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lezione del 27-03-2002
Un’architettura
più difficile, più complessa, che si tramuta in una sfida
più esigente.
Queste
sono le prime sensazioni provate dopo aver letto l’articolo. Una sfida
che però deve essere considerata prima di tutto stimolante; l’unico
modo per poterla vincere.
Sicuramente
uno degli elementi fondamentali di questa nuova architettura, o meglio
idea dell’architettura, è la concezione dello spazio interno non
più come elemento focale di un semplice edificio, bensì come
una delle tante parti ugualmente importanti di un sistema edilizio, che
devono coesistere e mantenere ben salda la loro interdipendenza, anche
e soprattutto con lo scopo di valorizzare la funzionalità del complesso.
L’aspirazione massima è quella di riuscire ad arrivare ad un momento
progettuale in cui esterno ed interno si fondano andando a creare un’unica
entità, annullando, o perlomeno attenuando i contorni di un costruito
che lo differenzi nettamente e spesso bruscamente dal suo intorno. Anche
se spesso dallo studio di un determinato paesaggio, può scaturire
la volontà opposta, e cioè di dar vita ad un qualcosa che
rompa l’intorno ponendosi in contrapposizione con esso, dimostrando comunque
l’intento di far interagire le parti.
Nell’architettura
contemporanea credo siano molti gli esempi in cui i vari progettisti abbiano
concentrato le proprie attenzioni sul rapporto tra lo spazio interno e
quello pubblico che lo circonda, evitando però di tralasciare quelle
esigenze funzionali, senza le quali ci si troverebbe poi di fronte ad un’involuzione
architettonica.
il
pericolo infatti può essere quello di volersi staccare da una concezione
rigida e razionale che predilige la funzione di un edificio, e che trascura
il suo rapporto con l’ambiente, per lanciarsi verso nuove idee che coinvolgano
più elementi, dimenticandosi poi completamente delle esigenze che
qualunque tipo di progetto deve per forza di cose avere.
Credo
sia proprio questo il centro e, nello stesso tempo, il rischio della sfida
di cui ho parlato all’inizio. Riuscire a muoversi razionalmente anche nel
più dichiarato degli astrattismi, riuscire a dare delle motivazioni
concrete a scelte apparentemente insensate. Personalmente non sono un grande
estimatore delle nuove forme d’arte contemporanee, perché il più
delle volte non riesco a capire il vero intento dell’autore. Probabilmente
è un mio limite, anche se non penso di essere l’unico. Ecco, credo
che l’architettura, in quanto anche forma d’arte, non debba cadere nell’errore
di non farsi riconoscere, e di non “servire”. Ed è proprio sfruttando
una ben riuscita correlazione con l’ambiente che deve farsi accettare,
farsi piacere; e nello stesso tempo deve essere “utile” a chi vi accede.
L’impresa
non è delle più facili, ma l’architettura dispone di un mezzo
che probabilmente nessun’altra forma d’arte può sfruttare così
a pieno: la tecnologia.
La
tecnologia che completa l’opera progettuale, che fornisce gli accessori,
la tecnologia che ridimensiona gli spazi, che li muove, e che al giorno
d’oggi è arrivata ad un livello di innovazione tale da far entrare
l’architettura in un momento completamente nuovo e diverso rispetto al
precedente e ai precedenti.
Probabilmente
solo chi riesce a gestire questo mezzo e a metterlo al servizio del progetto
e della sua funzione può vincere la sfida.
Planetario
della Città della scienza di Valencia.Santiago Calatrava