Benito Mussolini
Mussolini fù un grande oratore. O, per voler essere più
precisi, un grande tribuno. Aveva tutte le qualità del ruolo: la voce,
inconfondibile, grave con qualche riflesso metallico; il gesto secco e
imperioso; lo sguardo che la propaganda del Minculpop non si stancherà di
definire magnetico; la capacità d’improvvisare e la capacità di replicare. Nei
frangenti più drammatici sapeva trovare la battuta efficace e lapidaria. "Se mi
assolvete mi fate piacere, se mi condannate mi fate onore" disse ai giudici che
gli avrebbero inflitto un anno di reclusione per la partecipazione come
socialista massimalista ai moti del 1911 contro la guerra di Libia. E ai suoi
compagni, nella stessa circostanza: "Se mi compiangete, vi do un cazzotto sul
muso". Il giorno della sua espulsione dalla sezione milanese del partito
socialista, il 24 novembre 1914, dopo la conversione all’interventismo, gridò:
"Voi non mi perderete perché sono e rimarrò socialista [...]. Il socialismo è
qualche cosa che si radica nel sangue [...]. Io vi dico che invano urlate, la
guerra vi trascinerà tutti [...]". Non convinse. Ma s’era battuto. Prediligeva,
già d’allora, le frasi ad effetto e le mozioni degli affetti più che i richiami
alla ragione. (Ma bisogna pur fare, per l’oratoria mussoliniana, una netta
distinzione tra i tempi in cui, parlando davanti a folle e ad assemblee dalle
quali poteva venire il contraddittorio, usava argomenti, e i tempi in cui
diventato il Duce, si limitò a enunciare dalle verità.) Il Mussolini che
"marateggiava" (da Marat), secondo la bonaria espressione d’uno che lo aveva in
simpatia, parlava "tutto a scatti, come un contadino": ma era un contadino, o un
maestrino, che sapeva come farsi ascoltare. Ma l’oratore era di prim’ordine. Come il
giornalista.
L'
Oratore
Il Mussolini al potere, soprattutto quello
degli anni d’incenso, coniava degli slogans, a volte così azzeccati e facili da
tenere a mente come le arie del Rigoletto o della Traviata
che sono rimasti nella memoria collettiva, assurgendo alla perennità dei
luoghi comuni. La sua retorica non aveva bisogno di logica: non ne aveva bisogno
nemmeno Hitler. Il tedesco sommergeva peraltro la logica sotto un’alluvione di
profezie nibelungiche, l’italiano la sottometteva a un’enfasi scandita. "Tutto
il popolo [discorso del i 5 maggio 1930] vecchi, bambini, contadini, operai,
armati e inermi, sarà una massa umana e più che una massa umana, un bolide che
potrà essere scagliato contro chiunque e dovunque.
E'
ancora (25 ottobre 1932): "Tra un decennio l’Europa sarà fascista o
fascistizzata: antitesi in cui si divincola la civiltà contemporanea non si
supera che in un modo, con la dottrina e con la saggezza di Roma!". Era
consapevole di quanto la parola fosse importante in politica: "La potenza della
parola" confidò a Ludwig "ha un valore inestimabile per chi governa. Occorre
solo variarla continuamente. Alla massa bisogna parlare imperioso, ragionevole
avanti a un’assemblea, in modo familiare a un piccolo gruppo. E l’errore di
molti uomini politici di avere sempre il medesimo tono. Naturalmente parlo al
Senato diversamente che sulla piazza".
Ma al Senato ormai parlava raramente. I suoi interlocutori
erano nella piazza. E a essi riservava, senza che se ne accorgessero, un
disprezzo totale: sapeva che l’applauso era ormai assicurato (anche quand’era
alle sue prime armi si portava del resto una claquedi amici, cui
strizzava l’occhio dopo un pistolotto premeditato, perché dessero il
via ai battimani). Tipico, al riguardo,
il discorso invero brutto con cui annunciò l’entrata dell’Italia nella
seconda guerra mondiale. "Noi vogliamo spezzare le catene di ordine territoriale
e militare che ci soffocano nel nostro mare […].
Questa è la guerra dei popoli poveri e numerosi di braccia contro gli affamatori
[…].Secondo le leggi della
morale fascista quando si ha un amico si marcia fino in fondo." L’intero
discorso era stato costruito per il finale "Vincere! E vinceremo", Mussolini non
indugiò sulla travolgente avanzata tedesca che l’aveva indotto ad attaccare la
Francia per poter sedere al banchetto in cui sarebbero state divise le spoglie
dei vinti, non spiegò perché avesse scelto la cobelligeranza quando la Germania
aveva scatenato il conflitto, ma non si era sicuri che vincesse. Tutto questo
era superfluo. Nessuno gli avrebbe posto, né dalla piazza, né l’indomani dai
giornali, domande imbarazzanti.