Benito Mussolini
Gli ultimi giorni


Nell’aprile 1945 gli Alleati ripresero l’offensiva oltre la linea gotica, mentre l’insurrezione antitedesca scoppiava in tutte le città italiane del Nord. Il 25-26 aprile le truppe tedesche avevano dovuto sgombrare o arrendersi a Genova, a Milano e a Torino.

Mentre la fine si avvicinava, Mussolini andava farneticando di difendere la Repubblica Sociale "palmo a palmo, sino all’ultima provincia, sino all’ultimo villaggio, sino all’ultimo casolare". In questo panorama s'inseriva, fin dal settembre 1944, l’ordine di preparare l’estrema resistenza in Valtellina. Però prese anche in esame l’eventualità di una fuga all’estero, tanto che vendette segretamente la sede e lo stabilimento del Popolo d’Italia per una grossa somma, da pagarsi in franchi svizzeri. Di fronte al crollo militare, Mussolini, il cui destino è ormai legato indissolubilmente a quello delle truppe tedesche, non ha più via di scampo. Dal marzo all’aprile aveva tentato di arrivare alla cessazione unilaterale delle ostilità e al trapasso dei poteri senza la minima insurrezione popolare, e ditali tentativi si era fatto mediatore il cardinale arcivescovo di Milano Ildefonso Schuster, cui il 13 marzo il capo della RSI aveva scritto una lettera proponendogli accordi circostanziati tra il governo fascista repubblicano e il comando alleato; ma un mese dopo, l’11 aprile, il cardinale fu informato che gli Alleati non intendevano entrare in trattative con Mussolini ed esigevano la resa incondizionata. Di tale risposta Mussolini non venne informato, e forse neppure del fatto che i tedeschi, per loro conto, trattavano con il nemico per un accordo. Certo è che tutti tramavano alle spalle degli altri. Il 17 aprile Mussolini decise di abbandonare Gargnano e di trasferirsi a Milano, dove il 20 aprile radunò ancora il Consiglio dei ministri, riproponendo un fantastico piano, già prospettato alcuni mesi prima, di trasferirsi col governo e con le forze armate in Valtellina, per farvi l’ultima difesa. Il 25 aprile tentò di negoziare offrendo al Comitato di Liberazione Nazionale un’inesistente eredità e "la successione della Repubblica e della socializzazione" in cambio dell’incolumità per sé e per i fascisti. Mentre i partigiani entravano in città, Mussolini si recò all’arcivescovado per incontrarvi, alla presenza del cardinale Schuster, i capi della Resistenza: il generale Raffaele Cadorna, Riccardo Lombardi del Partito d’Azione e Achille Marazza della Democrazia Cristiana. Mentre si discuteva, arrivò la notizia che le forze tedesche presenti a Milano avevano deciso di arrendersi agli angloamericani. Mussolini ne fu indignato e uscì, riparando in prefettura, donde decise di partire subito per Como e la Valtellina. Si attaccava alla speranza di radunare attorno a sé i fedeli dell’ultim’ora, garantitigli da Pavolini, i cui cinquantamila uomini non arrivarono mai.

Mussolini giunse a Como la sera del 25 aprile e ne ripartì la mattina del 26 verso la Valtellina. Passò la notte a Menaggio, e la mattina del 27 ripartì verso il nord. Con i suoi pochi seguaci, si accodò a una auto-colonna tedesca, lui stesso camuffandosi con un cappotto e un elmetto della Luftwaffe e rannicchiandosi in fondo all’autocarro. Mai come in questa estrema sua ora Mussolini è stato così carico di risentimento e di odio verso i nazisti. Eppure, per un’amara fatalità, è costretto adesso a vestire un’uniforme tedesca per tentare di sottrarsi alle ricerche e alla cattura da parte dei partigiani.

A pochi chilometri da Menaggio la colonna viene fermata dai partigiani, i quali acconsentono a che i tedeschi proseguano, a condizione che rilascino e consegnino i fascisti. Mussolini, scoperto, viene portato al vicino borgo di Dongo, dove fa salire Claretta Petacci nell’automobile con cui lo trasportano indietro, per una ventina di chilometri fino alla frazione di Bonzanigo nel comune di Mezzegra, dove i due amanti vengono rinchiusi in una modesta casa di contadini, vigilata da due partigiani.


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