Benito Mussolini
La dichiarazione di guerra

I mesi che intercorsero tra la dichiarazione di "non belligeranza" e la dichiarazione di guerra furono per Mussolini tormentosi. Si era adattato alla neutralità malvolentieri, sembrandogli vergognoso restare fuori del conflitto, dopo aver predicato la guerra per vent’anni; ma i fatti, cioè l’impreparazione militare ed economica, avevano finito per imporsi. La sua volontà di precipitare la situazione cozzava contro i dati della realtà, ed egli, da cui solo dipendeva di prendere le estreme decisioni, passava più volte da un proposito all’altro nel massimo dell’indecisione. Uno dei problemi più gravi era quello dei rifornimenti di carbone, che già cominciava a scarseggiare, tanto da paralizzare l’industria degli armamenti. Ma, mentre era in discussione l’alleanza con la Germania per fare la guerra insieme, l’Italia forniva armi alla Francia e alla Russia. Mussolini pensava che l’Italia, una volta entrata in guerra, dovesse condurre quella che egli definiva una "guerra parallela", dovesse cioè avere una strategia propria, indipendente da quella della Germania, per rivolgersi contro la Jugoslavia e la Grecia e nel bacino mediterraneo.

11 3 gennaio 1940 il Duce scrisse al Fùhrer una lunga lettera in cui dichiarava che l’Italia, non potendo sostenere una guerra lunga, sarebbe intervenuta soltanto al momento decisivo. Hitler non si curò neppure di rispondere. Furono i grandi successi militari tedeschi e il crollo della Francia a trascinare Mussolini nella determinazione rovinosa di precipitare l’Italia in guerra, per non arrivare troppo tardi, a conflitto terminato e quindi senza la possibilità di spartirne il bottino. Questa inclinazione fu rafforzata in Mussolini dal quadro ottimistico che il ministro degli Esteri tedesco Ribbentrop gli dipinse quando il 10 e 11 marzo 1940 fu a Roma, consegnandogli la risposta di Hitler alla sua lettera del 3 gennaio (erano passati oltre due mesi). Da parte sua Mussolini assicurò che la Marina e l’Aviazione italiane, più efficienti che mai, avrebbero avuto facilmente la meglio sui nemici. Queste posizioni furono ribadite il 18 marzo in un incontro diretto tra il Duce e il Fùhrer al Brennero: un altro di quei colloqui in tedesco, in cui Mussolini si trovava anche linguisticamente in condizioni d’inferiorità. Come egli spiegò ai suoi più intimi collaboratori, per l’Italia si trattava di un calcolo sottile: intervenire non troppo presto né troppo tardi. Ancora il 31 marzo 1940 confermò che egli avrebbe ritardato l’intervento "il più a lungo possibile". Isolato e solitario per sua stessa scelta, attese fino ai primi di aprile per comunicare agli Stati Maggiori dell’Esercito e della Marina che la dichiarazione di guerra si avvicinava. Mentre per le forze militari di terra indicava una guerra difensiva, per la Marina dava disposizioni di carattere offensivo; ma non ordinò che fossero approntati piani particolareggiati per un attacco contro Malta, la Corsica, Biserta o l’Egitto. Per i tedeschi, Malta e l’Egitto erano i bersagli naturali dell’azione italiana; ma, sebbene l’Italia avesse concentrato in Libia grandi masse di soldati, nulla era stato studiato e tanto meno predisposto per adattare i mezzi a una guerra nelle condizioni del deserto. Nonostante ciò, Mussolini, nel suo orgoglio, declinò l’offerta di Hitler di fornirgli per l’Africa duecentocinquanta carri armati pesanti (quelli italiani erano poco più che giocattoli). In compenso accettò la richiesta tedesca di inviare in Germania venti divisioni italiane per un attacco congiunto contro la Francia; ma poi non diede alcun seguito a questa forzata decisione.

Nell’aprile del 1940 l’invasione tedesca della Norvegia e della Danimarca convinse Mussolini che era ormai giunto il momento d’intervenire per non perdere, disse, "l’appuntamento con la storia". Inutili gli appelli di Reynaud, del papa, di Roosevelt, di Churchill tra aprile e maggio. La propaganda bellica fu accentuata, la guerra fu ancor più di prima presentata agli italiani come gloriosa e vantaggiosa, e la vittoria era sicura, indiscutibile. L’occupazione tedesca del Belgio e l’avanzata in Francia completarono il quadro; anche quelli tra i gerarchi che erano stati critici sulle prospettive della guerra si allinearono adesso sui piani del Duce. Alla fine di maggio, nel momento peggiore per la Francia e per l’Inghilterra (che aveva cominciato da Dunkerque il ritiro delle truppe britanniche dal suolo francese), mentre l’offensiva tedesca travolgeva il Belgio e l’Olanda, Mussolini informò i capi militari che aveva deciso di dichiarare la guerra la settimana successiva. Roosevelt definì quella decisione una "pugnalata alle spalle" inferta alla Francia ormai in ginocchio. Mussolini disse che gli occorrevano mille o duemila morti italiani per sedersi al tavolo della pace, dettare le sue condizioni e ottenere la sua parte del bottino (e proprio questo termine adoperava.

In vista dell’entrata in guerra, Mussolini, pur di ottenere dal re la cessione del comando supremo delle forze armate, lo affrontò a muso duro. Vittorio Emanuele III tergiversò per due settimane, ma infine, ancora una volta, cedette.

Il 10 giugno 1940 Mussolini, senza neppure informarne il Gran Consiglio e il Consiglio dei ministri, dichiarò guerra alla Francia e all’Inghilterra e la sera dal balcone di Palazzo Venezia ne diede solenne annuncio al popolo italiano. Tuttavia di operazioni militari non ci fu per il momento neppure l’ombra, e Malta, la Corsica e l’Egitto non furono bersaglio di alcun attacco. Soltanto il 17 giugno, quando la Francia in ginocchio chiese l’armistizio, il Duce diede l’ordine di abbandonare sulle Alpi la posizione difensiva e di attaccare. Contemporaneamente, in un incontro a Monaco con Hitler il 19 giugno, avanzò la richiesta delle conquiste territoriali per concedere l’armistizio: la Francia meridionale, la Corsica, la Tunisia e la Somalia francese.

L’offensiva sul fronte alpino si dimostrò un mezzo disastro (tra l’altro i soldati italiani combattevano a quelle quote con scarpe dalle suole di cartone e vi furono oltre 2100 congelati). Una piccola avanzata delle truppe italiane si ebbe soltanto lungo la costa, fino a Mentone. Il 21 giugno Ciano annotava nel suo Diario: "Mussolini è molto umiliato dal fatto che le nostre truppe non hanno fatto un passo avanti". Ma a salvare l’esercito di Mussolini da ulteriori scacchi, dopo quattro giorni di combattimenti intervenne il 25 giugno la firma dell’armistizio, mentre egli imprecava contro gli italiani, razza non sufficientemente guerriera. Tuttavia, malgrado l’accordo con Hitler, che aveva accettato le condizioni comunicategli per l’armistizio, poche ore prima dell’arrivo della delegazione francese per la firma Mussolini di sua iniziativa decise di abbandonare quelle richieste. Difficile dire perché. Ma ora la guerra continuava contro l’Inghilterra, guerra sostenuta però soprattutto dall’alleato tedesco. Mussolini esprimeva sentimenti di disprezzo anche verso la "razza anglosassone" per le supposte sue scarse capacità militari (nel ‘42 arriverà a definire gli inglesi "iene in sembianze umane", "barbari", "bruti"). Chiese pertanto all’alleato di affiancarlo con truppe italiane nella progettata invasione della Gran Bretagna: Hitler rispose con un rifiuto, addolcito, ma non agli occhi di Mussolini, con la giustificazione che gli italiani potevano essere meglio utilizzati e impiegati nel bacino mediterraneo. Progettò allora un duplice attacco, contro la Jugoslavia (per conquistare la Croazia e la Dalmazia) e contro le forze inglesi in Egitto; e mostrò di non tenere alcun conto delle obiezioni dei suoi generali per una siffatta iniziativa, tutt’altro che preparata. Le battaglie navali di Punta Stilo e di Capo Spada, allargo delle coste calabresi, il 9 e il 19 luglio 1940, e poi quella di Capo Teulada il 27 novembre, furono caratterizzate dallo scarso o nullo coordinamento tra la Marina e l’Aviazione. Nessun attacco fu invece effettuato contro Malta, chiave di volta del sistema di sicurezza inglese nel Mediterraneo.

Per queste mosse, o non mosse, contraddittorie agiva in Mussolini da una parte la volontà di sbrigarsela da solo, senza l’aiuto delle forze armate tedesche, per condurre la sua "guerra parallela", dall’altra la sua indecisione nell’esporre le navi da guerra italiane al rischio del combattimento. Perciò il Duce declinò l’offerta tedesca, avanzata in maggio e rinnovata in luglio, di carri armati da impiegare in Egitto, e anche di due divisioni corazzate tedesche perfettamente attrezzate per la guerra nel deserto, per la quale, invece, le truppe italiane non erano affatto equipaggiate. D’altronde egli continuava a ritenere che gli inglesi sarebbero stati facilmente battuti.


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