoti, gli anziani e gli scribi” (Mc 14,53).
Si inizia il processo con la chiamata dei testimoni a carico, che fungono da
accusatori, perché la giurisprudenza ebraica non conosce un pubblico
accusatore. Ma i testimoni si rivelano inutili, perché le loro testimonianze
non sono concordi, a parte due che accusano Gesù di aver parlato di voler distruggere
il Tempio: accusa che è certamente grave, perché ha un suono messianico, ma non
tale da meritare la condanna a morte che si ha intenzione d'infliggere a Gesù.
Così Caifa si assume l'incarico d'interrogare l'imputato, per chiedergli se riconosce
la fondatezza delle accuse perché in tal caso la discordanza tra di esse
sarebbe neutralizzata e si potrebbe procedere contro di lui. Ma Gesù non
risponde e in tal modo toglie al Sinedrio la possibilità di ricavare qualche
cosa dalla deposizione dei testimoni. A questo punto Caifa chiede a Gesù,
per metterlo alle strette, se egli si ritiene il Messia. “Io lo sono!”,
risponde Gesù (Mc 14,62). Questa sua
affermazione è interpretata come bestemmia, ed egli è dichiarato reo di morte,
perché la legge mosaica prevedeva per la bestemmia la morte mediante lapidazione
(Lv 24,16). La sentenza diventava
immediatamente esecutiva, ma il Sinedrio non aveva più lo ius gladii (cioè il diritto di far eseguire una sentenza di
morte): questo apparteneva solo al procuratore romano. Così il Sinedrio decide
di rimettere Gesù a Pilato con un atto di accusa. La seduta ha termine al
sorgere del sole.
Mentre avviene l'interrogatorio di Gesù presso
Anna e presso il Sinedrio, Pietro,
che si trova nel cortile del palazzo dov'è riunito il Sinedrio a scaldarsi con
i servitori, per tre volte nega di conoscerlo e solo quando un gallo canta per
la seconda volta si ricorda che Gesù gli ha predetto il suo rinnegamento, si
rende conto di quanto ha fatto e, piangendo amaramente, esce dal palazzo. Al
mattino Gesù viene consegnato a Pilato con l'accusa - non religiosa, ma
politica - di essere un sobillatore del popolo contro i romani, d'impedire di
pagare il tributo all'imperatore e di essere il Messia re. Pilato chiede a Gesù se egli è il “re
dei Giudei”. Risponde Gesù: “Tu lo dici”, una maniera per affermare che egli è
il Messia re, ma anche per negare di esserlo come lo intendono i suoi
avversari, cioè in senso politico. Come spiegherà più tardi a Pilato, nel
colloquio faccia a faccia col procuratore, egli è re, ma il suo regno non è di
questo mondo e la sua regalità riguarda la verità che è venuto a testimoniare
nel mondo. Così Pilato si rende conto che Gesù non è il pericoloso ribelle e
pretendente al trono che i capi del Sinedrio vogliono fargli credere. Per lui
Gesù è un sognatore innocuo e degno di compassione, ma non colpevole di alto
tradimento. Perciò dice: “Io non trovo in lui nessuna colpa”.
Convinto dell'innocenza di Gesù, Pilato avrebbe
dovuto rilasciarlo; ma non lo fa e a questo punto inizia la sua
responsabilità. Vuole liberare Gesù, ma per vie traverse, le quali l'una dopo
l'altra si rivelano impraticabili, finché, sia pure di malavoglia, è costretto
dalla sua stessa indecisione a condannarlo a morte. Infatti, prima invia Gesù
da Erode, sperando che questi
avochi a sé il processo; ma Erode, che non si è mai interessato sul serio di
Gesù sotto il profilo politico-religioso, ma solo dei fatti meravigliosi che a
lui vengono attribuiti - e ora spera di vederne qualcuno -, deluso da Gesù, il
quale neppure risponde alla sua frivola richiesta, glielo rimanda indietro,
vestito per spregio da re da burla, mostrando in tal modo che lo ritiene più
ridicolo ch pericoloso. Fallito il tentativo di far risolvere a Erode quel caso
spinoso, Pilato tenta un'altra strada: far chiedere alla folla che assiste al
processo la liberazione di Gesù. Ma la folla, istigata dai sommi sacerdoti,
chiede che venga liberato Barabba e crocifisso Gesù.
Infine Pilato tenta di salvare Gesù dalla
crocifissione facendolo flagellare, nella certezza che la folla, ormai
inferocita, si accontenti di questa terribile pena. All'orribile flagellazione,
i soldati aggiungono di loro lo scherno di gettargli addosso un mantello
regale e di mettergli sul capo una corona di spine e nelle mani, come scettro,
una canna. In questa caricatura, Pilato presenta Gesù alla folla - “Ecco
l'uomo” (Gv 19,5) -, aspettandosi che
essa rida sulla pretesa regale di Gesù e, vedendolo ridotto a uno straccio - la
flagellazione romana era il più delle volte mortale oppure lasciava segni
gravissimi se si riusciva a sopravvivere -, non ne pretenda l'ulteriore
crocifissione. Ma la folla, ancora più eccitata a quella vista, riprende a gridare:
“Crocifiggilo, crocifiggilo!” (Gv
19,6). Pilato, irritato per questo terzo insuccesso, replica agli ebrei che
egli ritiene Gesù innocente e che, se vogliono, siano essi a crocifiggerlo (ciò
che non possono fare), intendendo in tal modo ribadire il suo rifiuto. Ma cede
quando gli viene fatto notate che Gesù deve morire perché, proclamandosi figlio
di Dio, ha violato la legge ebraica e, facendosi re, si è posto contro
l'autorità di Cesare: se dunque Pilato non lo condanna a morte, “non è amico di
Cesare” e, come tale, può essere denunciato a Roma. Dinanzi a tale prospettiva,
Pilato condanna a morte Gesù e lo consegna ai soldati perché sia crocifisso.
La crocifissione avviene poco fuori di
Gerusalemme, su una piccola altura detta Golgota
o luogo del Cranio: qui Gesù che, aiutato da Simone di Cirene, ha portato sulle
sue spalle il patibulum, cioè il
palo trasversale, vi è inchiodato sopra con le mani e poi innalzato sul palo
verticale al quale vengono inchiodati i piedi. Egli è crocifisso tra due
delinquenti comuni verso le 12 e la sua agonia dura circa tre ore. Muore verso
le tre del pomeriggio, dopo aver perdonato i suoi nemici, dopo aver espresso
la sua angoscia con le parole del Salmo 21: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?” e dopo aver ribadito la sua fiducia in Dio: “Padre, nelle tue
mani consegno il mio spirito” (Lc
23,46). Il centurione romano che assiste alla scena esclama: “Veramente
quest'uomo era giusto” (Lc 23,47).
6. La
morte di Gesù
La morte di Gesù sulla croce è sconcertante.
Lo è, anzitutto, per il fatto che Gesù è
condannato e muore come innocente,
vittima dell'odio e della malvagità dei suoi nemici giudei e della debolezza
colpevole del procuratore romano. Non è certo la prima volta che un innocente è
messo a morte. Ma quella di Gesù è l'innocenza di un uomo che ha predicato
l'amore paterno di Dio per gli uomini, ha detto che gli esseri umani so no
fratelli e devono amarsi, servirsi e perdonarsi a vicenda; è l'innocenza di un
uomo che nella sua vita ha compiuto opere meravigliose a beneficio dei
malati e dei sofferenti nel corpo e nello spirito, ha liberato persone
schiave del peccato e del male, ha avuto una particolare predilezione per i
poveri, i piccoli e gli esclusi dalla società umana; è l'innocenza di un uomo
che non ha fatto mai alcun male a nessuno e, se ha combattuto
l'ipocrisia, la malafede, gli abusi religiosi, lo ha fatto per amore, per la
salvezza di coloro che erano irretiti dal male e non ne avevano coscienza.
Quello che, perciò, sconcerta nella morte di Gesù non è il fatto che sia
condannato un innocente, ma che quell'innocente sia Gesù di Nazaret, la figura
più alta e più pura che l'umanità abbia prodotto. Perché tanto e così feroce
accanimento contro di lui, come se si trattasse di un pericoloso e crudele
assassino?
La morte di Gesù sulla croce sconcerta poi per la
nobiltà e la dignità del suo comportamento durante la sua passione; per
la pazienza e la dolcezza con cui sopporta le pene più atroci, quali la
flagellazione e le tre ore di agonia sulla croce, gli insulti e gli scherni dei
suoi nemici, la derisione di Erode e dei soldati romani, il grido terribile
della folla che ne chiede la crocifissione; per il silenzio che oppone alle
accuse, alle calunnie e alle grida che si levano contro di lui; e, infine, per
il perdono che egli, dall'alto della croce, dà ai suoi nemici, cercando anche
di scusarli, “perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). Ne è sconcertato perfino il centurione romano, che pure
è abituato a vedere uomini crocifissi, al punto da fargli dichiarare che Gesù è
un “uomo giusto”.
Chi dunque legge il racconto della passione e
della morte di Gesù non può non chiedersi chi sia questo Gesù che soffre pur
essendo innocente e santo - un martirio così atroce e così umiliante, poiché la
morte sulla croce era riservata agli schiavi e ai briganti. Tanto più che Gesù
ha predetto la sua morte, l'ha accettata e l'ha assunta come compimento della
sua missione, cioè come voluta da Dio per la salvezza dei peccatori. Bisogna
chiedersi, infatti, come Gesù ha potuto dare il significato di espiazione per i
peccati degli altri alla sua morte sulla croce. In altre parole, quale
mistero si cela dietro la morte di Gesù?
Forse con la sua morte così atroce, Gesù è
l'Innocente che prende su di sé ed espia i peccati del mondo, per liberare gli
uomini dal destino di morte a cui il peccato conduce?
Chi legge nel Vangeli il racconto della passione e della morte di Gesù
sulla croce non può non chiedersi quale senso abbia una tale morte. Infatti,
nella vicenda storica di Gesù di Nazaret, la sua passione e la sua morte
presentano aspetti strani e sconcertanti. Anzitutto, la morte non giunge per
Gesù inaspettata e improvvisa. Essa non è l'interruzione traumatica della sua
attività di predicatore, un tragico incidente di percorso, anche se accettato
con coraggio, ma è il punto verso cui tende tutta la sua vita. Non soltanto
egli prevede di poter andare incontro a una morte violenta per mano dei suoi
avversari, a causa del progressivo abbandono delle folle, deluse nelle loro
aspettative messianiche, e dell'odio crescente dei capi spirituali e relìgiosi
del popolo, sempre più consapevoli del pericolo che Gesù rappresenta per la
sopravvivenza della religione e della nazione ebraica; ma egli sa, e lo afferma
varie volte, di andare a Gerusalemme per essere «consegnato nelle mani degli
uomini», che lo faranno soffrire e lo metteranno a morte. Anzi, non solo Gesù è consapevole che sarà così, ma aggiunge che
«è necessario» che egli sia messo a
morte. Perché questa «necessità» di essere «consegnato» nelle mani degli
uomini?
Gesù va, dunque, incontro alla morte consapevolmente; ma quando questa
è ormai imminente, egli ha paura e, in preda a un'angoscia mortale, supplica il
Padre che allontani da lui il calice della morte. Perché questa paura e
quest'angoscia?
Dopo aver superato la lotta interiore e aver detto il suo «si» al
Padre, Gesù si lascia arrestare, giudicare, condannare e crocifiggere, senza
opporre resistenza; risponde a coloro che lo interrogano, protesta per essere
arrestato come un bandito e per lo schiaffo del servo di Anna, ma poi si chiude
nel silenzio, non rispondendo né alle accuse del Sinedrio, né a una richiesta
di Pilato. Perché questo silenzio?
Contro Gesù si scatena un odio furibondo che, partendo dai capi degli
ebrei, investe il popolo che ne chiede la condanna alla crocifissione, la
coorte romana che lo deride crudelmente, Erode che lo tratta da pazzo, Pilato
che lo fa crocifiggere. Che cosa c'è dietro quest'odio che non si placa neppure
con la morte?
Gesù muore condannato ingiustamente. Come ha potuto Dio volere o
permettere un'ingiustizia così scandalosa senza intervenire?
Infine, Gesù muore nel fallimento e nella desolazione totale, gridando
al Padre il suo abbandono: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»
Perché questo fallimento e questo abbandono?
2. Lo «scandalo» della croce
In realtà, il problema della morte di Gesù si pone per il fatto che
egli è il Figlio di Dio fatto uomo che non è soggetto alla morte, è il Messia
davidico destinato a regnare sui popoli, è l'Innocente e il Giusto nel quale
non c'è peccato, è il Taumaturgo dinanzi al quale neppure la morte resiste.
Ora, se si comprende che cos'è la morte e che cosa può giustificarla ‑ il
peccato, la colpa, il male ‑ ci si rende subito conto che Gesù, in quanto
Figlio di Dio, e perciò padrone e autore della vita, e in quanto Innocente, e
perciò senza peccato, non doveva morire. Perché, dunque, è morto, anzi, ha
«dovuto morire»?
Non è tutto. Infatti se per qualche motivo ciò fosse dovuto avvenire,
la morte di Gesù non sarebbe dovuta essere quella che è stata. La morte è
sempre una tragedia. Ma c'è la morte gloriosa ed eroica, come quella di chi
muore per una grande causa, compiendo un gesto eroico e sacrificando
coraggiosamente la vita; c'è anche la morte serena, affrontata con coraggio,
come quella di Socrate. Il grande filosofo ateniese, condannato a bere la
cicuta, muore conversando con i suoi discepoli, confortandoli e ricordando loro
di sacrificare un gallo a Esculapio per averlo liberato dalla «malattia della
vita». Invece la morte di Gesù non ha nulla di glorioso e di eroico, poiché
egli muore crocifisso come uno schiavo, tra due ladroni, irriso dagli
avversari, abbandonato dai discepoli e, quasi a segnare il fallimento della sua
opera, muore nell'angoscia e lanciando «un alto grido». Non è dunque né la
morte di un eroe, né quella di un saggio. È una morte misera, come quella di
uno schiavo o di un malfattore. Perché, dunque, la «morte» di Gesù? Perché
«quella» morte?
Siamo di fronte allo «scandalo della croce». Bisogna sentirlo in tutta
la gravità, perché la morte di Gesù sembra mettere sotto accusa la santità e la
giustizia di Dio ed è uno scoglio umanamente insuperabile per la fede in Gesù
Cristo. Infatti, se Dio è santo e giusto, come ha potuto permettere che Gesù
cadesse nelle mani dei suoi nemici e fosse messo a morte, nonostante che egli
si fosse rivolto a Lui nella sua angoscia? Se Gesù è il Figlio di Dio, come ha
potuto morire, e morire di una morte così obbrobriosa? Come si può
ragionevolmente credere in un Dio crocifisso?
3. Una morte per amore
È possibile superare lo scandalo che rappresenta per la ragione umana
la morte di Gesù a una sola condizione: che si creda che essa è opera d'amore.
Soltanto l'amore infatti può dare senso e nobiltà a un fatto così assurdo come
la morte, poiché, voluta e accettata per amore, essa diviene dono della vita.
Ora, questo è l'insegnamento della fede cristiana: la morte di Gesù è un gesto
d'amore. «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito,
perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).
Questo amore di Dio per gli uomini consiste nel fatto che «è lui che ha amato
noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati»
(1 Gv 4,10).
La morte di Cristo fa comprendere, da una parte,
la grandezza dell'amore che Dio, per pura misericordia e nonostante la nostra
indegnità, ha avuto per l'umanità peccatrice, tanto che san Paolo afferma che,
donandoci il suo Figlio, ci ha donato tutto e non potrebbe donarci di più;
dall'altra, fa misurare la gravità del peccato, che soltanto alla luce della
morte di Cristo si svela come mysterium iniquitatis: infatti è stato
necessario che Cristo morisse perché esso fosse abolito e vinto. In realtà c'è
nel peccato una sorta d'infinità di male che solo l'infinità dell'amore di
Cristo per il Padre ha potuto esaurire e distruggere.
A questo amore del Padre per tutti gli uomini ha risposto l'amore di
Gesù. Egli, infatti, ha voluto morire «per noi», «empi» e «peccatori».
Cristo, dunque, è morto per amore. Per amore del Padre, anzitutto. La
morte di Gesù è stata voluta dal Padre, nel senso che il Padre ha voluto che il
disegno di amore e di salvezza da lui concepito per l'umanità peccatrice si
compisse per mezzo della morte del suo Figlio fatto uomo. Per questo
«bisognava» che Cristo patisse e morisse. Non si trattava, certo, di una
fatalità o di un destino. Era questa la volontà del Padre.
Gesù lo sapeva e, pur sentendo «fino a morirne» la tristezza e
l'angoscia della sofferenza e della morte, ha accettato tale volontà: «Non ciò
che io voglio, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36). In tal modo, si è fatto
«obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,8). Quindi, alla base
di quest'accettazione c'è l'amore per il Padre, che gli ha «comandato» di
offrire la sua vita per gli uomini.
L'amore per il Padre ha spinto Gesù a dargli
l'onore e l'amore che gli uomini gli avevano tolto e negato con i loro peccati.
Perciò alla disobbedienza dell'uomo Gesù ha opposto l'obbedienza al Padre,
spinta fino ad accettare la morte e la morte di croce; all'orgoglio dell'uomo,
che ha preteso di essere come Dio, ha opposto la sua kenosis il suo
spogliamento, che ha trovato la sua forma più dolorosa e umiliante nella
crocifissione e nella morte.
Certamente sono stati gli uomini che nella loro
malvagità hanno inflitto a Gesù una morte così umiliante, togliendogli non solo
la vita, ma anche l'onore facendolo apparire come un malfattore, un
bestemmiatore e un brigante. Tuttavia, dietro la volontà malvagia degli uomini
c'è la volontà di Cristo che - liberamente - va incontro a una simile morte,
dandole il significato di un gesto di amore e di obbedienza al Padre.
In secondo luogo, Gesù è morto per amore degli uomini. Un amore tanto
più grande, quanto più indegni di esso erano gli uomini. «A stento ‑
scrive san Paolo ‑ si trova chi sia disposto a morire per un giusto;
forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma
[...] mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,7‑8).
Così, Cristo è morto per salvare gli uomini: per ottenere ad essi il perdono
dei peccati e renderli partecipi della vita divina, figli adottivi di Dio e
suoi eredi. La sua è stata «una morte per la salvezza».
È stato Gesù stesso a porre la sua morte in rapporto con la salvezza
degli uomini, affermando che «il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per
essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
Gesù, dunque, «è venuto» nel mondo per morire «in riscatto» per tutti gli
uomini. Egli, cioè, ha visto nella sua morte il prezzo da pagare per il
«riscatto» dell'umanità.
L'amore per gli uomini ha spinto Gesù a prendere
su di sé i loro peccati, a sostituirsi ad essi e quindi a subire nella sua
persona le conseguenze che il peccato si trascina dietro. In realtà, il peccato
è rovina e morte: c'è in esso un potere di autodistruzione, per cui si castiga
da sé dandosi e dando la morte. Così, il peccato che Gesù aveva preso su di sé,
per mano dei peccatori a cui era stato «consegnato», gli ha dato la morte.
Gesù ha preso così su di sé i peccati del mondo
in tutta la loro gravità e malizia, in tutto il loro terribile peso. Ha dovuto
perciò scendere nell'abisso del male, sperimentare nella sua carne e nel suo
spirito il tradimento e la paura dei suoi, la violenza omicida dell'odio e
della menzogna, l'indurimento del cuore umano che si acceca volontariamente
dinanzi alla luce e sprofonda nelle tenebre della negazione e del rifiuto di
Dio. Per questo, nell'orto degli ulivi, egli ha sperimentato un'angoscia
mortale. Per questo, anche, l'invocazione rivolta al Padre: «Dio mio, Dio mio,
perché mi hai abbandonato?» non è un grido di disperazione, perché la fiducia
di Gesù nel Padre, nelle cui mani consegna il suo spirito, non è venuta mai
meno; ma è il grido di un'angoscia senza limiti, come se, per liberare gli
uomini dalla dannazione eterna, Gesù avesse voluto sperimentare qualcosa dell'Inferno,
cioè l'abbandono di Dio, che costituisce il tormento più terribile per i
dannati.
4. Il grande mistero della
croce
Ecco, dunque, perché è «morto» Gesù e perché è
morto «in quel modo». Siamo di fronte a un grande mistero che si può
comprendere in pieno - nella fede - solo alla luce della Risurrezione. Il
Venerdì Santo senza la Domenica di Pasqua non avrebbe senso.
Tuttavia la croce di Cristo, più e prima che un
mistero da scrutare, è un mistero da adorare. E quanto hanno fatto le
generazioni cristiane, in particolare i poveri, i semplici e i piccoli che, pur
non conoscendo la teologia, nella croce di Cristo hanno letto l'amore di Dio
per gli uomini, la gravità del peccato e la grandezza del perdono. Perciò hanno
fatto della croce - strumento di supplizio e di vergogna - il segno del
cristiano e, più ancora, il segno della salvezza redentrice che l'amore di Dio
ha operato in Cristo per tutti gli uomini.
11. La risurrezione di Gesù
1. Il fatto: Gesù «è veramente risorto»
Gesù morì sulla croce verso le tre del pomeriggio del venerdì 14 di
Nisan, vigilia della Pasqua dell'anno 30 (7 aprile).
Il cadavere di Gesù avrebbe dovuto essere tolto dalla croce e gettato
nella fossa comune. Invece Giuseppe di Arimatea ‑ un personaggio
ragguardevole, membro del Sinedrio, che era discepolo di Gesù, ma di nascosto ‑
si presentò a Pilato e gli chiese di poterlo seppellire. Pilato, dopo essersi
informato e aver saputo dal centurione con sua meraviglia che Gesù era già
morto, glielo concesse. Insieme con Nicodemo, anch'egli discepolo di Gesù,
Giuseppe calò il cadavere dalla croce, lo avvolse in bende, dopo averlo
spalmato di oli aromatici, e lo depose in un sepolcro nuovo, scavato nella
roccia, che si trovava in un giardino vicino al luogo della crocifissione.
Tutto fu fatto in gran fretta, perché col tramonto iniziava il giorno di
Pasqua, nel quale era proibito prendersi cura dei cadaveri. L'entrata del
sepolcro venne chiusa con una grossa pietra.
Alcune donne, che avevano seguito Gesù fin sul Calvario senza poter far
nulla per lui, tennero bene a mente il luogo del sepolcro, poiché avevano
intenzione di tornare il giorno dopo il sabato per rendere al cadavere di Gesù
quegli onori che non era stato possibile rendergli al momento della sepoltura,
a motivo del poco tempo disponibile. E difatti, il giorno dopo il sabato, di
prima mattina tornarono dov'era il sepolcro di Gesù, ma lo trovarono vuoto. Che
cosa era avvenuto? La pietra posta all'entrata era stata ribaltata e il
cadavere di Gesù era scomparso, ma le bende che lo avvolgevano e il sudario,
cioè il panno che gli ricopriva il capo, erano al loro posto. E allora? Alle
donne impaurite per l'accaduto, all'interno del sepolcro un misterioso giovane
disse: «Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui» (M
16,6).
2. La risurrezione di Gesù, avvenimento
storico e verità di Dio
«Gesù Nazareno, il crocifisso, è risorto». Questa piccola frase
contiene l'annunzio del fatto più incredibile della storia umana: la
risurrezione di Gesù di Nazaret, la sua vittoria sulla morte, in virtù della
quale Gesù oggi è «vivente». Fatto incredibile, perché se c'è una cosa di cui
siamo assolutamente sicuri è che dalla morte non si ritorna alla vita, salvo un
miracolo ‑ evento assolutamente eccezionale ‑ da parte di Dio. E
tuttavia, per quanto incredibile, il fatto della risurrezione è affermato a
proposito di Gesù: proprio su di esso da 20 secoli poggia il cristianesimo, al
punto che, se Cristo non è risorto, tutta la fede cristiana crolla. Dobbiamo
allora chiederci: quale fondamento ha il fatto della risurrezione da morte di
Gesù dì Nazaret? Ci sono argomenti seri ‑ e quali ‑ per affermare,
come fa la fede cristiana, che Gesù è veramente risorto?
Innanzi tutto si deve fare una distinzione importante tra la
risurrezione come avvenimento storico e la risurrezione come verità di fede.
Come avvenimento storico, la risurrezione di Gesù dev'essere dimostrata con i
metodi e gli strumenti con i quali si provano gli altri avvenimenti storici e
va accettata nella misura della validità delle sue prove. Come verità di fede,
la risurrezione di Gesù è creduta in base alla testimonianza dei suoi
discepoli, i quali dopo la sua morte lo hanno visto di nuovo vivo, hanno
parlato e mangiato con lui: testimonianza esteriore, accompagnata e sostenuta dalla
testimonianza interiore di Dio che invita l'uomo a credere in Cristo risorto.
3. La fede nella risurrezione
L'unica testimonianza storica che abbiamo della risurrezione di Cristo
è quella del Nuovo Testamento (NT): tutti i libri neotestamentari ne parlano, e
non come uno dei tanti fatti riguardanti Gesù, ma come del fatto centrale e
costitutivo della fede cristiana, come del cuore dell'esperienza cristiana,
perciò con entusiasmo e con gioia profonda. Alcuni testi sono più recenti ed
elaborati, ma altri sono assai antichi e primitivi. La testimonianza più antica
che abbiamo della risurrezione è contenuta nella Prima Lettera di san Paolo ai
Corinzi:
«Vi rendo noto, fratelli, il
Vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi,
e dal quale anche ricevete la salvezza, se lo mantenete in quella forma in cui
ve l'ho annunziato. Altrimenti, avreste creduto invano! Vi ho trasmesso dunque,
anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri
peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno
secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito
apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di
essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi
a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. lo
infatti sono l'infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere
chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio
però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho
faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me.
Pertanto, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto» (1 Cor 15,1‑11).
Paolo riporta una notizia ‑ quella della risurrezione di Gesù ‑
che egli ha appreso in una data che dista pochi anni dalla morte di Gesù, e in
cui il suo ricordo è ancora vivissimo.
Ora, che cosa ha «ricevuto» san Paolo dalla comunità cristiana
primitiva? Un brevissimo riassunto della fede cristiana in quattro punti:
1.
Cristo è morto per i nostri peccati secondo le Scritture
2.
Cristo fu sepolto
3.
Cristo è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture
4.
Cristo è apparso a Cefa (=Pietro) e quindi ai Dodici.
3.1. «Cristo è morto per i nostri peccati secondo le Scritture»
San Paolo aggiunge due affermazioni importanti circa la morte e la
passione di Gesù. Egli dice anzitutto che Cristo è morto «per i nostri
peccati». Questa è un'affermazione di fede, che sottolinea il valore salvifico
della morte di Gesù, in quanto è in forza della morte che Cristo ha sofferto
«per noi», cioè in nostro favore, che noi otteniamo il perdono di Dio e la
riconciliazione con Lui. Tuttavia quest'affermazione di fede poggia sulla Sacra
Scrittura, è «secondo le Scritture», sia in senso stretto, in quanto Gesù ha
realizzato la profezia d'Isaia del «Servo di JHWH», sul quale «il Signore fece
ricadere [...] l'iniquità di noi tutti», sia in senso più ampio, in quanto
tutta la Scrittura, per il suo carattere profetico, annunzia che in Cristo
morto e risorto si realizza il disegno di salvezza che Dio ha concepito per
tutti gli uomini.
In particolare, l'affermazione «è morto per i nostri peccati» poggia su
una parola di Gesù: «Il Figlio dell'uomo [...] è venuto [...] per [...] dare la
propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45). Gesù afferma qui, in modo
esplicito, il valore di liberazione dal peccato che ha la sua morte.
3.2. Gesù «fu sepolto»
Il secondo punto del primitivo «Credo» cristiano è: Gesù «fu sepolto».
Questa espressione indica la definitività della morte di Gesù. La sua non è
stata una morte apparente, da cui avrebbe potuto riprendersi. Non solo egli,
mentre pendeva già morto dalla croce, ha ricevuto da un soldato un colpo di
lancia che gli ha trafitto il cuore, ma è stato calato dalla croce e, dopo che
è stato legato con bende e il suo corpo avvolto nel sudario, è stato deposto in
un sepolcro: un sepolcro «nuovo», perché il cadavere di un giustiziato
altrimenti avrebbe contaminato quelli degli altri defunti.
La sepoltura del cadavere esprime la definitività della morte, nel
senso che con essa si perde anche l'ultimo legame – il cadavere ‑ che
unisce il defunto al mondo dei viventi. Con la sepoltura l'uomo non c'è più,
neppure in quella «cosa» fredda e inanimata che non è più il suo «corpo», ma
che tuttavia lo ricorda e lo raffigura: egli è veramente e definitivamente
morto. Quest'affermazione di san Paolo ‑ Gesù fu sepolto ‑ è
storicamente certa: essa infatti è affermata da tutti e quattro i Vangeli con
abbondanza di particolari assai precisi e discordanti solo in qualche punto di
scarsa importanza.
3.3. «Cristo è risuscitato il terzo giorno
secondo le Scritture»
Il terzo punto del
primissimo «Credo» cristiano: «Cristo è risuscitato il terzo giorno secondo le
Scritture».
«Risurrezione» significa risveglio dal sonno della morte e ritorno alla
vita. Perciò, affermando che Gesù è risorto, si vuol dire che, dopo essere
realmente morto, il suo corpo rimasto nel sepolcro è stato rivivificato per
l'azione onnipotente di Dio: in forza di tale azione assolutamente unica di
Dio, Gesù ha vinto la morte ed è tornato alla vita. Ma di quale vita si tratta?
Non della vita precedente alla sua morte, e dunque della vita di prima. Gesù
non è risorto come Lazzaro, che egli richiamò alla vita, o come il figlio della
vedova di Nain e la figlioletta del capo della sinagoga. Queste persone infatti
furono risuscitate, cioè riportate alla vita di prima.
Gesù invece, con la risurrezione, è entrato in una condizione di vita
assolutamente unica: egli è entrato nella pienezza della vita divina, e il suo
corpo è sì reale, è il corpo di Gesù di Nazaret che ha subito la crocifissione,
ma è un «corpo di gloria», un corpo «spirituale», sottratto alle condizioni
terrestri di spazio e di tempo, di sofferenza e di morte, cosicché Gesù non può
più morire e la morte non ha più potere su di lui.
4. La risurrezione di Gesù è un fatto
storico?
Qui si pone il problema capitale: la Chiesa primitiva ha affermato ‑
e lo afferma ancora la Chiesa di oggi ‑ che Gesù è risuscitato da morte
nel senso ora spiegato. Ma in base a quali elementi ha fatto tale affermazione?
In base a un atto di fede oppure in base a fatti storici, a esperienze
storicamente documentabili? In altre parole, la risurrezione di Gesù è un fatto
storico?
La storicità qui non riguarda il «modo» della risurrezione, che resta
assolutamente misterioso e inattingibile, ma il «fatto», l'avvenimento storico
in se stesso. Precisiamo ancora che, parlando di «fatto» storico, intendiamo
dire che Gesù è risorto obiettivamente, nella
realtà, e non solo nella coscienza di coloro che hanno creduto nella sua
risurrezione; che qualcosa di obiettivo e di reale è avvenuto nella persona di
Gesù, per cui dalla condizione di morto sulla croce e deposto nel sepolcro è
passato alla condizione di Vivente e di Signore della storia, «esaltato alla
destra del Padre».
Per rispondere alla domanda dobbiamo distinguere tra ciò che è storico
e direttamente verificato, e ciò che è storico anche se non direttamente verificato.
È storico e direttamente verificato ciò che è collocabile nell'ambito
dell'esperienza e della verificabilità umana, ciò che è attingibile e
conoscibile in se stesso mediante i metodi propri della ricerca storica. È
invece storico, anche se non direttamente verificato, ciò che, pur non
attingibile in se stesso direttamente, lo è però solo indirettamente, mediante
la riflessione su fatti storicamente accaduti che sono in relazione con esso.
Ora, la risurrezione di Gesù è un fatto storico, anche se non direttamente
verificato. E ciò per il fatto che essa, anche se è avvenuta in questo
mondo, non è un avvenimento di questo
mondo, perché Gesù non è tornato alla vita di prima; la sua risurrezione non si
è realizzata nelle coordinate di spazio e di tempo proprie di un avvenimento
«storico», ma è un avvenimento «escatologico», definitivo, perché è l'entrata
di Gesù nella vita eterna e definitiva di Dio. Perciò, non può essere posto
semplicemente sullo stesso livello di tutti gli altri avvenimenti storici direttamente
verificati, che, appunto perché tali, sono di questo mondo e dunque non
«escatologici», definitivi, bensì passeggeri. Ma dire che la risurrezione di
Gesù è un fatto storico non direttamente verificato non significa che non sia
un fatto «oggettivo» e «reale». Infatti Gesù è realmente risorto, anche se,
mediante i metodi propri della ricerca storica, non possiamo attingere il fatto
reale della risurrezione direttamente in se stesso: in questo senso, la
risurrezione si pone al di sopra delle categorie della storia umana: è
«metastorica» e «transstorica».
Si deve quindi affermare che la risurrezione è un fatto storico, anche
se non direttamente verificato. Infatti, riflettendo sui fatti storici del
sepolcro trovato vuoto, delle apparizioni di Gesù ai suoi discepoli, del
mutamento avvenuto in questi rispetto a ciò che erano stati durante la vita di
Gesù e, soprattutto, durante e dopo la sua passione e la sua morte, della
nascita e dell'espansione della Chiesa primitiva, noi possiamo avere la certezza
morale del fatto storico della
risurrezione. Cioè questa ha lasciato nella nostra storia «tracce», «segni»,
riflettendo sui quali noi possiamo avere la certezza morale, e quindi storica,
che Gesù è realmente risorto.
5. Le «tracce» della risurrezione
Esaminare i «segni» e le «tracce» della risurrezione significa
esaminare i racconti che i Vangeli ci hanno lasciato circa la risurrezione di
Gesù.
5.1. Il sepolcro vuoto
La prima «traccia» della risurrezione è la scoperta del sepolcro vuoto.
La sua storicità non può essere negata per i seguenti motivi:
1.
stando alla narrazione della sepoltura di Gesù, la sua tomba era
conosciuta e corrispondeva all'uso di quel tempo che le donne visitassero la
tomba di un defunto: non si può dunque negare che alcune donne siano andate al
sepolcro di Gesù che esse conoscevano bene;
2.
la scoperta del sepolcro vuoto da parte delle donne non può essere
fatta risalire a una «trovata» apologetica della Chiesa primitiva per avere una
testimonianza della risurrezione di Gesù, perché le donne a quel tempo non
erano ritenute testimoni attendibili e perciò la loro testimonianza sarebbe
stata inutile;
3.
i nemici di Gesù non negarono il fatto che la sua tomba fosse vuota, ma
lo giustificarono sostenendo che i suoi discepoli erano venuti di notte e
avevano trafugato il cadavere.
Il ritrovamento della tomba vuota è dunque un fatto storico ben
fondato: non ci sono motivi seri per negarlo. Ma qual è il suo significato?
Esso non è una prova storica della risurrezione di Gesù, perché si potrebbe
sempre pensare, sia pure a torto, che la scomparsa del cadavere di Gesù fosse
dovuta ad altre cause; è tuttavia una «traccia», un «segno» che, pur ambiguo in
se stesso, «orienta» verso la risurrezione. Esso dice, infatti, che qualcosa di
misterioso è avvenuto a Gesù, il cui cadavere è sparito senza lasciare nessuna
traccia se non quella delle bende e del sudario in cui era avvolto. Che cosa è
avvenuto? Il sepolcro vuoto non lo dice, ma induce a pensare che Dio abbia
risuscitato Gesù dalla morte, riportandolo alla vita non solo nello spirito, ma
anche nel corpo; induce anche a pensare che il Risorto sia colui che Pilato ha
fatto crocifiggere e che perciò Gesù risorto sia lo stesso Gesù che morì sulla
croce: ora che è risorto, egli possiede lo stesso corpo, anche se si tratta di
un corpo «spirituale», rivestito della «gloria» di Dio e investito dalla
«potenza divinizzatrice» dello Spirito Santo. Così, la tomba vuota ci mette
sulla via della risurrezione, è come un «segnale stradale» che indica un
cammino.
5.2. Le «apparizioni» di Gesù
Ma il «segno» storico più importante, più chiaro e più evidente che la
risurrezione di Gesù ha lasciato nella storia è costituito dalle sue
«apparizioni». Se infatti nessuno ha visto risorgere
Gesù, i suoi discepoli lo hanno visto risorto.
In realtà, Gesù è apparso ai suoi discepoli molte volte, in circostanze
diverse e in luoghi diversi.
Delle apparizioni di Gesù parla anzitutto san Paolo nel testo sopra
citato della Prima Lettera ai Corinzi (cap. 15). Ne parlano i Vangeli, i quali
narrano che Gesù si è fatto vedere molte volte dai suoi discepoli. Ci sono
molte differenze tra i racconti; ma tutti convengono nel fatto che Gesù si è
fatto vedere dai suoi discepoli, ha parlato e perfino mangiato con loro per
convincerli della realtà della sua risurrezione. Ecco un racconto estremamente
«realista»:
«Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona apparve in mezzo
a loro e disse: "Pace a voi". Stupiti e spaventati [i discepoli]
credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse: "Perché siete turbati, e
perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi:
sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come
vedete che io ho". Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma
poiché per la grande gioia ancora non credevano ed erano stupefatti, disse:
"Avete qui qualche cosa da mangiare?". Gli offrirono una porzione di
pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro» (Lc 24,36‑43).
Per quanto i
racconti delle apparizioni siano diversi, in tutti si possono rilevare due
elementi essenziali e costanti.
5.3. La «trasformazione» degli Apostoli
Il terzo «segno»
che la risurrezione di Gesù ha lasciato nella storia è la radicale
trasformazione avvenuta nei suoi discepoli immediatamente dopo la risurrezione.
Durante la vita di Gesù essi appaiono meschini e interessati; durante la
passione hanno paura di condividere il destino di Gesù e lo abbandonano,
fuggendo; Pietro, che lo segue fin nel palazzo di Caifa, per ben tre volte nega
di conoscerlo; nessuno di essi è presente sul Calvario, a parte il «discepolo
che Gesù amava»; nei giorni che seguono la morte di Gesù, restano chiusi in una
casa «per timore dei giudei», tanto che a deporre Gesù dalla croce e a
seppellirlo non sono i Dodici, ma Giuseppe di Arimatea e Nicodemo, due
discepoli di Gesù ma non conosciuti come tali. Immediatamente dopo la
risurrezione, avviene nei discepoli un inspiegabile mutamento. Anzitutto,
contro tutto il loro passato, accettano l'idea, per loro assolutamente
inconcepibile e anzi assurda, di un Messia crocifisso; poi accettano l'idea,
che per ebrei rigidamente monoteisti era una bestemmia, che Gesù è il
«Signore», innalzato alla destra di Dio, e il Giudice dei vivi e dei morti; e
ancora, si mettono a predicare Gesù come colui che i giudei hanno crocifisso,
ma che Dio ha risuscitato da morte e ha costituto Signore e Salvatore degli
uomini, dandogli ogni potere in cielo e in Terra, e lo fanno con estremo
coraggio, affrontando i capi del popolo d'Israele, subendo torture e prigionie
e avendo l'ardire di uscire dalla Palestina per portare a tutto il mondo il
Vangelo di Gesù.
Come si spiega questo mutamento dei discepoli di Gesù, che ha portato
alla nascita della Chiesa e alla rapida diffusione del cristianesimo in tutto
il mondo allora conosciuto? L'unica spiegazione possibile è che essi hanno
fatto l'esperienza sconvolgente e trasformante della risurrezione di Gesù. Quel
Gesù che avevano visto crocifisso, lo hanno visto risorto, e questo fatto ha
trasformato la loro esistenza e ha dato loro il coraggio di annunziare Cristo
risorto al mondo intero e di farsi garanti e «testimoni» della sua
risurrezione.
Appendice
Gesù di
Nazareth
vero uomo e…
vero Dio!
Gesù
non è una figura neutra, nel senso che il suo interesse non è solo storico, non
si esaurisce cioè nella semplice conoscenza. Indubbiamente la persona di Gesù
ha una grande rilevanza storica: è talmente straordinaria, sia in se stessa,
sia per il movimento religioso - il cristianesimo - a cui ha dato origine, che
chiunque abbia un interesse culturale, anche modesto, a quanto è avvenuto nel
passato e avviene oggi attorno a lui, non può ignorarla.
Non
è indispensabile essere storici di mestiere e neppure cristiani e religiosi:
basta essere desiderosi di conoscere le grandi figure storiche che hanno inciso
sul destino dell'umanità. E Gesù di Nazaret
è certamente il personaggio che più di ogni altro ha influito sul corso
della storia umana in campo religioso, morale, culturale, sociale e politico.
Tuttavia
la figura di Gesù non ha solo un interesse storico e culturale; ha anche - e
soprattutto - un interesse “vitale”. Essa fa sorgere cioè una domanda, un
interrogativo posto a chiunque le si accosti. Gesù, infatti, da 20 secoli
“interpella” gli uomini, li “provoca” a una risposta. Già la sua persona, a
motivo di quanto ha detto e compiuto nella sua vicenda terrena e a causa della
sua morte e della sua risurrezione, pone per se stessa l'interrogativo: “Chi è
Gesù di Nazaret?”.
E
se da parte di un non credente la
persona di Gesù stimola a prendere in seria considerazione la fede cristiana,
dal punto di vista del cristiano
invece la sua statura morale e la sua santità sono tanto eccezionali da
costituire un motivo se non il motivo fondamentale della possibilità e
ammissibilità del suo credere. In altre
parole l’eccezionalità della figura di Gesù di Nazaret garantisce ai credenti
che la loro fede è ragionevole, non è un «moto cieco dello spirito», un
affidarsi a una rivelazione incomprensibile e oscura.
C'è
nella persona di Gesù, nel suo messaggio, nelle opere che egli compie, nel suo
tragico destino di morte, in quello che egli ha rappresentato per la storia
umana, qualcosa che supera l'umano e fa sospettare la presenza di un mistero.
Indubbiamente
Gesù è stato un grande personaggio della storia umana, ma non è stato l'unico:
altri personaggi significativi si collocano accanto a lui. Restando nel campo
religioso e morale che è il suo, accanto a Gesù si collocano fondatori di
religioni come Buddha, Zoroastro, Maometto, e maestri di morale come Confucio,
Lao-Tse, Socrate. E tuttavia, a confronto di questi grandi personaggi, Gesù
presenta molti caratteri che ne fanno un personaggio a parte, diverso da tutti.
In realtà, l'uno o l'altro dei tratti caratteristici di Gesù si trova anche nei
personaggi ricordati; ma è l'insieme dei caratteri di Gesù che lo rendono diverso
dagli altri e che pongono la domanda circa la sua identità.
Infatti
quello che anzitutto impressiona in Gesù è la sua ricchezza umana.
Egli
ha una sensibilità fine e squisita: sente il fascino della bellezza che scopre
nelle cose più ordinarie. Così, per lui il giglio del campo è più
splendidamente vestito di Salomone.
Ha
una capacità di osservazione delle realtà umane, che, trasfusa nelle parabole,
ne fa dei capolavori letterari di grande profondità psicologica.
Ha
un'intelligenza viva e intuitiva, per cui coglie subito il nucleo delle
questioni e vede con folgoranti intuizioni quello che gli altri conquistano a
fatica e a poco a poco. Sembra infatti che alla sua intelligenza nulla opponga
resistenza: non c'è in lui ombra di sforzo, ma idee e parole fluiscono da lui
con naturalezza e immediatezza, anche quando dice cose mai udite prima di lui.
In particolare, ha la capacità di leggere «dentro» la realtà e, soprattutto,
«dentro» il cuore umano.
Discute
e polemizza con i dottori e i maestri del suo tempo circa delicati problemi
d'interpretazione della Legge ebraica (Torà);
eppure non è stato alla scuola di un rabbì
ma ha frequentato soltanto la scuola annessa alla sinagoga di Nazaret e
ascoltato la lettura e il commento che ogni sabato si facevano della Sacra
Scrittura nella stessa sinagoga. Tanto che i suoi compaesani, che lo conoscono
come «il figlio del carpentiere» Giuseppe, si chiedono quando lo sentono
predicare: «Da dove mai viene a costui questa sapienza?» (Mt 13,54).
Tuttavia,
più che l'intelligenza colpisce in Gesù la bontà in tutte le sue forme.
Egli
partecipa intensamente alla sofferenza umana: così si commuove dinanzi al
pianto della vedova di Nain (Lc 7,13)
e scoppia a piangere dinanzi al sepolcro dell'amico Lazzaro (Gv 11,35). Egli non può vedere un dolore
senza sentirsi mosso a porgere aiuto. Così, la maggior parte dei miracoli che
si narrano di lui sono compiuti a favore di malati, di persone affamate o in
pericolo, di persone assoggettate al potere distruttore di Satana.
Ma
la sua compassione non si limita a guarire le forme esteriori del male: dietro
la sofferenza fisica e psichica, Gesù vede la presenza di una forza malvagia
che tiene schiavo l'uomo. Perciò, nel momento stesso in cui guarisce le malattie,
libera le persone dal potere di Satana. Per questo, l'opera di guarigione dalle
malattie che egli compie va di pari passo con la liberazione degli ossessi. In
tal modo egli dà l'impressione di portare avanti una misteriosa lotta contro il
Male, che lascia sconcertati i suoi avversari, i quali lo accusano di essere al
servizio di Satana e di liberare gli ossessi col potere che questi gli
conferisce, ma che Gesù interpreta come il segno che il regno di Dio è venuto
nella storia umana (cfr Mt 12,24-28).
Ma
la bontà di Gesù risplende soprattutto nel suo modo di trattare i poveri, i
bambini, la gente umile, i «peccatori», cioè le persone che non osservano tutte
le prescrizioni della Torà, scritta e
orale. Soprattutto per queste persone egli ha pietà e misericordia e le tratta
con dolcezza, anche a costo di scandalizzare coloro che si ritengono giusti e
osservanti della Legge e perciò disprezzano i peccatori. Tuttavia, non è solo
un sentimento di bontà che spinge Gesù a trattare con dolcezza e misericordia
queste persone. Egli sa che proprio i poveri, i piccoli, gli umili, i peccatori
sono i prediletti di Dio e perciò il suo amore per tali persone è un riflesso
dell'amore che Dio ha per esse. Egli sa; ma come può saperlo? Non è un
arrogarsi, da parte sua, di conoscere il mistero di Dio che nessuna creatura
umana può penetrare?
E
a questo punto che Gesù si distacca da tutti i grandi personaggi sopra
ricordati. Egli non solo afferma di conoscere il mistero di Dio, la sua
volontà, le sue predilezioni, i suoi disegni, ma è con Dio in un rapporto di
amore e di vicinanza tanto profondo da chiamare Dio col termine affettuoso di Abba (Padre mio). Egli non è, come,
tutti gli altri uomini, anche i più grandi, «servo» di Dio, ma «figlio»:
perciò, si attribuisce il potere di perfezionare, portandola a compimento, la
Legge che Dio ha dato a Mosè, sia col dichiarare non più lecite cose permesse
dalla Torà, come il divorzio, sia con
l'aggiungere precetti nuovi - come l'amore per i nemici e la proibizione della
vendetta col perdono delle offese -, che rendono l'uomo imitatore e figlio di
Dio.
Egli
sente fortemente il male del peccato che grava su tutti gli uomini, portandoli
alla rovina: perciò afferma di essere venuto a chiamare tutti alla conversione,
dichiarando che, dinanzi a Dio, tutti sono peccatori e, se non si convertono,
periranno. Egli solo non ha bisogno di conversione, perché è senza peccato. E
infatti, mentre insegna ai suoi discepoli a chiedere a Dio «la remissione dei
propri debiti», cioè il perdono dei propri peccati, egli non chiede mai
perdono. Eppure ha un senso profondo della santità di Dio e dell'abisso che il
peccato scava tra Dio e l'uomo!
In
realtà, tutto in lui è sconcertante.
_
È sconcertante il suo insegnamento, perché egli fonda quello che
insegna sulla sua autorità: «Io vi dico».
_
È sconcertante il fatto che egli lega alla fede in lui e all'amore
preferenziale per lui il destino eterno degli uomini.
_
È sconcertante il suo agire, a motivo dei miracoli che egli compie con
la sola forza di una sua parola.
_
È sconcertante il fatto che egli perdona i peccati, attribuendosi una
prerogativa che è di Dio soltanto.
_
Soprattutto è sconcertante il fatto che dopo che i suoi nemici con
false accuse gli hanno inflitto l'orrendo e ignominioso supplizio della
crocifissione, i suoi discepoli lo abbiano visto vivo, risorto dalla morte a un
nuovo e sovrumano genere di vita.
_
Ed è sconcertante il fatto che dal fallimento della croce abbia preso
le mosse un movimento religioso - il cristianesimo - che ha segnato in maniera
profonda due millenni di storia e che oggi ancora conserva una sorprendente
vitalità.
Quando
si riflette sul «fatto di Gesù» (cioè l'avvenimento storico costituito da Gesù
di Nazaret: quindi la sua figura, il suo messaggio, le sue opere, la sua morte,
la sua risurrezione, la sua presenza nella storia nei 20 secoli che sono
seguiti alla sua morte), la prima cosa che colpisce è la sua «unicità»: nella
storia umana non c'è stato - o almeno non si conosce - un «fatto» che sia anche
lontanamente simile o paragonabile al «fatto di Gesù», preso nel suo complesso.
Come
si è detto, singoli elementi possono trovarsi in altri grandi personaggi della
storia, ma in nessuno si trovano tutti insieme; soprattutto, in nessuno si
trovano quelli più caratteristici, quali
_
il suo rapporto intimo e filiale con Dio,
_
la sua “pretesa” di essere, in maniera del tutto particolare, il Figlio
di Dio e di rivelare in maniera assoluta la volontà di Dio sugli uomini nella
pienezza delle sue esigenze,
_
di essere egli stesso senza peccato,
_
di fare della sua persona, della sua parola, dei miracoli che egli
compie, della sua morte e della sua risurrezione il segno che il regno di Dio è
venuto tra gli uomini, sia pure non ancora nella sua pienezza:
_
di essere dunque il Messia promesso da Dio a Israele.
Quello
che meraviglia in lui è che avanza queste «pretese» con dolcezza e umiltà
profonda, rifuggendo da ogni ricerca di gloria personale, di successo e di
potere mondano: ma nello stesso tempo le avanza con coraggio, senza curarsi
dell'opposizione che incontra tra i suoi nemici, dell'abbandono dei suoi
seguaci, dei tremendi pericoli a cui va incontro: il rifiuto del suo popolo, la
condanna a morte come bestemmiatore, profanatore delle istituzioni più sacre
d'Israele - la Torá, il Sabato, il
Tempio - e come falso Messia. Egli è deciso a compiere la missione che Dio gli
ha assegnato fino alla morte. E infatti la sua vita si conclude con una morte
atroce.
Dinanzi
a una figura così sconcertante nella sua «unicità», la prima reazione che si
presenta allo spirito umano è quella di negarne la storicità: è possibile che
un certo Gesù di Nazaret sia esistito, ma non è possibile che le cose dette di
lui nei Vangeli siano vere: o quello che si racconta di lui è inventato di sana
pianta, oppure i suoi discepoli, presi da entusiasmo per lui, hanno ingrandito
certi fatti comuni di poco conto, gli hanno attribuito opere meravigliose e
miracolose, gli hanno fatto dire, a proposito della Torà, cose che un pio ebreo com'era Gesù non si sarebbe mai sognato
di dire, lo hanno fatto morire sulla croce per colpa del Sinedrio giudaico,
mentre potrebbe essere stato fatto crocifiggere da Pilato per chi sa quali
motivi politici, probabilmente per ribellione. Ma una simile reazione di fronte
al «fatto di Gesù» non sarebbe storicamente giustificata. Sarebbe infatti
storicamente disonesto, perché contrario all'evidenza storica, negare che Gesù
sia esistito. Basterebbe ricordare la testimonianza dello storico pagano Tacito che, scrivendo i suoi Annales nel 115-117 d.C., afferma che
«Cristo [...] era stato giustiziato dal procuratore Ponzio Pilato, sotto
Tiberio» (Annales XV, 44).
Quanto
al valore storico dei Vangeli, dopo gli infiniti studi compiuti su di essi da
tre secoli, si può affermare con sicurezza e certezza «morale» che i Vangeli,
pur non essendo libri di storia nel senso oggi inteso, ma fondamentalmente
libri di catechesi, poggiano su un fondamento storico estremamente solido,
cosicché la loro testimonianza può e dev'essere accettata. Indubbiamente gli
evangelisti - e la tradizione scritta e orale che è dietro di essi - hanno
ripensato la vita, la persona, le parole e le opere di Gesù alla luce che
proiettava su di essi la risurrezione; ma ciò è servito loro non a cambiare i
fatti e le opere di Gesù o a crearne altri di sana pianta, ma a vedere nella
vera luce quello che era avvenuto con Gesù, a svelarne il «Mistero». Del resto
è quanto avviene per ogni uomo che abbia una notevole profondità umana: è la
morte che rivela chi egli «veramente» è stato, cosicché soltanto dopo la sua
morte egli svela il suo mistero.
Dunque
la figura che di Gesù tratteggiano i Vangeli è la sua «vera» figura, e noi
possiamo essere certi di incontrare nei Vangeli quello che Gesù storicamente è
stato.
Se
si volesse negare questa evidenza, si incorrerebbe in una difficoltà
storicamente insolubile. La figura di Gesù quale appare dai Vangeli è talmente
singolare e unica, supera talmente ogni misura umana, è così straordinariamente
ricca e complessa che, se non è realmente esistita quale ce la dipingono i
Vangeli, soltanto un grandissimo genio, almeno pari al genio di Gesù, ha potuto
crearla. Ma chi è stato questo genio così straordinario? Non certo qualcuno dei
discepoli di Gesù, che i capi del popolo ebraico qualificano come persone
«senza istruzione e popolani» (At 4,13).
Neppure qualcuno della comunità primitiva cristiana, e tanto meno gli
evangelisti, persone di buona cultura, ma certamente non geniali. D'altra parte
è impensabile che un ebreo mettesse in bocca a Gesù affermazioni che sembravano
mettere in pericolo il monoteismo, così fortemente affermato dalla Sacra
Scrittura, e ponevano perlomeno in crisi le istituzioni più sacre
dell'ebraismo, quali erano la Legge, l'osservanza del Sabato e il Tempio.
Non
può quindi esserci alcun dubbio ragionevole che Gesù non sia stato storicamente
quale appare dai Vangeli e che sia invece una creazione della primitiva
comunità cristiana, e soprattutto che non sia stato Gesù a parlare e ad agire
come i Vangeli ci dicono che egli ha parlato e agito. Resterebbe infine un
enigma la sua morte sulla croce: se egli non si fosse proclamato Messia, perché
il Sinedrio lo avrebbe condannato a morte come bestemmiatore? E se non fosse
stato accusato dai capi ebraici di ribellione all'autorità romana, perché
Pilato lo avrebbe fatto crocifiggere, infliggendogli la pena che si soleva
irrogare ai ribelli?
Un’unica
conclusione ragionevole che si deve trarre è che Gesù è stato quale i Vangeli
ce lo descrivono: ha realmente detto e fatto quello che i Vangeli gli
attribuiscono.
Ma,
di fronte alla persona di Gesù, a quello che egli ha compiuto e, soprattutto, a
quanto egli ha detto di sé e del suo rapporto con Dio, è possibile un'altra
reazione: non potrebbe Gesù essere stato un megalomane oppure un allucinato, un
visionario, come ce ne sono sempre stati in campo religioso (che è il campo
preferito per manifestazioni anormali di natura psicotica)? L’obiezione è
seria, perché la storia delle religioni è piena di visionari, di persone
affette da megalomania religiosa, di persone che si spacciano per profeti, per
confidenti della divinità che comunica loro i suoi segreti con la missione di
divulgarli e di farli mettere in pratica sotto pena di tremendi castighi.
Gesù
dunque potrebbe essere stato un megalomane e un esaltato?
Non
c'è nei Vangeli alcun indizio, né diretto né indiretto, che possa far dubitare
della perfetta sanità mentale di Gesù (e, del resto, nessuno di coloro che
hanno scritto opere serie - e non fantastiche - su Gesù ha mai espresso dubbi
in proposito). Si hanno invece indizi indiretti che portano a concludere che
Gesù ha goduto di una perfetta sanità mentale. Anzitutto manca in lui ogni
segno di esaltazione religiosa. Nel vivere la sua religiosità egli è
estremamente riservato: ama, per esempio, pregare di notte, lontano dagli
sguardi di tutti. Non si notano in lui fenomeni mistici, come rapimenti,
estasi, visioni di Dio o di esseri soprannaturali. Soltanto due volte si parla
di «visioni» di Gesù: quando è battezzato da Giovanni nel Giordano (cfr Mt 3,16-17) e quando i discepoli tornano
dalla missione a cui li ha inviati (cfr Lc
10,18); ma più che di visioni esteriori, si tratta di esperienze interiori
che attengono, la prima, alla sua natura di Figlio di Dio, e la seconda, alla
sua missione di liberazione degli uomini dal potere di Satana.
Ma
ciò che meglio dimostra la sanità mentale di Gesù e l'assenza di forme di
megalomania è il suo realismo. Gesù infatti non è un sognatore: non si fa
illusioni né sul successo della sua predicazione, né sulle persone che gli sono
vicino, né soprattutto sul tragico destino di morte, a cui va incontro
consapevolmente e senza far nulla per sottrarvisi, pur sentendo una profonda angoscia,
che manifesta talvolta soltanto ai suoi discepoli più intimi.
Chi
dunque riflette, senza prevenzioni e senza pregiudizi, sul «fatto di Gesù», non
può non essere affascinato dalla grandezza unica della sua persona,
dall'elevatezza del suo insegnamento religioso e morale, dalla sua bontà verso
gli umili e dalla purezza e santità della sua vita; nello stesso tempo, non può
non interrogarsi sulla natura di Gesù e sul valore delle affermazioni che egli
ha fatto su Dio e sulla sua persona, sulla sua missione e sul fatto che il
destino eterno degli uomini è legato alla fede in lui, cioè all'accettazione o
al rifiuto della sua persona e del suo messaggio. Gesù infatti ha affermato di
essere il Messia e il Figlio di Dio, di essere il Rivelatore definitivo del
mistero di Dio, di portare nel mondo, nella sua persona e nelle sue opere
prodigiose, il regno di Dio, di essere il Salvatore degli uomini col dare la
sua vita in riscatto per essi.
Queste
affermazioni sono vere? Sono
affermazioni «credibili», tali cioè che una persona onesta e di buon senso
possa accettarle ragionevolmente, avendo motivi convincenti e razionalmente
validi per farlo?
La
nostra risposta è: sì.
Ci
sono ragioni valide per credere a quello che ha detto Gesù.
La
più importante e decisiva è Gesù stesso: la
grandezza unica della sua figura, per cui nessun altro grande
personaggio della storia religiosa può mettersi accanto a lui.
_
L'aver proclamato che il valore più alto della religione è l'amore di
Dio sopra ogni cosa e l'amore e il servizio del prossimo bisognoso, non
limitato al proprio popolo o alla propria nazione, ma esteso a tutti coloro che
sono nella sofferenza e nel bisogno;
_
l'aver proclamato che la salvezza eterna è legata anche all'amore dei
nemici e al perdono delle offese;
_
l'aver proclamato che le istituzioni religiose, come il sabato, sono a
servizio dell'uomo e non viceversa;
_
l'aver detto che Dio dev'essere adorato in spirito e verità;
_
l'aver affermato che il regno di Dio è dei poveri, dei piccoli, degli
umili e dei peccatori, e non dei potenti e dei sapienti;
_
l'aver insegnato che Dio è padre degli uomini e ha cura di loro e che
essi devono rivolgersi a lui chiamandolo «Padre»:
… sono tutte cose che mostrano che Gesù è il
fondatore della religione più alta e più pura dell'umanità e che è di una
elevatezza spirituale e religiosa che nessuno ha potuto uguagliare. Questa
grandezza e questa elevatezza spirituale e religiosa di Gesù depongono a favore
della verità di quanto egli dice su Dio e su se stesso.
C'è
poi la santità di Gesù che rende
credibile il suo messaggio.
Una
santità fatta di distacco dalle ricchezze e dal potere mondano, di dolcezza, di
bontà, di pazienza, di accoglienza dei poveri e degli umili, di vita interiore
profonda e di intensa preghiera, di dedizione a una vita apostolica logorante,
di purezza, di obbedienza alla volontà del Padre fino a fargli affrontare una
morte orrenda.
Com'è
possibile che un uomo così santo, così umile, così unito a Dio, abbia potuto
fare affermazioni che, se non fossero vere, sarebbero segno di un orgoglio
diabolico, come il dichiararsi Messia e Figlio di Dio, unico rivelatore del
mistero di Dio e unico salvatore degli uomini?
La
santità di Gesù è dunque un segno forte di credibilità del suo messaggio.
Tale
segno di credibilità diviene ancora più forte se alla santità di Gesù si
aggiunge la sua sincerità. Durante
tutto il suo ministero, ciò che Gesù ha maggiormente combattuto è stata l'ipocrisia
e la menzogna. Quanto a lui, anche i suoi avversari hanno riconosciuto la sua
sincerità: «Maestro - gli dicono alcuni farisei ed erodiani - sappiamo che sei
veritiero e non ti curi di nessuno; infatti non guardi in faccia agli uomini,
ma secondo verità insegni la via di Dio» (Mc
12,14). È dunque impensabile che egli sia caduto in ciò che egli così
duramente condanna: che perciò sia stato insincero e ipocrita, facendo
affermazioni che egli riteneva false. Del resto, è proprio la sua sincerità
nell'affermare di essere il Messia che ha provocato la sua condanna a morte.
Che
cosa concludere da quanto si è detto sin qui? Una cosa soltanto: che l'unica
spiegazione ragionevole del «fatto di Gesù» è che nelle sue affermazioni e nel
suo operato si deve riconoscere la presenza e la potenza di Dio. Ogni altra
ipotesi non spiegherebbe in maniera logica e ragionevole quello che possiamo
ben chiamare il «mistero» di Gesù. Ciò significa che l'argomento più solido,
più forte e più convincente della credibilità del cristianesimo è la persona di
Gesù.
Quanto
questo sia vero è confermato dalla risurrezione. C'è nella vicenda di Gesù di
Nazaret un fatto assolutamente unico nella storia umana, che parrebbe
assolutamente incredibile, ma della cui esistenza tuttavia si hanno prove
inconfutabili: tre giorni dopo la sua morte sulla croce, Gesù è risorto ed è
apparso molte volte e in molti luoghi e circostanze diverse ai suoi discepoli,
che hanno stentato a credere e non si sono convinti che egli fosse realmente risorto
se non dopo prove innegabili.
Ora
qual è il significato della risurrezione di Gesù?
Egli
era stato condannato a morte e crocifisso come bestemmiatore, falso Messia,
profanatore della Legge e ribelle all'autorità romana. Questa condanna era
stata giusta e meritata, e dunque Gesù era un falso profeta e un falso Messia?
In realtà, se la vicenda di Gesù si fosse
conclusa con la morte sulla croce, si poteva pensare che i suoi nemici avessero
avuto ragione a condannarlo. Ma la vicenda di Gesù non si è conclusa con la
morte in croce, poiché Dio lo ha fatto risorgere dalla morte. Con questo gesto
Dio ha voluto rendere giustizia a Gesù e mostrare ai suoi nemici che essi
avevano condannato e fatto morire Gesù ingiustamente, perché quello che aveva
detto era vero e quello che aveva fatto era ciò che Dio aveva voluto da lui.
Facendo risorgere Gesù da morte e introducendolo nella sua gloria, cioè, Dio ha
voluto testimoniare a favore di Gesù, della verità delle sue parole e della
santità della sua vita. Così, con la sua grandezza unica, la santità e la
sincerità della sua vita, con l'ingiustizia di una morte orrenda, ma accettata
con eroica obbedienza alla volontà di Dio, con la sua risurrezione, con la
quale Dio ha testimoniato a suo favore, Gesù è un segno - anzi, il segno
incomparabile - della credibilità della fede cristiana.
Chi è allora Gesù di Nazareth?
Certo un uomo! Vero uomo. E un uomo
straordinario, eccezionale, unico: così singolare da superare le nostre misure,
le nostre categorie, ogni possibile definizione. Si è mai visto un uomo parlare
con le parole di Gesù, operare i miracoli, perdonare, lasciarsi crocifiggere
nonostante la propria innocenza… risorgere?
Certo un profeta. Chi mai ha parlato di Dio
con le parole di Gesù, chi mai lo ha chiamato tanto teneramente con il termine Abbà, chi mai ha raccontato una storia
come la storia di quel padre che aspetta il figlio che lo ha lasciato e al suo
ritorno lo perdona e tutto per darci la misura incommensurabile e inimmaginabile
dell’amore di Dio?
Certamente un saggio, di una sapienza e
di una intelligenza insuperabili. Comandamenti come l’amore e il perdono dei
nemici, pagine come quella sulla provvidenza del Padre, parabole ad un tempo di
una semplicità e di una profondità sconcertate come quelle evangeliche hanno
comunque il medesimo autore…
Il Figlio di Dio
Eppure non solo, il mistero quando pare
svelarsi si infittisce.
La risposta sta nelle sue parole: