Intervista con
Derrick De
Kerckhove
di Chiara Sottocorona
L'arte è la controforza che può riequilibrare gli effetti destabilizzanti
delle nuove tecnologie sulla cultura. Restituendo potere alla nostra
soggettività, le rappresentazioni virtuali ci permettono di percepire meglio la
complessità del mondo e noi stessi. E rendono più attenti e più vigili i nostri
sensi.
Ad appassionare Derrick De Kerckhove, allievo ed erede
intellettuale del grande mass-mediologo canadese Marshall McLuhan, sono le
relazioni tra arte e tecnologia - psiche e corpo. Al McLuhan Program on culture
and technology, il centro di ricerca che dirige a Toronto, ha ospitato e
sostenuto diversi artisti delle avanguardie della Techno-art. Non perde mai un
appuntamento quando si tratta di esplorare qualche possibilità di incontro tra
arte e tecnologia: dal Siggraph negli Usa, a Imagina di Montecarlo, da Ars
Electronica in Austria, a Mediartech di Firenze. E nell'autunno scorso ha
contribuito anche a realizzare l'esposizione canadese-messicana Net@works,
dedicata ai più interessanti esperimenti dell'arte tecnologica e dei mondi
virtuali. In questa intervista motiva il ruolo delle esperienze artistiche in un
contesto di rapida evoluzione tecnologica, come quello in cui viviamo. E spiega
perché l'Arte del virtuale rappresenta davvero una nuova
frontiera.
Nel suo ultimo libro, "The skin of culture. Investigating
the new electronic reality", lei ha dedicato all'arte un intero capitolo:
"Volcanic Art". Che cosa significa questa definizione?
In tempi come
i nostri, di violenti sconvolgimenti psicologici, l'arte non è una fuga e
neanche una via di uscita dalla confusione e dall'incertezza: al contrario è un
modo di penetrare, uno spiraglio aperto nel magma della coscienza collettiva. La
mia metafora vulcanica dell'arte si basa sull'idea junghiana secondo la quale
l'arte, prodotto dell'inconscio collettivo, rompe la crosta della coscienza
quando la superficie della realtà è troppo debole per restare allo statu quo. Ma
perché la superficie della realtà diventa debole? Perché fondamentalmente la
realtà si forma a opera delle tecnologie che la pervadono e quindi cambia ogni
volta che le tecnologie tornano ad assaltarla. Una visione del mondo che si basa
sulla parola scritta viene contestata e indebolita dalla televisione, come una
visione del mondo che si basa sulla televisione viene minacciata dalle reti
informatiche. La realtà è una forma di consenso, sostenuta non solo dalla
benevolenza e dal linguaggio delle comunità che la condividono, ma anche
elaborata e mantenuta dal principale mezzo di comunicazione utilizzato dalla
cultura. Quando una nuova tecnologia si misura con l'esistente e lo scompagina,
quello è il momento, per l'arte, di accettare la sfida.
E in che modo
si manifesta questo processo?
Gli artisti attuali sono le punte
coscienti di un grande iceberg sonnambulistico. Mi spiego. Gli impulsi
tecnologici e le promesse del mercato, come i feticismi tecnologici rampanti,
intontiscono il pubblico, che resta legato psicologicamente alle immagini del
passato. Ed ecco che gli artisti mettono in discussione il prodotto delle ultime
tecnologie: i computer, i sistemi interattivi, il multimedia, la realtà virtuale
e quant'altro offre il mercato. Non in un modo politico, ingenuo, ma a un più
profondo livello psicosensoriale. Chi siamo noi? Cosa ci stanno facendo queste
macchine? Che immagine di noi stessi ci restituiscono? Come stanno trasformando
le nostre percezioni? I primi esperimenti artistici, frutto di queste domande,
hanno incontrato, com'era prevedibile, una rigida disapprovazione e resistenza
da parte del pubblico e dell'establishment dell'arte. Scintille e fuochi
generano sempre opposizione, è la risposta standard di qualsiasi establishment,
che sia politico, religioso, economico o scientifico. Paura e disgusto accolsero
le opere di Courbet e Manet e i primi film di Resnais. Una visione romantica e
idealizzata proporrebbe una teoria vulcanica come la seguente: l'opera d'arte
irrompe attraverso la crosta del consenso, della realtà indebolita, come una
minaccia. La nuova realtà, una nuova coscienza in ebollizione, sgorga dalla
bocca vulcanica, percorre i pendii della montagna, rallentando e quietandosi nel
cammino. Più è lontana dalla cima, più si raffredda e scurisce, finché non
raggiunge il punto in cui si consolida. L'ultimo stadio è la memoria, il museo,
l'istituzione. E, certo, il sedimento è importante quanto la scintilla, se
vogliamo che la cultura sia coerente e significativa. Ma questa visione, come
dicevo, è romantica e idealizzata.
Perché definisce "idealizzata"
questa visione? Intende dire che le cose, in realtà, vanno in un altro modo? E
per quale motivo?
Perché nella multicultura di massa l'opera d'arte
nuova viene sommersa dal baccano della cultura popolare e dei media.
Globalizzato dalle comunicazioni istantanee, il mondo dell'arte, da Tokyo a
Parigi, ad Amsterdam, a Québec, è costantemente in contatto con ciò che succede.
Non vi è quindi alcuna rovinosa eruzione: nel sistema nervoso mondiale l'arte
lavora a produrre i migliori effetti in piccole dosi. In ogni caso, oggi l'arte
nasce dalla tecnologia: è la contro-forza che riequilibra gli effetti
destabilizzanti delle nuove tecnologie nella cultura. L'arte è il lato
metaforico della tecnologia, che così viene usata, ma anche criticata. Nel
contesto tecnologico attuale dobbiamo affidarci all'arte e alla cultura popolare
per salvarci un po' dai nostri aggeggi: accettiamo automobili, televisori e
computer nelle nostre vite, senza pensare che ognuno di questi congegni produrrà
un'ammaccatura sulla nostra psiche. Ogni estensione tecnologica che lasciamo
accedere alle nostre vite si comporta come una specie di "arto fantasma", mai
abbastanza integrato al nostro corpo o alle funzioni della nostra mente, ma mai
realmente al di fuori del nostro make-up psicologico. L'arte non sempre riesce a
ripristinare l'equilibrio perduto, ma può dare forma e significato alla cultura
destabilizzata. Per esempio, il Futurismo italiano e il Modernismo nella
scultura hanno accompagnato e sostenuto le inclinazioni della rivoluzione
industriale, che destabilizzò i ritmi lenti della cultura contadina. L'arte di
Marinetti, Boccioni, Léger e altri, tentò di imporre aggressivamente nuovi
valori, procedendo con modalità che rispecchiano la mia concezione dell'arte
vulcanica.
Al tema dell'accelerazione nelle società tecnologiche sono
dedicati studi di pensatori contemporanei come Jean Baudrillard e Paul Virilio.
Lei in che prospettiva vede il problema?
La questione
dell'accelerazione è suprema. In una cultura stabile, in cui la svolta
tecnologica è lenta, in genere è lo Stato che sostiene e controlla la cultura.
Gli anni d'oro del Re Sole in Francia corrispondono, per esempio, a periodi di
stabilità tecno-culturale, durante i quali si cominciano a connettere la
coscienza sociale, le infrastrutture di comunicazione e il controllo dello
Stato. Nella nostra epoca le rivoluzioni tecnologiche avvengono troppo
rapidamente per poter arrivare a uno stadio maturo. Quando l'innovazione
tecnologica accelera, le forze di mercato prendono il sopravvento. Il compito
dell'armonizzazione collettiva e dell'educazione psico-sensoriale viene allora
demandato alla cultura. Ma è la Nintendo, ora, che regola i sistemi nervosi di
generazioni più esposte ai computer che non agli schermi televisivi. Mentre
stanno giocando, i bambini vengono mutati in infelici estensioni delle loro
consolle di videogiochi, come fossero servomeccanismi complessi, crudi joystick
organici di videocartoon digitali. Questa è un'immagine dei nostri nuovi "io"
emergenti. L'arte tecnologica, però, sta entrando nella seconda fase del
processo vulcanico; dopo essere fuoriuscita dalla bocca sta raffreddandosi
abbastanza velocemente da poter essere avvicinata dalla gente. E' tempo anche di
grandi aspettative per una migliore comprensione delle complessità di un mondo
improvvisamente troppo grande per gli individui e troppo piccolo per le
collettività. Stiamo cercando una percezione più ampia di noi stessi,
commisurata alla distanza mondiale dei nostri "arti fantasma" tecnologici. E
abbiamo bisogno quindi di nuove e più adeguate metafore mondiali per cominciare
a riconoscere il nostro pianeta, non solo come la nostra casa, ma come il nostro
vero e proprio corpo.
Lei ha sostenuto che l'Arte del virtuale è
completamente diversa da tutte le altre esperienze artistiche conosciute in
precedenza, comprese quelle che già da anni utilizzano le nuove tecnologie, come
ad esempio la Computer-art. Perché?
La specificità del virtuale è
data da almeno tre campi distinti: i mondi virtuali, generati dal computer, le
interfacce e il ruolo implicito dell'utilizzatore. Ciò che molti artisti hanno
compreso è che il virtuale, al contrario della rappresentazione bidimensionale,
che li elimina, tende a invocare e anche a "convocare" i sensi. Il virtuale
riporta al primo posto il corpo, come centro. Non è un caso, infatti, che
nell'Arte del virtuale siano più numerose e lavorino meglio le donne, più
attente alla sensibilità del corpo. Ma il pericolo che si corre è quello di
esaltare l'interattività o la virtualità fini a se stesse, mentre da sole non
bastano. E' sempre importantissimo il contenuto, il messaggio, altrimenti esse
restano soltanto esercitazioni tecniche.
Appunto. La domanda di fondo
mi sembra proprio questa: siamo davvero arrivati a livelli che possono essere
definiti artistici, abbiamo già dato vita a nuovi linguaggi espressivi, oppure
siamo soltanto di fronte a sperimentazioni di carattere esclusivamente
tecnologico?
L'artista lavora sulla tecnologia proprio per dare ad
essa un senso diverso dalla sua intrinseca finalità tecnica. In questo contesto
l'insieme dei trattamenti metaforici e tecnici del virtuale converge su un
punto: quello dell'essere, definito e potenziato dalle tecnologie che usa. Il
progetto dell'Arte del virtuale è stato in qualche modo annunciato da David
Rockeby, con una efficacissima frase che vorrei qui citare: «Davanti al rigoroso
determinismo del computer, gli artisti provano spesso una sorta di isolamento,
se non di claustrofobia. Uno dei modi di sfuggire all'effetto ipnotico, che fa
sprofondare nella contemplazione narcisistica delle proprie costruzioni, è di
forzare i limiti della tecnologia, fino al momento in cui essa arriva a
sorprenderti».
C'è un punto che va considerato l'inizio dell'Arte del
virtuale?
Direi che Myron Krueger può essere considerato il padre di
quest'arte. Ma una delle questioni irrisolte è proprio quella di tracciarne i
confini. Si devono includere o no quelle opere che non trasferiscono una
proiezione del corpo in mondi virtuali? Si possono chiamare "virtuali" anche
opere che offrono soltanto rappresentazioni e manipolazioni sugli schermi? Per
me l'Arte del virtuale deve comprendere la tridimensionalità, un'ambiente
totale, una forma di immersione, e naturalmente l'interattività. Se è solo
"frontale" non è veramente virtuale. Anche se ciò non toglie che si possa godere
di alcune forme di arte virtuale guardandole solo sullo schermo
bidimensionale.
Quale evoluzione vede per questa nuova arte? E quali
opere sono più rappresentative della generazione attuale?
Per il
momento, a causa dei limiti di una tecnologia che è ancora all'inizio, i mondi
virtuali sono spesso deludenti. Tuttavia alcune opzioni e posizioni estetiche
cominciano ad affermarsi, soprattutto nel lavoro sul virtuale con i frattali di
Aguéda Simo, che si domanda perché rinchiudere i navigatori dentro scenari
disposti orizzontalmente quando sono possibili, al contrario, itinerari liberati
dalla pesantezza del corpo. In definitiva, ciò che ci si aspetta dai mondi
virtuali, immaginati e creati dagli artisti, è, come suggerisce Philippe Quéau
(il fondatore di Imagina, la rassegna delle realtà virtuali che si tiene ogni
anno a Montecarlo,) che ci facciano «percepire nuove forme di abissi». In questa
ottica il mondo virtuale più evocatore è senza dubbio la creazione di Tamas
Waliczky The garden, che mostra un giardino dal punto di vista di un
bambino di quattro anni, suo figlio.
Prerogativa dell'Arte del
virtuale, dunque, è la possibilità di cambiare il punto di vista, la posizione
stessa dell'osservatore?
C'è un neologismo concepito proprio per dar
conto dei nuovi poteri d'oggettivazione del virtuale e della sua capacità di
trasporre la soggettività: alienarisation. Si contrappone al senso di
alienazione, perché la macchina per la realtà virtuale permette di rendere il sé
"altro". In varie sperimentazioni condotte, prima del suo scioglimento, dalla
Vpl, si trattava per esempio di far portare da un secondo utilizzatore la
tunica, i guanti e i dataglove, attraverso i quali si era registrata
l'esperienza di un utilizzatore precedente. L'effetto di "indossare", di
recitare, i movimenti di qualcun altro può dar luogo a ogni sorta di squilibrio,
a causa della contraddizione tra le reazioni spontanee e quelle registrate.
Squilibrio che finisce per sconfinare nel mal di mare. Questo genere di ricerca,
come il potere del virtuale di modificare, trasporre, spostare e restituire la
soggettività dell'utilizzatore, fa nascere in Rockeby il concetto di
"soggettività rappresentata".
Il ruolo del soggetto, in quanto
fruitore che non è più soltanto osservatore, diviene quindi
fondamentale?
Certo. Il virtuale è niente se non assicura al suo
utilizzatore un'autonomia di movimenti almeno equivalente a quella dei
videogiochi che proliferano nei parchi d'attrazione. L'artista vuole di più e va
più lontano: propone l'autonomia del creatore. Così l'opera non è mai finita, ma
rimane veramente "virtuale". Almeno fino a quando non si realizza secondo i
parametri di un meta-design che fa dell'utilizzatore il vero designer. Numerosi
sistemi mettono a disposizione dei giochi di costruzione infografica o
audiovisiva, che conferiscono pieni poteri all'utilizzatore. E' dunque possibile
programmare e riprogrammare innumerevoli volte Very nervous system (opera
di Rockeby) o Mandala (di Vincent John Vincent) o Genetic images
(di Karl Sims).
Con il sistema Mandala tra l'altro non c'è bisogno di
interfacce, non è necessario indossare nulla per immergersi negli ambienti
virtuali generati dal computer: è il corpo stesso a fare da joystick, ripreso da
una serie di video-capture. Recentemente a Toronto il Vivid group ha
sperimentato un Mandala in cui i giocatori immergevano i loro corpi in un campo
di calcio virtuale, e potevano confrontarsi con altri calciatori virtuali
"distanti", collegati via cavo o via satellite...
Il corpo pensa. Lo
avevamo dimenticato da quando le nostre ossessioni l'avevano così ben separato
dalla testa. Ma il corpo, assistito dal computer, esce dai suoi limiti
tradizionali, articolati attorno alla pelle. Allora è necessario un corpo a
misura delle nuove potenzialità della nostra mente, così che anch'esso,
assistito dal computer, possa godere di un accesso istantaneo a qualsiasi punto
del globo. La nostra nuova pelle (come ho scritto in The skin of culture)
è l'atmosfera terrestre sensibilizzata dai satelliti. E' ciò che l'artista
australiano Stelarc cercava di spiegare, qualche tempo fa, a Paul Virilio: con
la sua proposta di ridisegnare il corpo secondo una concezione pan-planetaria
della fisiologia. Stelarc include le tecnologie nell'immagine di se stesso, e le
fa proprie. L'artista si è trapiantato infatti un terzo braccio, protesi
elettromeccanica collegata direttamente al suo sistema nervoso, rappresentazione
di una dea Kali tecnologica. Un modo per celebrare, come altri artisti del
virtuale, il ritorno del tatto in una cultura ancora accecata dalla regalità
dello sguardo.
Anche la telepresenza, nuova forma di recupero a
distanza del tatto, ha dato luogo a esperienze artistiche
interessanti?
Indubbiamente. Grazie ai rapidi sviluppi della
telepresenza (videoconferenza più telerobotica) e della televirtualità, si
possono legittimamente intravedere gli scambi eccitanti di cui si parla tanto,
senza il minimo spirito critico. Ma ancora prima che ci si sia resi conto del
fatto che tutte le tecniche di interfaccia sono delle variazioni sulle
articolazioni del tatto, gli artisti del virtuale si sono messi alla ricerca di
una nuova tattilità. Si va dagli esperimenti più concreti, come quelli di Norman
White e di Doug Back nel Braccio di ferro transatlantico (ndr: sistema di
scambio di contatti fisici attraverso computer-modem-telefono) ad altri più
sottili e avvincenti, anche se controversi, come quello di Telematic
dreaming. Una performance nella quale Paul Sermon si esibisce su un letto
virtuale comune, in videoconferenza, con una partner molto reale che si trova
all'altro capo del filo. Non possiamo ignorare che, allo stesso modo in cui la
voce umana dice molto della persona che parla, l'espressione multisensoriale,
intravista nella comunicazione realizzata attraverso la realtà virtuale, invita
a sognare dialoghi inauditi, ricchi di gesti e di movimenti pieni di
sottigliezze. Tutto il nostro sistema nervoso, finora protetto dalla pelle,
nascosto agli altri, è ormai suscettibile di rendere letteralmente esplicito ed
evidente quel tipo di percezione e informazione che di solito è accessibile
soltanto alle persone dotate di eccezionale sensibilità.
Come debbono
essere valutate, però, le possibili conseguenze di simili, sconvolgenti
trasformazioni?
Si dovrebbe cominciare con il rendersi conto che la
posta messa in gioco dal virtuale sul piano estetico, per le sue implicazioni
epistemologiche fondamentali e rivoluzionarie, è anche, forse prima di tutto,
una posta in gioco psicologica. Ma il progetto globale del virtuale, come hanno
intravisto, non senza preoccupazione, Paul Virilio e Jean Baudrillard, è
destinato a diffondersi quanto la televisione e a banalizzarsi e democratizzarsi
quanto l'automobile. E' probabile che la macchina virtuale starà all'industria
elettronica come l'automobile sta oggi all'industria meccanica, vale a dire come
una necessità generalizzata già all'orizzonte delle economie mondiali. In queste
condizioni, è all'arte, come al tempo del Rinascimento, che ritornerà il compito
esaltante, e ingrato, di spiegare l'uomo all'uomo trasformato da cima a fondo
dalle proprie invenzioni. Attendiamo un nuovo Rinascimento, non più destinato,
come il primo, a installare in noi le strutture fondamentali della psicologia
occidentale, ma a dotarci di una psicologia globale che includa il mondo intero
nella nostra forza interiore, anziché escluderlo, come avveniva in passato. Il
lavoro dell'arte sulla psicologia è di riassorbire i nostri poteri tecnologici
all'interno stesso del nostro campo cognitivo personale.