Euridice aveva un cane (Bompiani 1993). Racconti.
Il testo del risvolto di copertina:
Racconti straordinari: pochissimi libri italiani potrebbero legittimamente fregiarsi di questo titolo, riservato di solito alle antologie di Poe. Uno è quello che avete in mano: Euridice aveva un cane di Michele Mari. Ancor più che per gli incubi e per gli orrori, i tre romanzi pubblicati sin qui da Mari erano stati notati per il loro linguaggio: un demone imitatore ed erudito consentiva all'autore di riprodurre con mostruosa fedeltà ogni lessico e ogni intonazione della nostra tradizione letteraria. Benché quel demone glossolalico non sia affatto sparito, e di tanto in tanto ami esibirsi in qualcuno dei suoi numeri più stupefacenti, è soprattutto l'estro narrativo ad avere risalto nei racconti di Euridice aveva un cane. Paura e umorismo, un crepitio di invenzioni irresistibili, finali inattesi e sarcastici: tutto questo incontra il lettore ad apertura di pagina. Mari, che sinora ci aveva abituato a fondali gotici o elisabettiani sempre un po' sovraccarichi, qui ci invita a frequentare set meno esotici, e forse più inquietanti: un luogo di villeggiatura sul lago Maggiore, un collegio a Quarto dei Mille, tagli urbani gremiti di quei segnali funesti che solo una furiosa paranoia riesce a decifrare... E mentre leggiamo, dietro lo scrittore iperletterato e parodista sembra a tratti affiorare un'altra fisionomia: quella di un fratello italiano di Stephen King, esperto di tranelli e di abissi che si spalancano nella trama della vita quotidiana, e candido depositario dei terrori e dei turbamenti che sono il lascito irrinunciabile dell'infanzia e dell'adolescenza.