GORGIA 
 di Platone

Indice

Prologo
Dialogo Socrate - Gorgia
Dialogo Socrate - Polo
Dialogo Socrate - Callicle
Epilogo - mitologico di Socrate

 

Prologo 

[447a] I. CALLICLE. Ecco, dicono, come si deve partecipare alla guerra e alla battaglia, Socrate! SOCRATE. Siamo forse giunti in ritardo e, come si è soliti dire, a festa finita? CALL. E dopo quale magnifica festa! Appena ora Gorgia ha finito di esibirsi in una sua brillante lezione. SOCR. Causa del nostro ritardo è stato, caro Callicle, Cherefonte, qui presente, che ci ha costretti a trattenerci nell'agorà. CHEREFONTE. Nulla di male, Socrate! rimedierò io stesso! [b] Gorgia è mio amico e ripeterà per noi, anche sùbito, se vuoi, la sua lezione, se no un'altra volta. CALL. Ma cosa, Cherefonte! Socrate desidera ascoltare Gorgia? CHER. Siamo qui proprio per questo! CALL. Quando, dunque, volete, venite pure a casa mia; Gorgia è mio ospite e vi terrà lezione. SOCR. Bene, Callicle! Ma Gorgia sarà disposto a ragionare con noi? Perché io vorrei cercare [c] di sapere da lui, in che consiste la funzione propria alla sua arte e cosa egli professi ed insegni. Questo solo m'interessa: un'altra volta faccia, come tu dici, la nuova lezione. CALL. Non resta altro, Socrate, che porre la domanda a lui stesso. D'altra parte proprio in questo consisteva uno dei punti della sua esposizione, e proprio ora invitava gli ospiti presenti a rivolgergli la domanda che ciascuno volesse, dichiarandosi pronto a rispondere a tutto. SOCR. Molto bene! Sù via, Cherefonte, domanda. [d] CHER. Cosa debbo domandare? SOCR. Chi è! CHER. Che vuoi dire? SOCR. Se, ad esempio, capitasse il caso ch'egli facesse di mestiere il calzolaio, evidentemente ti risponderebbe: calzolaio. O non capisci cosa voglio dire?

II. CHER. Ho capito e gli farò la domanda. Dimmi, Gorgia, è vero quel che dice Callicle, che tu proclami di saper rispondere a qualsiasi domanda ti venga posta? [448a] GORGIA. E' vero, Cherefonte! Appena ora dichiaravo proprio questo, e sostengo che nessuno da molto tempo mi ha posto una domanda il cui contenuto fosse per me cosa nuova. CHER. Allora, Gorgia, ti sarà facilissimo rispondere. GORG. Puoi farne la prova, Cherefonte! POLO. Per Zeus, se vuoi, Cherefonte, poni a me la domanda! Mi sembra, infatti, che Gorgia sia stanco: ha finito proprio ora una lunga discussione. CHER. E che, Polo? pensi di poter rispondere meglio di Gorgia? POLO. Questo non c'entra: basta che la risposta sia adeguata alla [b] tua domanda. CHER. Nulla, nulla! Se vuoi così, rispondi pure tu. POLO. Interroga. CHER. Ecco la mia domanda: se, per caso, Gorgia possedesse per scienza la stessa arte di suo fratello Erodico, quale sarebbe l'esatto nome che dovremmo dargli? Non dovremmo chiamarlo come chiamiamo il fratello? POLO. Senza dubbio! CHER. Dicendolo medico gli daremo, dunque, il suo esatto nome? POLO. Sì. CHER. E se la sua arte fosse, invece, quella di Aristofonte, figlio di Aglaofonte, o dello stesso fratello di Aristofonte, come dovremmo correttamente chiamarlo? [c] POLO. Pittore, evidentemente. CHER. E adesso, allora, in quale arte egli è competente, e, per ciò con quale nome dovremmo correttamente chiamarlo? POLO. Cherefonte, molte arti ci sono tra gli uomini, empiricamente ritrovate attraverso l'esperienza. L'esperienza fa sì che la nostra vita proceda secondo una certa regola, la mancanza di esperienza ci fa, invece, procedere a caso. Fra tutte queste arti v'è chi esercita l'una e chi l'altra, i migliori le migliori. Gorgia è tra i migliori, e l'arte che possiede è, tra tutte, l'arte più bella.

[d] III. SOCR. Gorgia, sembra proprio che Polo sia bene addestrato nei discorsi, solo che non mantiene quel che aveva promesso a Cherefonte. GORG. Ma, Socrate, in che modo con precisione? SOCR. Mi pare che non risponda affatto alla domanda che gli era stata posta. GORG. E allora, interrogalo tu stesso, se vuoi. SOCR. No, se sei disposto a rispondermi tu, interrogherei molto più volentieri te: anche da quello che ha detto, chiaramente risulta che Polo si è curato dell'arte che viene detta retorica [e] più che di quella dialogica. POLO. Cioè, Socrate? 

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SOCR. Sì, Polo, perché mentre Cherefonte ti ha chiesto quale sia l'arte di Gorgia, tu invece ne tessi le lodi, quasi la volessimo criticare, senza rispondere in che cosa consiste. POLO. Ma non ho risposto che è la più bella di tutte? SOCR. Sì, certo! solo che nessuno ti ha chiesto la "qualità" poi/a tij [poìa tìs] dell'arte di Gorgia, ma "in che consiste" ti/j [tìs] e come, di conseguenza, si debba denominare Gorgia. Come dianzi, negli esempi che Cherefonte ti aveva prospettato, hai risposto proprio bene e brevemente, così, [449a] anche ora, dimmi in che consiste l'arte di Gorgia e come dobbiamo chiamarlo. O meglio, Gorgia, dicci tu in persona con quale nome ti si deve indicare in quanto esperto di una certa arte. GORG. Della retorica, Socrate. SOCR. Bisogna, dunque, chiamarti rètore? GORG. E buon rètore, Socrate, se, quale mi vanto d'essere, come dice Omero, così mi vuoi chiamare. SOCR. Certo che lo voglio. GORG. E allora chiamami rètore. SOCR. Ma sei [b] capace di rendere tali anche gli altri? GORG. Proprio questo prometto, non solo qui, ma anche altrove. SOCR. E tu vorresti, Gorgia, continuare così fino in fondo la discussione come abbiamo cominciato adesso, cioè per via di domande e risposte, rimandando a un'altra volta quella maggiore ampiezza di discorsi con cui Polo aveva cominciato? Ma cerca di mantenere la promessa e di non ingannare, rispondendo davvero il più brevemente possibile alle mie domande. GORG. Talvolta, Socrate, alcune risposte richiedono discorsi lunghi; comunque mi sforzerò di rispondere nel modo più breve. D'altra parte anche questo [c] dichiaro di me stesso, che nessuno saprebbe dire la stessa cosa più brevemente di me. SOCR. Così dev'essere, Gorgia. Mostrami, dunque, come sai fare anche questo: oggi come sai rispondere brachilogicamente, un'altra volta macrologicamente. GORG. Lo farò, Socrate, e tu dovrai pur dire di non avere ascoltato nessuno più breve di me.

IV. SOCR. Sù via, allora! Poiché tu sostieni di conoscere [d] l'arte retorica e di sapere formare altri alla retorica, quale dunque è l'oggetto proprio della retorica? come, ad esempio l'arte tessile ha per oggetto la confezione delle stoffe. E' così? GORG. Sì. SOCR. E la musica la composizione dei canti? GORG. Sì. SOCR. Per Era, Gorgia! Ammiro le tue risposte: più brevemente di così è impossibile rispondere. GORG. Sì, Socrate, credo proprio di rispondere come si deve. SOCR. Perfettamente. E allora, rispondimi allo stesso modo anche a proposito della retorica: qual è l'oggetto di cui è scienza la retorica? GORG. [e] I discorsi. SOCR. Ma quali discorsi Gorgia? Forse anche quelli che persuadono gli ammalati della dieta che debbono seguire per ritornare sani? GORG. No! SOCR. Non tutti i discorsi sono, dunque, oggetto di retorica. GORG. Evidentemente no. SOCR. Eppure essa rende abili a parlare. GORG. Sì. SOCR. Ma anche a pensare su ciò di cui si discorre? GORG. Certo! SOCR. Ma anche [450a] la medicina, di cui ora parlavamo, non rende abili a parlare e a pensare sugli ammalati? GORG. Per forza! SOCR. Anche la medicina, dunque, sembra abbia a suo oggetto discorsi. GORG. Sì. SOCR. I discorsi sulle malattie? GORG. Esattamente. SOCR. E così anche la ginnastica ha per oggetto discorsi, discorsi sulla buona e sulla cattiva disposizione dei corpi? GORG. Certo. SOCR. E lo stesso, Gorgia, si deve ripetere in gene-[b] rale per tutte quante le arti: ciascun'arte ha per oggetto discorsi, ciascuna quel discorso che si riferisce, di volta in volta, all'attività di cui, appunto, è arte. GORG. E' chiaro. SOCR. Ma allora, perché non chiami retoriche anche le altre arti, se tutte hanno ad oggetto discorsi, e chiami invece retorica questa, in quanto ha per oggetto discorsi? GORG. Perché, Socrate, mentre nelle altre arti, la scienza si risolve tutta, per così dire, nel lavoro manuale e in attività del genere, la retorica, invece, non consiste in nessuna simile opera manuale, ma tutta la sua efficacia [c] e azione si esplica mediante la parola. Ecco perché io definisco la retorica arte della parola e la mia definizione credo sia esatta.

V. SOCR. Comincio forse a capire cosa tu intendi esser la retorica! Ma, sùbito, lo saprò più chiaramente. Dimmi: esistono le arti, no? GORG. Sì. SOCR. Fra tutte queste, credo, alcune hanno per oggetto soprattutto il lavoro e non hanno bisogno che di poche parole; certe, anzi, non ne hanno affatto bisogno, tanto è vero che possono realizzare il proprio scopo in silenzio, come, ad esempio, la pittura, la scultura e molte altre. Sono queste, mi sembra, quelle [d] che, secondo te, non hanno nulla a che fare con la retorica, o no? GORG. Hai afferrato benissimo il mio pensiero. SOCR. Vi sono, invece, altre arti che realizzano il proprio scopo solo mediante la parola e che, diciamo, non hanno alcun bisogno di lavoro o di pochissimo, come, ad esempio, l'aritmetica, il calcolo, la geometria, la scacchistica e molte altre: in alcune di esse la parte che hanno i discorsi è quasi uguale a quella che ha l'azione, mentre in molte il discorso ha il sopravvento, tanto che la loro azione e il loro effetto totalmente si risolvono nei discorsi. Mi [e] sembra, appunto, che tu ponga tra queste la retorica. GORG. E' vero. SOCR. Ma nessuna di tali arti, credo, tu voglia chiamare retorica, anche se, a prendere quel che hai detto nella sua precisa formulazione verbale, allorché definivi la retorica arte che agisce e che realizza il proprio scopo mediante la parola, volendo cavillare, si può obbiettare: Gorgia, tu chiami l'aritmetica retorica? Solo ch'io non penso affatto che tu dia il nome di retorica né all'aritmetica né alla geometria. GORG. Esatto è il tuo modo di [451a] pensare, Socrate, e hai afferrato la questione nei suoi giusti termini.

VI. SOCR. Anche tu, allora, devi completare la tua risposta alla mia domanda. Poiché la retorica è sì, tra le arti, una di quelle che particolarmente usa la parola, ma ve ne sono altre che operano allo stesso modo, cerca ora di spiegare quale sia l'àmbito della retorica che si fonda sui discorsi. Se, ad esempio, a proposito di una di quelle arti, cui or ora accennavo, mi si domandasse: "Socrate, [b] cosa è l'aritmetica?", risponderei, come hai fatto tu adesso: una delle arti che operano mediante la parola. E se mi si domandasse ancora: "Ma qual è il suo oggetto?", risponderei: il pari e il dispari, quali che siano le loro rispettive quantità. E se di nuovo quel tale mi chiedesse: "E l'arte che chiami calcolo, cosa è?", risponderei che anche l'arte del calcolo è tra le arti che particolarmente operano mediante la parola. E se quello insistesse: "Ma qual è il suo oggetto?", risponderei: tra l'aritmetica e il calcolo, "salvo il resto, non v'è alcuna differenza", se-[c] condo la formula usata da chi emenda un pubblico decreto, ché anche il calcolo ha per oggetto il pari e il dispari, solo che differisce dall'aritmetica per il fatto che il calcolo ha per oggetto la riflessione sulle rispettive quantità del pari e del dispari; sia prese in se stesse sia nei loro reciproci rapporti. E se, infine, quel tale m'interrogasse sull'astronomia e, dopo avere io risposto che anche l'astronomia attua il proprio scopo mediante la parola, aggiungesse: "Ma, Socrate, qual è l'oggetto cui si riferiscono i discorsi dell'astronomia?", risponderei: il moto degli astri, del sole, della luna, e la velocità relativa dei loro movimenti. GORG. Esatte sarebbero le tue parole, Socrate! SOCR, [d] E ora a te, Gorgia! La retorica, dunque, è, tra le arti, una di quelle che trovano esclusivamente il loro principio nella parola e mediante la parola realizzano il proprio scopo, o no? GORG. Proprio così! SOCR. E allora, dimmi: qual è l'oggetto della retorica? Quale, tra le cose che sono, l'oggetto dei discorsi retorici? GORG. Le più importanti, le migliori cose umane, Socrate.

VII. SOCR. Ma, Gorgia, anche queste tue parole sono [e] equivoche e nient'affatto chiare. Senza dubbio credo che tu abbia ascoltato cantare nei conviti quello scolio, in cui si dice che, tra i beni, primo fra tutti è da porre la salute, poi la bellezza, in terzo luogo, come dice l'autore, la ricchezza acquisita senza frode. GORG. L'ho ascoltato sì! Ma dove vuoi parare, dicendo questo? SOCR. Al fatto [452a] che, sùbito, ti troveresti contro gli artefici di quei beni cantati dal poeta dello scolio, il medico, il maestro di ginnastica e il crematista [l'uomo d'affari] ; e il medico, prendendo per primo la parola, direbbe: "Socrate, Gorgia t'inganna: non la sua, ma la mia, è l'arte che procura all'uomo il massimo dei beni". E se gli chiedessi: "Ma tu, chi sei, per poter dire questo?", forse risponderebbe: "Un medico". "E in che senso lo dici? perché l'effetto della tua arte è il più grande dei beni?". "Senza dubbio, Socrate, risponderebbe, dal momento che si tratta della salute! Quale [b] bene più alto può esservi per l'uomo?". E se dopo il medico prendesse la parola il maestro di ginnastica, dicendo: "Anch'io, Socrate, resterei stupito se Gorgia riuscisse a dimostrarti d'esser capace di realizzare, mediante la sua arte, un bene più grande di quel che sia capace io con la mia", anche a lui direi: "Ma tu, uomo, chi sei? e quale è l'opera tua?". "Maestro di ginnastica, risponderebbe, e la mia opera consiste nel fare belli e forti i corpi umani". Dopo il maestro di ginnastica, credo, prenderebbe la parola l'uomo [c] d'affari, guardando tutti dall'alto in basso: "Vedi un po', Socrate, se in Gorgia, o in qualsivoglia altro uomo, puoi trovare un bene maggiore della ricchezza". E volgendoci a lui gli diremmo: "E che? sei tu artefice di ricchezza?". "Sì". "E cosa sei?"; "Uomo d'affari". E noi: "Giudichi che la ricchezza sia per gli uomini il bene più grande?". "Certamente", risponderà. "Eppure, aggiungeremo noi, anche Gorgia sostiene, di contro, che la propria arte è causa di un bene maggiore di quello di cui [d] è causa la tua". Evidentemente l'uomo d'affari domanderebbe allora: "In che consiste tale bene? Gorgia risponda!". Sù via, Gorgia, supponi d'essere interrogato da quei tali e da me, e rispondi, dicendo in che consiste ciò che tu sostieni essere il bene maggiore per l'uomo, e di cui dichiari d'essere artefice. GORG. E' veramente il bene più grande, Socrate, e, ad un tempo, causa di libertà per gli uomini, e, insieme, di dominio sugli altri nella propria città. SOCR. Sì, ma che vuoi dire? GORG. Intendo la [e] capacità di persuadere, mediante discorsi, in tribunale i giudici, nel buleuterio i consiglieri, nell'assemblea i cittadini riuniti, e così in ogni altra riunione che abbia un carattere politico. Possedendo una tale capacità farai tuo schiavo il medico, farai tuo schiavo il maestro di ginnastica, mentre chiaro risulterà che quel tal uomo d'affari riuscirà ad accumulare ricchezze non per sé, ma per gli altri, per te che sai parlare e persuadere la massa.

VIII. SOCR. Ora sì, Gorgia, ora mi sembra che tu abbia [453a] chiarito molto meglio cosa tu intenda con arte retorica, e, se ti ho ben capito, sostieni che la retorica è fattrice di persuasione e che tutta la sua opera e la sua stessa essenza hanno questo fine; o puoi affermare che le possibilità della retorica vanno oltre tale scopo, oltre la capacità di produrre persuasione nell'animo degli ascoltatori? GORG. Oh no, Socrate! Mi sembra, anzi, che tu l'abbia definita perfettamente. Tale è l'essenza della retorica. SOCR. E ora ascoltami, Gorgia! Devi sapere che se altri esiste, il [b] quale si metta a discutere con la ferma volontà di rendersi chiaramente conto di quello che sia l'argomento del discorso, ebbene, sono convinto che uno di questi sono proprio io, e anche tu, voglio credere. GORG. E con questo, Socrate? SOCR. Ti dirò sùbito. In cosa consista codesta persuasione, di cui tu parli, frutto della retorica, e a cosa essa persuada, sappi che davvero non lo so con chiarezza, anche se credo di supporre quale ne sia, secondo te, la natura e quale l'oggetto. Nonostante ciò ti pregherò di volermi dire tu stesso in che consiste, secondo te, questa [c] persuasione frutto della retorica e in quali campi essa operi. Ma perché, pur supponendo il tuo pensiero, lo chiederò a te e non lo dico io stesso? Non lo faccio per te, ma in funzione del discorso, perché così esso proceda in modo da farci risultare quanto più è possibile chiaro il nocciolo dell'argomento. Guarda un po', dunque, se non ti sembra giusto che io ti ponga delle domande. Se, per esempio, ti avessi chiesto che tipo di pittore è Zeusi e tu mi avessi risposto: "Un pittore di figure animate", avrei, o no, il diritto di chiederti quali figure dipinge? GORG. Senza dubbio. SOCR. Per questo, forse, ché vi sono altri pit-[d] tori che dipingono molte altre specie di figure viventi? GORG. Sì. SOCR. E se, invece, nessun altro, all'infuori di Zeusi dipingesse, avresti risposto correttamente? CORG. Come no? SOCR. E allora, anche rispetto alla retorica, dimmi: secondo te, solo la retorica ha la funzione di persuadere, o anche altre arti? Voglio dire: chiunque, qualsiasi cosa insegni, di ciò che insegna persuade, oppure no? GORG. Senza dubbio, Socrate, persuade e sopra tutti. SOCR. [e] E allora veniamo di nuovo a quelle arti, di cui parlavamo sopra: l'aritmetica e chi si occupa di aritmetica non c'insegnano le proprietà dei numeri? GORG. Esatto. SOCR. L'aritmetica ha, dunque, una funzione persuasiva? GORG. Sì. SOCR. Ma allora, anche l'aritmetica è artefice di persuasione? GORG. Evidente. SOCR. Se qualcuno ci domandasse, dunque, di quali specie di persuasione si tratta e quale ne sia l'oggetto, risponderemo che si tratta della persuasione relativa all'insegnamento delle quantità [454a] pari e dispari. E così potremmo dimostrare che tutte le altre arti, precedentemente enumerate, sono artefici di persuasione, e dire di che specie di persuasione si tratta e quale ne sia l'oggetto. O no? GORG. Sì. SOCR. Non la sola retorica, dunque, è artefice di persuasione. GORG. Vero!

IX. SOCR. E allora, poiché non la sola retorica, ma anche altre arti producono tale effetto, abbiamo il diritto, come nel caso del pittore, di porre al nostro interlocutore un'ulteriore domanda, e chiedergli: quale specie di persuasione si realizza mediante la tecnica retorica e di cosa per-[b] suade? Non ti pare giusto aggiungere una tale domanda? GORG. Sì. SOCR. E allora rispondi, Gorgia, dal momento che anche tu lo ritieni giusto. CORG. Sostengo, Socrate, che la persuasione retorica è quella che ha luogo nei tribunali e in altri luoghi ove si riunisce la folla, come già prima dicevo, e che oggetto di tale persuasione è il giusto e l'ingiusto. SOCR. Supponevo anch'io, Gorgia, che tu pensassi a questo tipo di persuasione e a questo genere di argomenti: ma perché non ti sembri curioso se, tra un momento, ti farò ancora qualche domanda sullo stesso [c] punto che pur sembra tanto chiaro, ebbene, ripeto, non lo faccio per te, ma perché il discorso proceda con ordine in tutti i suoi passaggi, e perché non si prenda l'abitudine di procedere per supposizioni e di strapparci l'un l'altro la parola di bocca, ma tu possa svolgere il tuo pensiero come vuoi entro i termini della tua ipotesi. GORG. Mi sembra, Socrate, che il tuo procedimento sia esatto. SOCR. Avanti, allora, ed esaminiamo quest'altro punto. C'è qualcosa che tu chiami ‘sapere scientifico'? GORG. Sì. SOCR. E ancora, c'è qualcosa che chiami ‘credere'? GORG. Io sì! SOCR. E secondo te, sapere scientifico e credere, [d] scienza e credenza, sono una stessa cosa o cose diverse? GORG. Personalmente, Socrate, credo che siano diverse. SOCR. Giusto, e potrai convincertene con questa osservazione. Se uno ti chiedesse: "Gorgia, può esserci credenza falsa e credenza vera?", tu, secondo me, dovresti rispondere di sì. GORG. Sì. SOCR. Ancora: può esserci una scienza falsa e una scienza vera? GORG. Assolutamente no! SOCR. E' chiaro, dunque, che credenza e scienza non sono la stessa cosa. GORG. Vero! SOCR. [e] Eppure tanto coloro che sanno, quanto coloro che credono, sono persuasi. GORG. Proprio così! SOCR. Vuoi allora che poniamo due specie di persuasione, l'una dovuta alla credenza non accompagnata da sapere, l'altra frutto di scienza? GORG. Senz'altro! SOCR. Ma quale delle due specie di persuasione è quella dovuta alla retorica nei tribunali e nelle altre pubbliche riunioni in relazione al giusto e all'ingiusto? La persuasione da cui proviene il credere non accompagnato dal sapere, o l'altra specie di persuasione, quella dovuta al sapere? GORG. Evidentemente, Socrate, quella da cui si genera la credenza. SOCR. La retorica, dunque, a quanto pare, è sul giusto e [455a] l'ingiusto, fattrice di persuasione fondata sul credere e non di persuasione fondata sull'insegnamento. GORG. Sì. SOCR. Neppure il rètore, dunque, è maestro nei tribunali e nelle altre pubbliche riunioni per ciò che riguarda il giusto e l'ingiusto, ma suggerisce solo una certa credenza. D'altra parte, in sì breve tempo, non potrebbe certo veramente istruire tanto grande massa di gente su tanto alte questioni. GORG. Evidentemente no!

X. SOCR. Sù via, allora, vediamo un po' cosa mai diciamo della retorica, ché ancora non riesco a capire con [b] esattezza ciò di cui sto parlando. Quando, per esempio, si convoca in città un'assemblea per eleggere medici o ingegneri navali o qualsiasi altro genere di tecnici, potrà mai avvenire che il rètore dia pareri? In ogni elezione di questo genere, è chiaro, va scelto il più competente davvero. E quando si debba discutere sull'opportunità di costruire mura, o un porto, o un arsenale, non saranno i rètori a dare pareri, ma gli architetti. E così, quando si tratta di eleggere uno stratega, o di preparare un piano [c] tattico in guerra, o di conquistare luoghi fortificati, anche in tal caso non i rètori, ma i competenti di strategia daranno pareri. Gorgia, che ne dici? Poiché tu stesso dichiari d'essere rètore e capace di formare rètori anche gli altri, proprio da te dobbiamo sapere in che consiste la tua arte. Credimi, in questo momento faccio anche il tuo interesse! Sì, perché qui, tra i presenti, si dà forse il caso vi sia qualcuno che vorrebbe diventare tuo discepolo; anzi, mi accorgo che ve ne sono parecchi, ma, probabilmente, [d] non osano rivolgerti domande. Supponi, dunque, che mentre io t'interrogo siano essi stessi ad interrogarti: "Quale beneficio, Gorgia, ricaveremo venendo alla tua scuola? Su quali mai questioni diverremo capaci di consigliare la città? soltanto sul giusto e sull'ingiusto, o anche su quegli argomenti di cui Socrate parlava appena ora?". Cerca, dunque, di rispondere loro. GORG. Sì, Socrate, cercherò di mettere in chiaro tutta la potenza della retorica: tu stesso, anzi, mi hai indicato benissimo la via! Senza dubbio tu sai che questo arsenale, le mura di Atene, [e] la sistemazione dei porti, sono tutte opere dovute al consiglio di Temistocle ed in parte al consiglio di Pericle, non a quello dei tecnici. SOCR. Sì, Gorgia, so che di Temistocle si dice questo; quanto a Pericle, l'ho ascoltato con le mie stesse orecchie mentre consigliava la costruzione delle mura di mezzo. GORG. Vedi bene, Socrate, che [456a] anche quando si tratta di una di quelle scelte, cui sopra accennavi, sono i rètori che dànno pareri e fanno prevalere le proprie opinioni in materia. SOCR. Eh già, Gorgia! e me ne stupisco! ecco perché già da un pezzo vo domandando quale mai sia la potenza della retorica. Oh certo, a guardarne così la grandezza, quasi divina mi appare!

XI. GORG. E se tu sapessi tutto, Socrate, [ti meraviglie-[b] resti] che la retorica in sé comprenda, per così dire, tutte le potenze e tutte le abbia in suo dominio. Te ne darò una notevole prova: più di una volta, insieme a mio fratello e ad altri medici, andato a casa di qualche ammalato, che non voleva bere la medicina o si rifiutava di farsi tagliare o cauterizzare dal medico, mentre il medico non riusciva a persuaderlo ci riuscii io, con nessun'altra arte se non con la retorica. Ecco perché posso dire che in qualsivoglia città vadano un rètore e un medico, se una discussione si aprisse nell'assemblea popolare o in un'altra riunione qualsiasi, per decidere quale dei due debba essere scelto in qualità di medico, il medico non comparirebbe affatto, [c] mentre il rètore, se lo volesse, verrebbe eletto. E così, se il rètore si trovasse a concorrere con qualsiasi altro tecnico, più di ogni altro riuscirebbe a farsi scegliere, poiché non v'è materia su cui non riesca più persuasivo di qualsiasi competente di fronte a una massa di persone: tale e tanto grande è la potenza dell'arte. Certo, Socrate, bisogna usare la retorica come si usa una qualsiasi altra tecnica agonistica. Ogni altra tecnica agonistica non si deve, infatti, indiscriminatamente usare contro tutti: chi abbia [d] appreso il pugilato o il pancrazio o il maneggio delle armi, sì da essere superiore a tutti, amici e nemici, non per questo deve colpire, ferire, uccidere gli amici. D'altra parte, per Zeus, se uno abbia frequentato a lungo le palestre, e, fisicamente robusto, sia divenuto pugile, e per tale sua forza si metta poi a battere il padre, la madre, gente di casa, [e] amici, non per questo dobbiamo odiare ed espellere dalle città i maestri di ginnastica e di armi. In realtà tali maestri hanno trasmesso l'arte, perché i discepoli ne facessero un giusto uso contro i nemici, contro chi agisce ingiustamente, per difendersi non per offendere: solo che certi discepoli rovesciano in male l'uso della propria forza e dell'arte. [457a] Non i maestri sono, dunque, i malvagi, né, per questo, colpevole e malvagia è l'arte loro, ma colpevole, penso, è chi non usa l'arte rettamente. Lo stesso discorso si ripeta ora per la retorica. Il rètore è, senza dubbio, in grado di parlare contro tutti su tutto, sì da persuadere, in breve, la massa su tutto quello che vuole: solo che non deve per [b] questo, perché ne ha le possibilità, distruggere la reputazione dei medici e degli altri professionisti, anzi deve fare uso della retorica secondo giustizia, sì come, dico, si deve usare ogni altra arma. Se poi uno, divenuto abile rètore, usa tale sua potenza e tale sua arte per fare il male, non per questo, io penso, dobbiamo odiare il maestro ed [c] espellerlo dalla città. Il maestro ha trasmesso la propria arte per una giusta causa, l'altro ne fa, invece, l'opposto uso. Giusto è, dunque, odiare, esiliare, uccidere chi dell'arte faccia uso scorretto, non chi se ne sia, fatto maestro.

XII. SOCR. Gorgia, penso che anche tu sia esperto di molte discussioni e che avrai osservato quanto sia difficile che gl'interlocutori scambievolmente definiscano ciò di cui si accingono a discutere, sì che alla fine si lascino dopo avere, a vicenda, imparato e insegnato: se discutono, invece, su di un argomento senza reciprocamente dichiararsi se corrette siano le parole, oppure non siano chiare, si irri-[d] tano, e pensano che l'altro parli in tal modo per malevolenza, sì che la loro discussione, più che razionale esame di un problema, viene ad essere una disputa la cui molla è il desiderio di vincere. Alcuni finiscono anche col separarsi in modo assai villano, dopo essersi offesi, dopo avere lanciato e ricevuto insulti tali che gli stessi presenti restano umiliati e disgustati d'essersi trovati ad ascoltare simile gente. Ma per quale ragione dico questo? Perché mi sembra [e] che tu, ora, non dica cose in accordo e in armonia con quelle che prima dicevi sulla retorica. Ho, dunque, paura di confutarti; temo che tu possa ritenere ch'io ti contraddica non per desiderio di chiarire sempre meglio il problema, [458a] ma per astio nei tuoi confronti. Solo dunque se tu sei quale sono io, solo allora t'interrogherò con piacere: se no, è meglio abbandonare la discussione. Ma come sono io? Io sono uno che con piacere mi lascio confutare se non dico la verità, che con piacere confuto, se altri non dice il vero, e che, senza dubbio, accetto d'essere confutato con un piacere non minore di quello che provo confutando. Infatti, ritengo l'esser confutato come un maggior beneficio, tanto maggiore, quanto è meglio essere liberati dal male più grande che liberarne altri. In realtà, non v'è male più grande, per l'uomo, di una falsa opinione sull'argomento [b] di cui stiamo discutendo adesso. E allora, concludendo, se anche tu dichiari di essere quale sono io, discutiamo; se, invece, pensi sia meglio smettere, lasciamo andare e poniamo fine al discorso. GORG. Ma Socrate, lo dichiaro: sono anche io un uomo del tipo che hai indicato tu. Ad ogni modo dovremmo forse pensare alle persone qui presenti. Già da un pezzo, prima del vostro arrivo, ho tenuto loro una lunga conferenza, e se ora ci poniamo a discutere andremo assai per le lunghe. Bisogna, dunque, preoccu-[c] parci anche di loro, per non trattenerne alcuni che vogliano fare qualche cos'altro.

XIII. CHER. Gorgia, Socrate, dall'applauso voi stessi sentite che il pubblico desidera ascoltare le vostre parole; nel mio caso, comunque, mai e poi mai mi càpiti tale impedimento, per cui mi si presenti qualche altra cosa tanto più importante da fare, che per simile ragione debba abbandonare discorsi e interlocutori di tal fatta! CALL. Per gli [d] dèi, Cherefonte, io stesso, che pur ho assistito a tanti discorsi, non saprei se, prima d'ora, ho mai provato tanto diletto! se volete, dunque, discutere anche per un intero giorno, a me farete un grande piacere. SOCR. Sì, Callicle, nulla da obbiettare da parte mia, se anche Gorgia è d'accordo! GORG. Sarebbe proprio una vergogna, Socrate, se, ora, proprio io mi rifiutassi, io che ho dichiarato d'esser pronto a rispondere a qualsiasi domanda. Se, dunque, a loro così sembra, riprendi la discussione e poni [e] pure le domande che vuoi. SOCR. Ascolta, Gorgia, quello che nel tuo ragionamento mi ha stupito: ma, forse, tu hai detto cose giuste e sono stato io a non aver capito bene. Tu sostieni, dunque, di avere la capacità di formare rètore chiunque voglia apprendere l'arte da te. GORG. Sì. SOCR. E in modo tale che su ogni soggetto sia possibile convincere una gran folla riunita, non insegnando, ma persuadendo? GORG. Senza dubbio. SOCR. Ma [459a] appena un momento fa dicevi che anche su questioni relative alla salute il rètore sarebbe più persuasivo del medico. GORG. L'ho detto sì, ma qualora ci si trovi dinanzi a una folla riunita. SOCR. Ma questo ‘dinanzi a una folla riunita', significa dire ‘di fronte a ignoranti'? Poiché, senza dubbio, dinanzi a chi sappia, il rètore non riuscirebbe più persuasivo del medico. GORG. Vero. SOCR. Se il rètore sarà, dunque, più persuasivo del medico, sarà perciò più persuasivo di chi sa? GORG. Certamente. SOCR. Pur non essendo medico! o no? GORG. Sì. SOCR. [b] Ma chi non è medico non ha scienza di ciò in cui è competente il medico. GORG. Evidente. SOCR. Quando dunque il rètore è più persuasivo del medico, in realtà è chi è ignorante tra ignoranti che sarà più persuasivo di chi ha scienza. Accade questo o no? GORG. Sì, questo, almeno in simili circostanze. SOCR. Tale la condizione propria del rètore e della retorica, anche rispetto a tutte le altre arti: non c'è nessun bisogno che la retorica conosca i [c] contenuti; le basta avere scoperto una certa qual tecnica di persuasione, sì da potere apparire ai non competenti di saperne di più dei competenti.

XIV. GORG. E non è questa, Socrate, una gran facilitazione? non avendo appreso le altre arti, ma questa sola, non essere affatto inferiore ai tecnici? SOCR. Se tale sia la ragione per cui il rètore è o no inferiore agli altri, lo esamineremo dopo, qualora il nostro ragionamento lo richieda; ora, invece, cerchiamo di vedere se pur nei con-[d] fronti del giusto e dell'ingiusto, del brutto e del bello, del bene e del male, il rètore si trovi nelle stesse condizioni in cui si trova nei confronti della salute e dei contenuti delle altre arti, e cioè di non sapere cosa sia il bene e il male, il bello e il brutto, il giusto e l'ingiusto, ma solo abbia escogitato un qual certo strumento di persuasione, sì che, pur non sapendo, sembri, tra gl'ignoranti, di sapere [e] più di chi veramente sa? Oppure è necessario che sappia e deve avere già appreso queste cose prima di venire da te con l'intenzione di studiare la retorica? Se no, tu, maestro di retorica, non insegnerai affatto queste cose al nuovo discepolo - non è affar tuo -, ma farai sì ch'egli appaia alla folla come se, pur ignorandole, le sappia, e, pur senza esserlo, appaia buono? O non sarai affatto in grado d'insegnare la retorica a chi prima non conosca la verità su questi argomenti? Insomma, Gorgia, come stanno, in realtà, le cose? in nome di Zeus, svelaci, come già prima avevi [460a] detto, quale sia la natura della retorica e quali siano le sue possibilità! GORG. Ma io, Socrate, credo che se uno viene non sapendo certe cose, anche queste apprenderà da me. SOCR. Un momento! Hai detto una cosa giustissima! Perché tu possa formare un rètore, è necessario che il discepolo sappia in che consiste il giusto e l'ingiusto, sia che già lo sappia, sia che lo apprenda da te. GORG. Esatto! [b] SOCR. Ancora, chi ha studiato architettura è architetto, no? GORG. Sì. SOCR. E musico chi ha studiato musica? GORG. Sì. SOCR. Medico chi ha studiato medicina? E così via per ogni altra disciplina, per cui chi abbia appreso un determinato sapere è tale quale, appunto, quel sapere lo rende? GORG. Esattamente. SOCR. E allora, secondo tale ragionamento, chi ha studiato il giusto è giusto? GORG. Senza dubbio. SOCR. E il giusto agisce giustamente? GORG. Sì. SOCR. Ma allora chi ha studiato retorica è [c] necessariamente giusto? e non è forse vero che il giusto non può volere agire che secondo giustizia? GORG. Sembrerebbe. SOCR. Mai l'uomo giusto vorrà, dunque, commettere ingiustizia. GORG. Per forza! SOCR. Secondo il ragionamento seguito il rètore è per forza giusto. GORG. Sì. SOCR. Mai, dunque, il rètore vorrà commettere ingiustizia. GORG. Sembrerebbe di no.

XV. SOCR. Ricordi quello che poco fa dicevi? che non [d] si deve accusare, non si deve espellere dalla città i maestri di ginnastica, se un pugile abusi della propria arte per un ingiusto fine? E che così, nello stesso senso, se un rètore fa ingiusto uso della retorica, non il maestro si deve accusare ed esiliare, ma chi abbia commesso ingiusto atto e non abbia rettamente usato la retorica? Si è, o no, detto questo? GORG. E' stato detto! SOCR. Ora, invece, ci [e] risulta che questo stesso rètore non può mai agire ingiustamente, o no? GORG. Sembra! SOCR. Ebbene, Gorgia, al principio della nostra discussione, avevamo detto che ciò di cui si occupa la retorica sono i discorsi, non quelli sul pari e sul dispari, ma i discorsi sul giusto e sull'ingiusto. E' vero? GORG. Sì. SOCR. Io, allora, sentendoti parlare in questo modo, avevo creduto di capire che mai la [461a] retorica avrebbe potuto essere ingiusta, dal momento che nei suoi discorsi tratta sempre di giustizia. Ma quando, sùbito dopo, hai detto che il rètore può fare anche ingiusto uso della retorica, io, stupito, e convinto che tu fossi caduto in contraddizione tra ciò che avevi detto prima e ciò che avevi detto poi, dichiarai che se tu eri d'accordo con me nel sostenere che è un bene essere confutato, meritava il conto di continuare a discutere, altrimenti sarebbe stato meglio smettere. Proseguendo poi il nostro esame, vedi tu stesso che ci siamo trovati d'accordo nell'affermare che non è possibile che il rètore faccia un ingiusto uso della [b] retorica e voglia commettere ingiustizia. Per il cane, Gorgia, è un argomento questo che richiede una non breve seduta per essere esaminato a dovere.

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XVI. POLO. Ma come, Socrate! E' davvero questa la tua opinione sulla retorica? Questa che ora dici? Oppure credi - proprio perché Gorgia si è vergognato di non concederti che il rètore conosce il giusto, il bello, il buono, e che se qualcuno va da lui senza saperne nulla, egli glielo insegna: sì, perché da tale concessione è saltato fuori un [c] che di contraddittorio, e tu peraltro godi quando spingi a simili questioni! perché chi credi, dunque, che potrebbe negare di conoscere il giusto e di poterlo insegnare ad altri? Ma, certo, spingere a queste conclusioni i discorsi è indice di molta scortesia! SOCR. Gentilissimo Polo, ma se proprio per questo ci procuriamo compagni e figliuoli, perché, quando divenuti vecchi cominciamo a vacillare, voi giovani siate lì per correggere la nostra vita, tanto negli atti quanto nelle parole! Anche ora, dunque, [d] se io e Gorgia andiamo vacillando nel nostro dire, sii tu qui presente a correggerci: è tuo dovere! e se ti sembra che su certe questioni abbiamo erratamente concluso, personalmente almeno sono pronto a ritirare tutto quello che vuoi, se tu mi rassicuri su di un solo punto. POLO. Quale? SOCR. Che tu, Polo, tenga a freno quella macrologia che prima avevi cominciato ad usare. POLO. Ma come! non mi sarà permesso dire tutto quello che voglio? SOCR. [e] Una bella disgrazia davvero ti capiterebbe, ottimo amico, se, venuto ad Atene, la città greca ove regna la più ampia libertà di parola, tu solo ne avessi a mancare! Ma vedi un po' l'altra faccia della questione: se fai lunghi discorsi e non vuoi rispondere alle mie domande, non capiterebbe [462a] a me la bella disgrazia di non potermene andare e di non potere fare a meno di ascoltarti? Se ti sta, invece, a cuore questo nostro discorso e t'interessa renderlo più corretto, rimetti pure in discussione, come ora dicevo, tutto quello che vuoi, e, in parte interrogando, in parte essendo interrogato, come abbiamo fatto io e Gorgia, confuta e lasciati confutare. Certo, tu affermerai di saperne quanto Gorgia, è vero? POLO. Sicuro! SOCR. E anche tu inviti, certo, a rivolgerti qualsivoglia domanda, sicuro di poter rispondere? POLO. Senza dubbio! SOCR. [b] E allora, anche adesso, fai quello che più ti piace delle due: interroga o rispondi.

XVII. POLO. Va bene, lo farò: rispondimi, Socrate! Poiché a te sembra che Gorgia si trovi in un vicolo cieco rispetto alla retorica, dicci tu che cosa essa sia. SOCR. Tu mi chiedi, cioè, che specie d'arte io ritenga essere la retorica? POLO. Sì. SOCR. Secondo me, Polo, se debbo proprio dirti la verità, non è un'arte. POLO. Ma cosa, allora, ti sembra la retorica? SOCR. Un dato che tu sostieni di avere trasformato in arte in un tuo trattato, del quale [c] ho preso conoscenza da poco. POLO. E cioè? SOCR. Una qual certa esperienza, direi. POLO. Tu pensi, dunque, che la retorica sia esperienza? SOCR. Sì, se altro tu non sostieni! POLO. Ma che tipo di esperienza sarebbe? SOCR. Quell'esperienza che suscita in noi un qual certo diletto e piacere. POLO. Bella, dunque, a te sembra la retorica, per questa sua capacità di far piacere alla gente? SOCR. Ma via, Polo! sei già venuto a sapere cosa io dica [d] essere la retorica, che sei bell'e passato a chiedermi se non mi sembri bella? POLO. Ma non ti ho sentito dire ora che secondo te è un'esperienza? SOCR. E allora, dal momento che tanto ami renderti gradito, vorresti usarmi un piccolo favore? POLO. Certo! SOCR. Chiedimi, dunque, ora, in che cosa, secondo il mio parere consiste l'arte del cucinare. POLO. Ecco, ti chiedo: in che consiste l'arte del cucinare? SOCR. Non è un'arte, Polo. POLO. Ma cos'è allora? Parla! SOCR. Sì, e dico che è una qual certa esperienza. POLO. E di che tipo? Dimmi! SOCR. Un'esperienza che suscita in noi diletto e piacere, Polo. POLO. [e] Culinaria e retorica sono, dunque, la stessa cosa? SOCR. No, certo! sebbene la culinaria sia parte di una stessa professione. POLO. Di quale? SOCR. Non vorrei fosse troppo scortese dire la verità, e perciò esito a parlare, per un riguardo a Gorgia: non pensi che io prenda in giro la sua professione! E poi, neppure so se la retorica di cui parlo [463a] sia la retorica che Gorgia professa, ché dal nostro discorso non è affatto venuto in luce ciò che davvero egli ne pensi. Senza dubbio, comunque, la retorica di cui parlo io è parte di una cosa niente affatto bella. GORG. Di quale cosa, Socrate? Parla pure, senza avere ritegno per me!

XVIII. SOCR. Sì, Gorgia, a me sembra che la retorica sia un'attività estranea all'arte, pur richiedendo spirito che sa colpire nel segno, coraggio e una naturale disposizione nei rapporti umani. Nel suo nocciolo, insomma, io chiamo [b] la retorica ‘adulazione'. Molte sono poi, mi sembra, le parti dell'adulazione, e una di queste è l'arte della cucina. Ha l'apparenza di un'arte, ma, penso, arte non è, bensì esperienza ed esercizio. Parte di questa io chiamo la retorica, sì come parte n'è il saper vestire e parte la sofistica: quattro parti per quattro oggetti. Se ora Polo vuole avere spiegazioni, le chieda, poiché ancora non sa quale parte [c] dell'adulazione io sostengo essere la retorica: solo che Polo non se n'è reso conto e passa a domandarmi se non la ritenga una bella cosa. Ma io non potrò rispondergli, non potrò dirgli se la ritenga bella o brutta, se prima non avrò risposto su ciò che la retorica è. Non sarebbe giusto, Polo! se vuoi spiegazioni, invece, chiedi pure quale parte dell'adulazione sia secondo me la retorica. POLO. E io te lo chiedo, e tu rispondimi quale parte sia. SOCR. Ma [d] riuscirai a capire la mia risposta? La retorica, secondo il mio pensiero, è un idolo, di una parte della politica. POLO. Ma che vuoi dire con questo? Intendi dire che è bella o brutta? SOCR. Brutta, secondo me - brutto io chiamo tutto quello che è male - , dal momento che ti si deve rispondere come se tu già sapessi quello che penso. GORG. Per Zeus, Socrate! io neppure capisco quello che [e] dici. SOCR. Naturale, Gorgia! Non ho ancora detto nulla con chiarezza, e il nostro Polo è così giovane ed impetuoso. GORG. E tu lascialo da parte, e rispondimi su cosa intendi dire quando affermi che la retorica è un idolo di parte della politica. SOCR. Cercherò di spiegarti quello che mi sembra essere la retorica; se sbaglio, Polo mi con-[464a] futerà. C'è qualcosa che tu chiami corpo e qualcosa che chiami anima? GORG. Come no? SOCR. E sia per l'anima sia per il corpo, ritieni esservi uno stato di buona salute? GORG. Io sì! SOCR. Ancora: e anche un apparente, ma non reale buono stato di salute? Voglio dire vi sono molti che, in apparenza, sono fisicamente in buone condizioni di salute e difficilmente altri, se non il medico o il maestro di ginnastica, si accorgerebbe che non lo sono. GORG. Vero! SOCR. Tale situazione, dico, può trovarsi [b] tanto nel corpo quanto nell'anima, sì che il corpo e l'anima sembrano in buono stato pur non essendolo. GORG. Proprio così!

XIX. SOCR. Sù via, cercherò ora, se posso, di rendere più chiaro il mio pensiero. Se due sono queste cose, due, dico, ne sono le arti: chiamo politica l'arte che si riferisce all'anima, mentre quella che si riferisce al corpo non saprei ugualmente designartela con un nome solo, ma, pur essendo in realtà una sola la cura del corpo, distinguo due parti, la ginnastica e la medicina. Nella politica alla ginnastica corrisponde la legislazione, mentre alla medicina fa da anti-[c] strofe l'amministrazione della giustizia. Ciascuna coppia - medicina e ginnastica, amministrazione della giustizia e legislazione - ha molte cose in comune, perché gli elementi di ciascuna coppia si riferiscono al medesimo oggetto, anche se, per altro verso, essi differiscono tra di loro. L'adulazione, accortasi di queste quattro arti, così costituite e volte sempre a curare nella maniera migliore le une il corpo le altre l'anima - non per via conoscitiva, dico, ma per congettura - si divise essa stessa in quattro, e, strisciando sotto ciascuna delle quattro parti corrispondenti, [d] simula d'essere quella certa parte sotto cui si è insinuata e, senza affatto preoccuparsi del meglio, ma sempre con dilettosi mezzi, caccia ed inganna l'ignoranza, sì da apparire cosa di supremo valore. Sotto la medicina scivolò la culinaria, che simula di sapere quali siano i migliori cibi per il corpo, onde se un medico e un cuoco dovessero scendere in gara, in mezzo a ragazzi o a uomini che, come ragazzi, siano senza senno, [perché si giudichi] su chi dei [e] due conosca meglio la buona o la dannosa qualità dei cibi, il medico morirebbe di fame. Ecco, dunque, quello [465a] che io chiamo ‘adulazione' e la dico una gran brutta cosa, Polo - è a te che mi rivolgo -, perché, senza preoccuparsi affatto del meglio, è tutta tesa al piacere soltanto; né arte io la dico, ma esperienza, poiché non ha nessuna razionale comprensione della natura delle cose cui si riferisce, in virtù della qual comprensione possa, appunto, riferirsi: ecco perché non sa di ciascuna cosa indicare la causa. Io, perciò, non chiamo arte un dato che tale resti, un dato cioè senza ragione. E se ora hai da muovermi obbiezioni su tutto questo, sono pronto a rendertene ragione.

[b] XX. Alla medicina, dunque, ripeto, corrisponde quella forma di adulazione che è la culinaria; alla ginnastica, nello stesso modo, il saper vestire, dannosa cosa, ingannevole, ignobile, servile, che ingannando seduce con forme esterne, colori, unguenti, stoffe, e che, correndo dietro a una allotria bellezza, fa trascurare la bellezza autentica che solo si ottiene mediante la ginnastica. Ed ora, per non fare un troppo lungo discorso, voglio dirti, usando il linguaggio dei cultori di geometria - oramai dovresti seguirmi -, che il sa-[c] per vestire sta alla ginnastica come la sofistica sta alla legislazione, e che la culinaria sta alla medicina come la retorica sta all'amministrazione della giustizia. Tuttavia, come già ho detto, sebbene tali parti si distinguano tra di loro per natura, sono, comunque, in così stretta relazione, che sofisti e retori si confondono insieme, operando nello stesso campo, sì da non sapere più essi stessi che uso fare di sé, né gli altri che uso fare di loro. Sì, perché se l'anima non [d] governasse il corpo, ma fosse il corpo a governarsi da sé, e non fosse l'anima che esamina e giudica ciò che compete alla cucina e ciò che compete alla medicina, ma cucina e medicina fossero giudicate dal corpo sulla base delle delizie che ne riceve, ebbene ampio valore avrebbe il principio di Anassagora, amico Polo - tu di tale dottrina sei esperto -, e cioè che "tutte le cose, senza distinzione, sarebbero insieme confuse", poiché non vi sarebbe più possibilità di giudicare ciò che compete alla medicina, all'igiene, alla culinaria. Ebbene, hai ora ascoltato quello ch'io dico essere la retorica. Essa, sul piano dell'anima, [e] corrisponde a quello che, sul piano del corpo, corrisponde alla cucina. Io stesso, forse, ho commesso un atto fuori luogo, perché non avendo voluto permettere lunghi discorsi, mi sono, poi, dilungato tanto. Ho, comunque, una buona scusa, poiché quando facevo ragionamenti brevi non comprendevi e non sapevi fare uso delle mie risposte, [466a] ma avevi bisogno di spiegazioni. E allora se neppure io saprò servirmi delle tue risposte, dilungati anche tu, ché ne hai il diritto. Ed ora, se puoi, vedi un po' come usare questa mia risposta.

XXI. POLO. Ma che dici! Ti sembra davvero che la retorica sia "adulazione"? SOCR. Una "parte dell'adulazione", ho detto. Ma come, Polo, non lo ricordi, alla tua età? E ora che farai? POLO. Ma sul serio ti pare che i buoni rètori siano considerati nelle città quali vili adulatori? [b] SOCR. E' una domanda la tua, o il principio di un discorso? POLO. Una domanda. SOCR. Secondo me, allora, non sono presi neppure in considerazione. POLO. Ma come non sono considerati? Non hanno forse grandissimo potere nelle città? SOCR. Oh no, se vuoi dire che "potere" è un bene per chi sia potente! POLO. Ma è proprio questo che io voglio dire. SOCR. Minimo sembra, invece, a me il potere che hanno i rètori nelle città. POLO. Ma come? non è forse vero ch'essi, come i tiranni, mandano [c] a morte chi vogliono, confiscano beni, bandiscono dallo stato chi sembra loro? SOCR. Per il cane, Polo! ad ogni cosa che dici, non riesco a capire se parli per conto tuo ed esprimi il tuo punto di vista, o se m'interroghi. POLO. Ma io t'interrogo! SOCR. E va bene, amico mio! solo che allora tu mi stai ponendo due domande. POLO. Come due? SOCR. E non mi stavi dicendo proprio ora così:[d] "non è forse vero che i rètori, come i tiranni, mandano a morte chi vogliono, confiscano beni, bandiscono dallo stato chi sembra loro"? POLO. Sì.

XXII. SOCR. E io ti dico che queste sono due domande, e ti risponderò, prima all'una poi all'altra. Sì, Polo, io sostengo che rètori e tiranni hanno piccolissimo potere nelle città, come ora dicevo: nulla, se così possiamo dire, essi [e] fanno di ciò che vogliono, ma solo ciò che ad essi sembra. POLO. E non è questo avere un gran potere? SOCR. No, secondo quel che dice Polo. POLO. Io dico no? Ma se dico l'esatto contrario! SOCR. Per il ...! Tu dici no, appunto perché hai detto che avere gran potere è un bene per chi sia potente. POLO. Si, questo lo confermo. SOCR. E tu pensi sia un bene per un uomo fare ciò che meglio gli sembra, se non ha intelletto? Questo, tu chiami gran potere? POLO. Io no! SOCR. E allora, confutandomi, [467a] non dovrai dimostrare che i rètori hanno intelletto e che la retorica è un'arte, non un'adulazione? Ma se mi lascerai inconfutato, allora rètori e tiranni, che fanno nelle città quello che sembra loro, con tale potere non possederanno alcun bene, se è vero che il potere, come tu dici, è un bene, mentre fare senza intelletto quello che sembra, come tu stesso convieni, è un male. O no? POLO. Sì. SOCR. Com'è allora possibile che rètori e tiranni abbiano un gran potere nelle città, se Socrate non è prima convinto da Polo ch'essi fanno davvero quello che vogliono? POLO. [b] Ma quest'uomo...! SOCR. Io sostengo ch'essi non fanno quello che vogliono, e tu confutami. POLO. Ma non hai convenuto un momento fa ch'essi fanno ciò che sembra loro meglio? SOCR. Anche ora ne convengo. POLO. Non fanno, allora, quello che vogliono? SOCR. Lo nego. POLO. Ma fanno ciò che sembra loro? SOCR. Lo affermo. POLO. Paradossali cose, cose che fanno indignare tu dici, o Socrate! SOCR. Non accusare, mio carissimo Polo, per rivolgermi a te secondo il tuo stile! ma, se hai da pormi [c] domande, prova che mi inganno, e se no rispondi tu. POLO. Preferisco rispondere, anche per sapere che cosa dici.

XXIII. SOCR. Ti sembra che gli uomini vogliano quello che fanno volta a volta, o ciò in vista di cui fanno quello che fanno? Chi, ad esempio, beve una medicina, ordinatagli dal medico, vuole, secondo te, bere proprio quella medicina, che lo disgusta, o vuole ciò per cui beve la medicina, e, cioè, guarire? POLO. Evidentemente per guarire. [d] SOCR. Così anche chi va per mare, o esercita qualsiasi altro commercio, non vuole ciò che fa volta per volta - chi mai potrebbe volere esporsi ai rischi del mare, agli scomodi, alla fatica della navigazione? -, ma vuole ciò in vista di cui si mette per mare, e, cioè, arricchire. Per guadagno naviga la gente! POLO. Certamente. SOCR. E non accade sempre così in tutto? Chi fa qualcosa con uno scopo, non vuole quello che fa, ma ciò in vista di cui agisce? POLO. Sì. SOCR. Esiste una sola cosa che non sia o buona [e] o cattiva, o a mezzo tra l'una e l'altra, cioè né buona né cattiva? POLO. Assolutamente necessario, Socrate! SOCR. Tu dirai, senza dubbio, che sapienza, salute, ricchezza e altre simili doti sono un bene, un male le qualità contrarie? POLO. Certo! SOCR. Né buone né cattive dirai, invece, quelle cose che partecipano ora del bene [468a] ora del male, talvolta ancora né del bene né del male, come, ad esempio, lo stare a sedere, camminare, correre, navigare, oppure le pietra, il legno, e gli altri oggetti di questo genere? Non pensi così anche tu? O altro è ciò che chiami né buono né cattivo? POLO. No, ma questo! SOCR. Ebbene, le cose né buone né cattive metacu/ [metaxù] si compiono quando si compiono, in vista di quelle buone, o, viceversa, quelle buone in vista di quelle né buone né cattive? POLO. Senza dubbio né le buone né le cattive [b] in vista delle buone. SOCR. E allora cerchiamo sempre il bene, anche quando camminiamo, se camminiamo, poiché riteniamo che questo sia meglio, e, al contrario, quando stiamo fermi, se stiamo fermi, lo facciamo sempre con lo stesso scopo, per il bene. O no? POLO. Sì. SOCR. E così anche uccidiamo - se ci accade di uccidere -, mandiamo in esilio, confischiamo i beni di qualcuno, ritenendo che per noi sia meglio fare questo che non farlo. POLO. Senza dubbio. SOCR. Chiunque agisce, insomma, fa quello che fa in vista del bene. POLO. Lo affermo.

XXIV. SOCR. Ma non siamo rimasti d'accordo nel sostenere che tutto quello che facciamo per uno scopo non lo [c] vogliamo per sé, ma, appunto, per lo scopo cui tende? POLO. Esatto! SOCR. Non vogliamo, dunque, scannare, mandare in esilio, confiscar beni, così, per semplice gusto, ma se utile, se dannoso non lo vogliamo. Vogliamo il bene, come tu dici, non vogliamo ciò che non è né bene né male, né, tanto meno, il male. O no? Ti sembra, Polo, ch'io dica la verità o no? Perché non rispondi? POLO. La verità. [d] SOCR. Una volta accordatici su questo, se uno uccide o manda in esilio o confisca beni, tiranno o rètore che sia, pensando che per lui questo sia meglio, e gli accade invece che sia male, costui fa senza dubbio quello che gli sembra. O no? POLO. Sì. SOCR. Ma fa anche ciò che vuole, dal momento che quello che fa gli viene a danno? Perché non rispondi? POLO. Non mi sembra che faccia quel che vuole. SOCR. Già, ma come si potrà dire allora ch'egli abbia gran potere nella città, se il gran potere, come [e] tu stesso hai ammesso, è un bene? POLO. Non si può dire. SOCR. Ero nel vero, allora, quando dicevo che può darsi il caso di un uomo che faccia nella città tutto quel che gli sembra, senza, con questo, avere gran potere né fare quello che vuole. POLO. Ma via, Socrate, come se poi non t'importasse nulla di avere o no la possibilità di fare nella città tutto quello che ti sembra, e non avessi invidia quando vedi uno mandare a morte chi gli pare o confiscargli i beni o cacciarlo in prigione! SOCR. Ma giustamente o ingiustamente: che dici? POLO. Comunque [469a] lo faccia, nell'uno e nell'altro caso non è ugualmente oggetto d'invidia? SOCR. Sta attento a come parli, Polo! POLO. Perché? SOCR. Perché non bisogna invidiare chi non è affatto da invidiare, né invidiare bisogna i miserabili, ma compiangerli. POLO. Ma come, ti sembra che debbano essere compianti gli uomini di cui parlo? SOCR. Come no? POLO. Qualsivoglia uomo, dunque, manda a morte chi gli pare, e giustamente, ti sembra un miserabile, degno di compianto? SOCR. No! Ma neppure da invidiare. POLO. Ma non sostenevi proprio ora che è un miserabile? SOCR. Chi ingiustamente uccide, sì, mio caro [b] compagno, e anche oggetto di compianto! mentre chi manda a morte giustamente non è certo da invidiare. POLO. Davvero degno di compianto, miserabile davvero, è chi viene ucciso ingiustamente! SOCR. Meno di chi uccide, Polo, e meno di chi è giustamente ucciso. POLO. Ma che vuoi dire, Socrate? SOCR. Che il supremo male, il male peggiore che possa capitare, è commettere ingiustizia. POLO. Ma come, questo il male supremo? Ma non è un male ancora più grande patire ingiustizia? SOCR. Niente affatto! POLO. Ma tu, tu vorresti piuttosto patire che commettere ingiustizia? SOCR. Non vorrei né patirla né [c] commetterla, ma, tra le due, se fossi costretto a scegliere, preferirei piuttosto patire che commettere ingiustizia. POLO. Tu, dunque, non vorresti essere tiranno? SOCR. No! se dài a tiranno il significato che a tiranno do io. POLO. Ma io do a tiranno il significato che già ora dicevo: esser tiranno significa, per me, avere il potere di fare nella città quello che a uno sembra, mandare a morte, in esilio, fare, insomma, tutto secondo il proprio arbitrio.

XXV. SOCR. Beato uomo! controbatti pure quello che [d] dico io! Se, ad esempio, nell'ora in cui più affollata è l'agorà, tenendo un pugnale nascosto sotto l'ascella, ti dicessi: "Polo mi sono procurato un potere, un dominio meraviglioso! perché se mi parrà che una di queste persone che tu vedi sia sui due piedi soppressa, ebbene, quella che mi sembrerà cadrà sùbito morta! e se mi sembrerà che debba avere la testa rotta, avrà sùbito rotta la testa, e se lacerata la veste, avrà la veste lacerata: tanto grande è il [e] potere che ho in questa città", e se tu fossi incredulo, ed io, per prova, ti mostrassi il pugnale, probabilmente tu mi risponderesti: "Socrate, tutti, così, sarebbero capaci di avere un gran potere, e, in tal modo, si potrebbe mettere a fuoco qualsiasi casa ti sembri, l'arsenale di Atene, le triremi, tutte le imbarcazioni pubbliche e private". Solo che il gran potere non consiste nel fare tutto ciò che ci paia. Ti sembra? POLO. In questo modo, evidentemente [470a] no! SOCR. Ma sai spiegarmi perché non approvi un simile potere? POLO. Certo! SOCR. Perché, dunque? Parla! POLO. Perché chi così agisce deve necessariamente pagarne la pena. SOCR. Ma non è un male la pena? POLO. Senza dubbio. SOCR. Stupefacente uomo, ma, allora, se si fa ciò che si vuole e se ne trae vantaggio, ciò ti pare un bene, e questo, sembra, è il "gran potere"; [b] altrimenti è un male e uno scarso potere. Ma esaminiamo anche questo altro aspetto del problema: è o no vero che compiere quanto dicevamo, mandare a morte, esiliare, confiscare beni, talvolta può essere meglio talaltra no? POLO. Certo! SOCR. Su questo, sembra, siamo tutti e due d'accordo. POLO. Sì. SOCR. E quando, secondo te, è meglio? Entro quali termini? POLO. Rispondi tu stesso, [c] Socrate! SOCR. Personalmente, Polo, se preferisci ascoltare la mia risposta, sostengo che è meglio quando si fanno certe azioni per giustizia; quando le si fanno, invece, per ingiustizia, è peggio.

XXVI. POLO. Difficile davvero è confutarti, Socrate! Ma non vedi che anche un bambino dimostrerebbe che non sei nel vero? SOCR. Molto grato sarò a questo bambino, e a te sarò grato, se, confutandomi, mi liberi dai miei abbagli. Non stancarti, dunque, dal fare del bene a un amico, e, perciò, confutami! POLO. Non c'è bisogno, Socrate, di ricorrere a vecchie testimonianze per confutarti: [d] bastano fatti di ieri e di oggi per convincerti d'errore, e dimostrarti che molti pur commettendo ingiustizia sono felici. SOCR. Quali sono queste testimonianze? POLO. Non vedi Archelao, figlio di Perdicca, governare in Macedonia? SOCR. Anche se non lo vedo, ne sento parlare. POLO. E felice ti sembra, o infelice? SOCR. Non lo so, Polo; non mi sono mai incontrato con lui. POLO. Ma [e] come, lo sapresti solo se t'incontrassi con lui, e in un altro modo non potresti sapere se è felice? SOCR. Per Zeus, non ho altro modo! POLO. Ma, Socrate, evidentemente neppure del Gran Re potrai dire, così, di conoscere se è felice. SOCR. E direi il vero, perché non so nulla della sua paidèia e della sua giustizia. POLO. Ma come, tutta la felicità consiste in questo? SOCR. Secondo me sì, Polo. L'uomo e la donna veramente belli e buoni, dico, sono felici; l'uomo ingiusto e malvagio è infelice. POLO. Secondo il tuo ragionamento Archelao è, dunque, infe-[471a] lice? SOCR. Se è ingiusto, sì, amico mio. POLO. Ma come non può essere ingiusto? egli non aveva alcun diritto alla signoria che ora possiede, essendo figlio di una donna schiava di Alceta, fratello di Perdicca: secondo il diritto, e se avesse voluto agire secondo giustizia, egli avrebbe dovuto essere schiavo di Alceta, e seguendo il tuo ragionamento, sarebbe stato felice. Egli, invece, è ora divenuto straordinariamente infelice, poi che ha commesso i più gravi delitti. Invitò dapprima presso di sé Alceta, suo [b] padrone e zio, con il pretesto di restituirgli il governo che Perdicca gli aveva tolto, e, dopo avere ospitato lui e suo figlio Alessandro, che gli era cugino e quasi coetaneo, li ubriacò e spintili su di un carro, di notte, li portò via, e dopo averli sgozzati, li fece entrambi sparire. Compiuto tale delitto, non si accorse, certo, d'esser divenuto estremamente infelice, e non si pentì; anzi, poco tempo dopo, an-[c] cora una volta mostrò di non voler essere felice: invece di allevare onestamente suo fratello, figlio legittimo di Perdicca, un fanciullo di sette anni, a cui secondo giustizia spettava il governo, e di restituirgli il potere, lo gettò in un pozzo, lo annegò, e andò a dire a sua madre, Cleopatra, che il ragazzo, inseguendo un'oca, era precipitato in un pozzo, dove era morto. Proprio per questo, dunque, avendo commesso i più gravi delitti, che in Macedonia siano stati commessi, di tutti i Macedoni egli è il più disgraziato, non [d] il più felice, e, forse, esiste un qualche Ateniese, cominciando da te, che preferirebbe essere un qualsivoglia altro Macedone piuttosto che Archelao.

XXVII. SOCR. Fin dal principio di questa nostra discussione, ti ho lodato, Polo, perché mi sembri eccellentemente preparato in retorica, mentre mi pare che tu non abbia curato affatto la dialettica. Questo sarebbe, ora, il discorso mediante cui perfino un ragazzo mi convincerebbe d'errore e col quale adesso, secondo te, avresti confutato la mia affermazione, che felice non è l'ingiusto? Ma come, mio ingenuo amico? Assolutamente nulla ti concedo di quello che sostieni! POLO. Perché non vuoi, ma in [e] realtà la tua opinione non è diversa dalla mia! SOCR. Beato uomo, tu cerchi di convincermi d'errore retoricamente, come coloro che ritengono di convincere d'errore nei tribunali, ove, appunto, gli uni credono di avere confutato gli altri, quando presentano molti e reputati testimoni di quello che sostengono e gli avversari ne presentano uno o nessuno. Evidentemente la prova non ha così nessun valore [472a] rispetto alla verità, ché, talvolta, contro uno possono premere le false testimonianze di molte e reputate persone. Così ora, se voi presentate testimoni contro di me a prova che dico il falso, deporranno a tuo favore quasi tutti gli Ateniesi e i forestieri. Se vuoi, testimonieranno a tuo favore Nicia di Nicerato e i suoi fratelli, dei quali nel tempio di Dioniso stanno in fila esposti i tripodi; e, se vuoi, [b] Aristocrate di Scellia, del quale c'è in Pito una bellissima offerta; e tutta la casa di Pericle, se vuoi, o qualsiasi altra famiglia ateniese tu desideri scegliere. Eppure io solo non sono d'accordo, poiché tu non mi costringi con vere prove, ma, presentando contro di me testimoni falsi, cerchi di togliermi quella che è la mia ricchezza, la verità. Se io non presenterò proprio te quale unico testimonio a conferma di quello che dico, non mi sembrerà di aver [c] raggiunto nulla di degno sul nostro argomento. E, così, neppure tu, credo, sarai convinto se non ti sarò testimonio io solo, lasciando da parte tutti gli altri. C'è una forma di confutazione che tu e molti altri accettano e ve n'è un'altra accettata da me. Poniamo ora le due forme di confutazione, una di fronte all'altra, ed esaminiamo se sono diverse tra di loro: non cose da poco sono gli argomenti di cui stiamo discutendo; si tratta, anzi, di una questione bellissima a sapersi, bruttissima a ignorarsi, ché tale, appunto, è il nocciolo del problema: sapere o ignorare chi è felice [d] o no. In primo luogo, dunque, per tornare alla nostra discussione, tu ritieni possibile che un uomo che commetta ingiustizie, un uomo essenzialmente ingiusto, sia beato, tanto è vero che ingiusto ritieni Archelao, ma felice. Questo, dobbiamo credere, il tuo punto di vista? POLO. Esattamente.

XXVIII. SOCR. Io dico, invece, che è impossibile. Ecco un punto preciso su cui non andiamo d'accordo. Ma ancora: sarà felice l'ingiusto, qualora sia colpito dalla giustizia e debba pagare il fio della sua colpa? POLO. Per nulla! infelicissimo sarebbe, anzi, in tale caso. SOCR. [e] Ma se si sottrae alla giustizia, secondo te sarà felice? POLO. Sì. SOCR. Secondo la mia opinione, invece, Polo, chi commette ingiustizia, l'uomo ingiusto, è in ogni caso infelice, ma più infelice ancora se non paga il suo debito alla giustizia e non sconta la pena dei suoi delitti, meno infelice se paga alla giustizia e viene colpito dalla giustizia degli dèi e degli uomini. POLO. Ma Socrate, cerchi [473a] proprio di dire assurdità! SOCR. Compagno mio, cercherò, invece, di farti dire le stesse cose che dico io, proprio perché ti considero amico. Questo, ad ogni modo, è il punto su cui ora abbiamo opinioni diverse: vedi un po' anche tu! io, dunque, prima ho detto che commettere ingiustizia è peggio che patirla. POLO. Esatto! SOCR. Tu hai sostenuto, invece, che peggio è patirla. POLO. Sì. SOCR. Io, di contro, che coloro che commettono ingiustizia sono infelici, e tu mi hai confutato. POLO. Sì, per Zeus! [b] SOCR. Lo credi tu, Polo! POLO. Quello che credo è vero! SOCR. Forse! Tu, comunque, sostenevi che felici sono coloro che commettono ingiustizie, qualora riescano a non pagare il loro debito alla giustizia. POLO. Esattamente. SOCR. Mentre io sostengo che sono estremamente infelici, ma meno infelici, certo, quelli che pagano il debito alla giustizia. Vuoi confutare anche questo? POLO. Questo punto, Socrate, è senza dubbio più difficile ancora dell'altro da confutare! SOCR. No, Polo! non è più difficile, è impossibile, ché inconfutabile è la verità! POLO. Ma che dici! Poniamo il caso di uno che, sorpreso, mentre aspiri [c] illegalmente alla tirannide, venga arrestato, sottoposto a torture, mutilato, accecato col fuoco, e dopo aver sofferto molti e grandi strazi di ogni sorta, e veduto i figli e la moglie patire per gli stessi tormenti, sia alla fine legato alla croce o bruciato vivo in un sacco di pece, ebbene quest'uomo sarà più felice in tal modo, sarà più felice che se, sfuggendo alla giustizia, riesca a fondare una tirannide e viva dominando la città, facendo tutto quello che vuole, invidiato e felicitato da tutti, cittadini e stranieri? Questa la verità [d] che dici inconfutabile?

XXIX. SOCR. Nobile Polo, tu impaurisci come un bau-bau: non confuti! ora presenti spauracchi, come dianzi testimonianze. Ad ogni modo, fammi ricordare un po': "se uno aspira illegalmente alla tirannide", hai detto? POLO. Sì. SOCR. In alcun caso, mai, nessuno dei due sarà più felice, né quello che delittuosamente si sia procurato la tirannide, né quello che abbia pagato il suo debito alla giustizia - di due infelici nessuno può esser più fe-[e] lice -, ma più infelice, certo, chi è sfuggito alla giustizia e si è fatto tiranno. E che, Polo? ridi? E questa, forse, un'altra forma di confutazione, quando uno abbia fatto una certa affermazione, mettersi a ridere, non portare prove ch'egli è in errore? POLO. Ma Socrate, non credi d'esser già confutato enunciando tesi che nessuno sosterrebbe? Prova a interrogare qualcuno dei presenti. SOCR. No, Polo, io non sono un politico; l'anno passato, anzi, sorteggiato membro del Consiglio dei Cinquecento, quando la pritania passò alla mia tribù e toccò a me presiedere la [474a] votazione, mi resi ridicolo, inesperto com'ero della procedura. E, dunque, non mi chiedere ora di far votare i presenti, e se non hai un miglior metodo per confutare, cedi a me la tua parte, come dianzi dicevo, e sperimenta come, secondo me, si deve confutare. Delle mie affermazioni io non so produrre che un solo testimonio e precisamente quello con il quale discuto, tutti gli altri li accantono: uno [b] solo io so fare votare! con molti, impossibile è il dialogo. Vedi un po' ora se, a tua volta, vuoi passare a me la parte della prova, rispondendo alle mie domande. In realtà io sono convinto che non solo io, ma anche tu, tutti gli uomini, tutti pensiamo che commettere ingiustizia sia peggio che patirla, e che sottrarsi alla pena sia male maggiore che l'essere punito. POLO. Ed io, invece, dico che né io né altro uomo pensa in questo modo. Sei tu, solo tu, che preferiresti patire anziché fare ingiustizia, non è vero? SOCR. Non io solo, ma tu e tutti gli altri. POLO. Ce ne [c] vuole! No, né io, né tu, nessuno! SOCR. Risponderai una buona volta? POLO. Ma sì! anche perché desidero sapere cosa mai dirai! SOCR. Rispondimi, allora, affinché tu sappia, come se ricominciassimo da capo la nostra discussione. Polo, pensi che sia peggio commettere o patire ingiustizia? POLO. Secondo me, patirla. SOCR. E che ? è moralmente più brutto commetterla o patirla? Rispondi! POLO. Commetterla!

XXX. SOCR. E', dunque, anche peggio, se è più brutto. POLO. Niente affatto! SOCR. Capisco: secondo il tuo pa-[d] rere sembra che bello e buono, male e brutto, non siano la stessa cosa. POLO. No davvero! SOCR. E allora? Tutte le cose belle - corpi, colori, figure, suoni, istituzioni umane - tali le dici - di volta in volta belle -, senza tener d'occhio nulla? Ad esempio, cominciando dagli oggetti corporei, non li chiami belli relativamente al loro uso, a seconda della loro funzione, o al piacere che dànno a chi li contempla, se contemplandoli allietano? Al di fuori [e] di tali criteri puoi dire belli gli oggetti corporei? POLO. No! SOCR. Ma, allora, anche tutte le altre cose, colori, figure, le potrai denominare belle o per il piacere che suscitano o per la loro utilità, o per l'una e l'altra causa insieme? POLO. Secondo me, sì. SOCR. E lo stesso dobbiamo ripetere per i suoni e per la musica in tutte le sue manifestazioni? POLO. Sì. SOCR. Anche le leggi, anche le istituzioni umane, per ciò che riguarda la loro bellezza, neppure esse sono belle al di fuori di queste ragioni, o per la loro utilità, o per il piacere che suscitano, o per l'una e l'altra causa insieme. POLO. Non per altro, mi sembra. [475a] SOCR. E lo stesso dobbiamo ripetere per la bellezza delle scienze tw=n maqhma/twn [tòn mathemàton] ? POLO. Senza dubbio; anzi, Socrate, buona è la tua attuale definizione, il tuo porre il bello entro i termini del piacere e del bene. SOCR. Ma il brutto si dovrà, allora, definire entro i termini contrari, dolore e male? POLO. Necessariamente! SOCR. Ne segue, dunque, che quando di due cose belle una è più bella dell'altra, la più bella è tale per una delle due ragioni o per ambedue insieme, il piacere, l'utilità, o per il piacere e l'utilità, a un tempo. POLO. Certo! SOCR. E quando di due cose brutte una è più [b] brutta dell'altra, la più brutta è tale a causa di un eccesso di dolore e di male. Non deve essere così? POLO. Sì. SOCR. Sù via, dunque, cosa dicevamo un momento fa sul commettere e sul patire ingiustizia? Non sostenevi, forse, che patire ingiustizia è peggio, ma commetterla è più brutto? POLO. Proprio questo sostenevo. SOCR. Ma allora, se commettere ingiustizia è più brutto che patirla, ciò, appunto, è più brutto o perché produce un maggior dolore o perché causa un maggior danno, o per l'una e l'altra cosa insieme. Non deve essere così anche questo? POLO. Senza dubbio!

XXXI. SOCR. Ma cominciamo con l'esaminare se com-[c] mettere ingiustizia superi per dolore il patirla: chi commette ingiustizia, cioè, prova maggior dolore di chi la patisce? POLO. No, Socrate! questo poi no! SOCR. E va bene, commettere ingiustizia non supera per dolore il patirla. POLO. Certamente no! SOCR. Ma allora, se non supera per dolore, neppure lo supererà per l'una e l'altra insieme delle due cause. POLO. Sembrerebbe di no! SOCR. Non resta, dunque, che l'altra causa. POLO. Sì. SOCR. Il male. POLO. Sembra! SOCR. Commettere ingiustizia è, dunque, peggio che patirla, perché superiore è il male che ne deriva. POLO. E' chiaro che lo è! SOCR. [d] Ma tu, non eri prima convinto - d'accordo con l'opinione della maggioranza - che commettere ingiustizia è più brutto che subirla? POLO. Sì. SOCR. Ora, invece, si è mostrato che non solo è cosa più brutta, ma peggiore. POLO. Sembra! SOCR. E tu preferiresti un male peggiore, più brutto, a uno minore? Rispondi, Polo, non aver paura! non ne avrai danno! Francamente affidati [e] alla ragione sì come a un medico, e rispondi o sì o no alle mie domande. POLO. No Socrate, non lo preferirei! SOCR. Nessun uomo lo potrebbe. POLO. Secondo il tuo ragionamento no, non mi sembra. SOCR. Dicevo dunque la verità, quando sostenevo che né io, né tu, nessun uomo preferisce commettere ingiustizia piuttosto che patirla: patirla sarebbe, appunto, il caso peggiore. POLO. Sembra! SOCR. Vedi, Polo, come, poste l'una di fronte all'altra, le due forme di confutazione non si somigliano affatto. Con te andavano d'accordo tutti gli altri, eccettuato me; a me, [476a] invece, basti tu solo, che tu solo sia d'accordo e ti presenti come testimonio, e facendo votare te solo accantono tutti gli altri. E su questo ci siamo capiti. Passiamo ora ad esaminare il secondo punto del nostro contrasto, se, cioè, pagare alla giustizia il debito delle proprie colpe sia per l'ingiusto il male più grande, come tu credevi, o se male maggiore sia sfuggire alla pena come ritenevo io. Consideriamo la questione sotto questo aspetto: pagare alla giustizia il debito delle proprie colpe ed essere giustamente punito avendo commesso atti ingiusti, significa la stessa cosa? POLO. Secondo me, sì! SOCR. Puoi so-[b] stenere ora che tutte le cose giuste, in quanto giuste, non siano belle? Rifletti e rispondi. POLO. A me sembra di sì, Socrate!

XXXII. SOCR. Ma rifletti anche a questo: se uno fa qualcosa, è necessario che vi sia anche qualche cosa che patisce l'azione dell'agente? POLO. Mi sembra di sì. SOCR. Ma tale patire, prodotto di ciò che agisce, non sarà proprio come lo fa l'agente? In altri termini: se uno colpisce è necessario vi sia qualcosa che viene colpita? POLO. Necessario. SOCR. E se uno colpisce forte e rapidamente, la cosa colpita sarà colpita con ugual forza e rapidità?[c] POLO. Sì. SOCR. Tale, dunque, il patire per ciò che vien colpito, quale è l'azione da parte di chi colpisce. POLO. Senza dubbio. SOCR. E così, se uno brucia, è necessario che qualcosa sia bruciato? POLO. Certo! SOCR. E se brucia con forza e dolorosamente, altrettanto forte e dolorosamente sarà bruciata la cosa? POLO. Senza dubbio. SOCR. Lo stesso va ripetuto per il tagliare? Qualcosa sarà tagliato. POLO. Sì. SOCR. E se il taglio è grande o pro-[d] fondo e doloroso, tale sarà il taglio su chi lo patisce, quale il taglio operato da chi taglia. POLO. Evidente. SOCR. Insomma, vedi allora se sei d'accordo su quello che ora dicevi, che, cioè, per tutte le cose, quale è l'azione dell'agente, tale è il patire da parte del paziente. POLO. Sono d'accordo! SOCR. D'accordo su questo, vediamo ora: pagare alla giustizia il debito delle proprie colpe, è patire o agire? POLO. Patire, Socrate, per forza! SOCR. Da parte di un agente? POLO. Senza dubbio: da parte di chi punisce. SOCR. Ma chi punisce in quanto corregge, punisce [e] giustamente? POLO. Sì. SOCR. E agisce secondo giustizia, o no? POLO. Secondo giustizia. SOCR. Chi, dunque, è punito da lui, pagando alla giustizia il debito delle proprie colpe, patisce giustamente? POLO. Sembra. SOCR. Ma non siamo rimasti d'accordo che le cose giuste sono belle? POLO. Esatto. SOCR. Bella, dunque, è l'azione dell'uno, e bello il patire dell'altro, di chi è punito. POLO. Sì.

[477a] XXXIII. SOCR. Ma, se cose belle, sono anche buone? Il bello non è forse tale o per il piacere o per l'utilità? POLO. Necessariamente. SOCR. Un bene è, dunque, il patire di chi paga il debito delle proprie colpe? POLO. Sembra. SOCR. Perché ne ricava un utile? POLO. Sì. SOCR. E quale mai altro utile se non quello che penso io? che migliore diviene la sua anima, se è giustamente punito? POLO. Naturale! SOCR. Perché chi paga il debito della propria colpa si libera dalla malvagità dell'anima? POLO. Sì. SOCR. Si libera cioè dal male più grave? Rifletti: se [b] consideriamo le ricchezze, quale altro male puoi pensare che càpiti all'uomo se non la povertà? POLO. Non altro, se non la povertà! SOCR. E se consideriamo lo stato del corpo? non dirai che mali del corpo sono la debolezza, la malattia, la deformità e così via? POLO. Sì. SOCR. E non credi che anche l'anima possa trovarsi in cattivo stato? POLO. Certo! SOCR. E tale cattivo stato non lo chiami ingiustizia, ignoranza, viltà e così via? POLO. [c] Senza dubbio! SOCR. Di queste tre cose, dunque, beni di fortuna, corpo, anima, hai citato tre specie di mali: povertà, malattia, ingiustizia? POLO. Sì. SOCR. Ma quale di questi mali è il più brutto? Non è forse l'ingiustizia, in una parola il vizio dell'anima? POLO. Senza, paragone! SOCR. Ma, essendo il più brutto, è anche il peggiore? POLO. Che vuoi dire, Socrate? SOCR. Questo: entro i termini di quanto sopra abbiamo ammesso dobbiamo concludere che la cosa più brutta, sempre, è tale in quanto provoca il più gran dolore o il più gran danno, o l'uno e l'altro insieme. POLO. Proprio così! SOCR. E non abbiamo convenuto ora che l'ingiustizia e ogni altro vizio [d] dell'anima è la cosa più brutta? POLO. Lo abbiamo convenuto. SOCR. Il male dell'anima è, dunque, il male più brutto di tutti, o perché estremamente tormentoso per l'eccesso del dolore, o perché più dannoso, o perché più tormentoso e più dannoso a un tempo? POLO. Necessariamente. SOCR. Ma è più doloroso essere ingiusto, dissoluto, vile, ignorante, ch'essere povero o ammalato? POLO. Non mi sembra, Socrate, che si possa trarre una simile, conclusione. SOCR. La malvagità dell'anima, per il danno mostruosamente grande e per lo straordinario male, superando ogni altro male, è di tutti il più turpe, [e] se, come tu dici, ciò non è dovuto al dolore. POLO. Sembra. SOCR. Ma quello che supera tutto per l'immensità del danno non può non essere che il male più grande. POLO. Sì. SOCR. L'ingiustizia, la dissolutezza, tutti gli altri vizi dell'anima costituiscono, dunque, il male più grande che ci sia? POLO. Sembra!

XXXIV. SOCR. Qual è, ora, l'arte che ci libera dalla povertà? Non è forse la crematistica? POLO. Sì. SOCR. E quale l'arte che ci libera dalle malattie? Non è la medicina? POLO. Necessariamente. SOCR. E quella che ci [478a] libera dal vizio e dall'ingiustizia? Se non sei capace di rispondere a colpo, vedi un po' per quest'altra via: dove e da chi accompagnamo i corpi ammalati? POLO. Dai medici, Socrate. SOCR. E da chi gl'ingiusti e i dissoluti? POLO. Vuoi dire dai giudici? SOCR. Per essere puniti? POLO. Sì. SOCR. E non è forse grazie a una certa giustizia che si punisce, quando si punisca correttamente? POLO. Evidentemente. SOCR. La crematistica ci libera, dunque, dalla povertà, la medicina dalla malattia, la giustizia dalla [b] dissolutezza e dall'ingiustizia. POLO. Sembra! SOCR. Quale di queste arti è la più bella? POLO. Di quali arti parli? SOCR. Della crematistica, della medicina, della giustizia. POLO. Quella che più si distingue è la giustizia, Socrate. SOCR. Se la giustizia, è, dunque, la cosa più bella, essa è fonte o del piacere più grande o della più grande utilità, o dell'uno e dell'altra insieme? POLO. Sì. SOCR. Ma l'esser curato dal medico è piacevole, e chi è sotto cura ne prova diletto? POLO. Non mi sembra! SOCR. Ma è utile, non è vero? POLO. Sì. SOCR. Perché [c] il paziente si libera da un gran male, sì che gli conviene sopportare il dolore pur di ritornare sano. POLO. Come no? SOCR. Ma chi, sempre tenendo conto del fisico, è più felice, chi ha bisogno delle cure del medico, o chi non è mai stato ammalato? POLO. Evidentemente chi non è ammalato. SOCR. Sì, perché la felicità, sembra, non consiste nel liberarsi dal male, ma nel non avere mai contratto malattia. POLO. Proprio così. SOCR. Ancora: fra due [d] persone che abbiano contratto una malattia, nel corpo o nell'anima, qual è la più sfortunata, quella che, curata, se ne libera, o quella che, non curata, non si libera dal suo male? POLO. Evidentemente quella non curata. SOCR. Ma non abbiamo detto che la guarigione dal male più grande, dalla malvagità, consiste nel pagare alla giustizia il debito delle proprie colpe? POLO. Sì. SOCR. Perché la giustizia è correttiva, rende più giusti, è medicina della malvagità. POLO. Più felice di tutti è, dunque, chi non è ammalato nell'anima, dal momento che di tutti i mali la malattia del-[e] l'anima è risultato il più grande. POLO. Evidente. SOCR. Felice, in secondo luogo, è chi viene liberato dal male. POLO. Naturale. SOCR. E tale è chi viene punito, condannato, chi paga il suo debito alla giustizia. POLO. Sì. SOCR. Peggio di tutti vive, dunque, chi sia ingiusto e non venga liberato dall'ingiustizia. POLO. Sembra. SOCR. E tale non è chi, macchiatosi dei più gravi delitti, praticata la più grave ingiustizia, riesca a sottrarsi alla punizione, alla condanna, al suo debito verso la giustizia, come, tu [479a] dici, è riuscito a fare Archelao, e, dici, riescono a fare gli altri tiranni, i rètori, i potenti. POLO. Senza dubbio!

XXXV. SOCR. Tutti costoro, ottimo amico mio, per il risultato che ottengono, somigliano a chi, avendo contratto le più gravi malattie, sia riuscito a sottrarre al giudizio dei medici i suoi malanni fisici, e non si sia fatto curare, temendo, come un bambino, di doversi far cauterizzare o tagliare, perché è doloroso. Non sembra anche a te? POLO. [b] Sì. SOCR. Ma ciò, sembra, può accadere solo ignorando il valore della salute e dell'integrità del corpo! Certo, dopo quel che abbiamo convenuto adesso, è probabile, sì, che qualcosa di simile facciano coloro che, o Polo, cercano di sfuggire alla giustizia; essi hanno solo occhi per l'aspetto doloroso della pena, mentre ciechi sono per quel che ne riguarda l'utilità, ignorando quanto sia più triste del non avere sano il corpo, avere ammalata l'anima, avere un'anima non sana, ma corrotta, ingiusta, empia. Ecco [c] perché fanno di tutto per sottrarsi alla giustizia, per non liberarsi dal maggiore dei mali, procurandosi denaro, amici e quella certa capacità di parlare nel modo più persuasivo. Ebbene, Polo, se le premesse su cui ci siamo accordati sono vere, ti dovresti già rendere conto da te di quali siano le conclusioni del nostro ragionamento, o vuoi ricapitolarlo? POLO. Se così ti sembra, sì! SOCR. Risulta, no, che il male più grande di tutti è l'ingiustizia e il commettere atti [d] ingiusti? POLO. Evidente. SOCR. E che liberarsi da tale male si è dimostrato consistere nel pagare alla giustizia il debito delle proprie colpe? POLO. Va a finire che è proprio così! SOCR. Mentre è risultato che sottrarsi alla pena significa il perdurare del male? POLO. Sì. SOCR. Ne segue, dunque, che il commettere ingiustizia è un male minore, che, tra i mali, viene al secondo posto; il male più grande di tutti, il primo di tutti i mali è, per sua stessa natura, sottrarsi alla pena essendo colpevole. POLO. Sembra! SOCR. Ma non era proprio questo, amico mio, il punto del nostro contrasto? tu proclamavi felice Archelao, che, pur avendo commesso gravissimi delitti, è rimasto [e] impunito, io, al contrario, ero convinto che Archelao, o qualsivoglia altro uomo, che, colpevole, si sottragga alla pena, è davvero il più infelice di tutti gli uomini, che chiunque commetta ingiustizia è più infelice di chi la patisce, e che chiunque si sottrae al suo debito verso la giustizia è più infelice di chi abbia pagato. Questi erano i punti da me sostenuti, non è vero? POLO. Sì. SOCR. E non se n'è dimostrata la verità? POLO. Sembra di sì.

[480a] XXXVI. SOCR. Bene! Ma allora, Polo, in che consiste la grande utilità della retorica, se quello che abbiamo detto è vero? Sì, perché da ciò che abbiamo ammesso si ricava che dobbiamo con ogni cura guardarci dal commettere ingiustizia per non dover subire un male altrettanto grande. Non è vero? POLO. Senza dubbio. SOCR. E allora, se uno di noi, o altri che ci sta a cuore, commette atti ingiusti, deve sùbito recarsi, di propria spontanea volontà, là dove [b] si pagano alla giustizia i propri debiti, deve recarsi dal giudice, come si va dal medico, e affrettarsi, perché il male dell'ingiustizia, invecchiando, non incancrenisca e renda incurabile l'anima. Cos'altro noi possiamo dire, Polo, se quello che abbiamo stabilito resta valido? Le conseguenze cui siamo giunti non sono forse necessarie, in perfetto accordo con i princìpi da cui abbiamo preso le mosse, vietando qualsiasi altra conclusione? POLO. Cos'altro mai, Socrate, potremmo dire infatti? SOCR. Certo, per quel che riguarda la difesa dell'ingiustizia, sia propria sia dei genitori, dei compagni o dei figli, o della patria che si macchi d'ingiustizia, a nulla, Polo, può servirci la reto-[c] rica, a meno che non la s'interpreti in senso opposto; bisogna, in primo luogo, accusare se stessi, poi i familiari e gli altri, ogni qual volta, insomma, accada che una persona amica abbia commesso atti ingiusti, senza rimanere nascosti, ma mettere in piena luce l'azione ingiusta, perché si paghi la pena e si ritorni sani; bisogna anzi, costringere se stessi e gli altri a non aver paura, ma ad offrirsi senza fiatare, spontaneamente, coraggiosamente al giudice, come ci si affida al medico per lasciarsi tagliare e cauterizzare in vista del buono e del bello, senza tener conto del dolore; se si tratta di un atto ingiusto che meriti percosse, bisogna lasciarsi battere, se meriti le catene farsi incatenare, pagare se meriti la multa, se l'esilio [d] andare in esilio, se la morte morire, accusando innanzi tutto se stessi e i propri familiari: a questo serve la retorica, perché, rivelandoti le colpe, ci si liberi dal male più grande, l'ingiustizia! E' cosí, o no, Polo? POLO. Paradossale, Socra-[e] te, mi sembra; ma, forse, coerente con le premesse da te stabilite. SOCRATE. Bisogna, allora, o dissolvere quelle premesse o necessariamente accettare queste conclusioni. POLO. Sì, questi i termini della questione! SOCR. Nel caso opposto, invece, qualora si tratti di dover nuocere a qualcuno, sia esso un nemico o qualsivoglia altra persona, con la sola eccezione che non sia egli a subire un atto ingiusto da parte di un suo nemico - a questo bisogna fare non poca attenzione - qualora, dunque, un nostro nemico [481a] commetta ingiustizia nei confronti di qualcuno, in ogni maniera, con l'azione e con la parola, dobbiamo adoperarci perché non venga sottoposto a giudizio e non compaia dinanzi al giudice; se, invece, compare in giudizio, bisogna escogitare allora ogni mezzo perché venga assolto e sia sottratto alla pena: se ha rubato una grande quantità d'oro, trovare il mezzo che non la restituisca, ma la trattenga e la usi per sé e per i suoi, in modo ingiusto ed empio; se ha commesso delitti per i quali è stabilita la pena di morte, cercare che non muoia, anzi, se possibile, viva immortale [b] in perpetua compagnia del suo male, o viva almeno quanto più a lungo è possibile sempre in questo stato. Ecco, Polo, gli scopi per i quali mi sembra che la retorica serva, poiché per chi non ha intenzione di commettere il male non mi pare che sia di grande utilità, sia pur ammesso che serva a qualcosa, ché di nessuna utilità essa è risultata nei nostri precedenti discorsi.

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XXXVII. CALL. Dimmi, Cherefonte, Socrate parla sul serio o scherza? CHER. Mi sembra che parli molto, ma molto sul serio, Callicle; ma sarà meglio che tu lo chieda a lui stesso. CALL. Per gli dèi, se lo desidero! Dimmi, [c] Socrate, dobbiamo pensare che tu parli sul serio o per scherzo? perché se parli sul serio e quello che dici è vero, non ne sarebbe capovolta tutta la vita umana e tutti, sembra, non faremmo proprio il contrario di quello che dovremmo? SOCR. Callicle, se, nella loro diversità, le umane affezioni non avessero nulla in comune, se ciascun uomo fosse determinato da una sua singolare impressione, difficile sarebbe far comprendere all'altro il proprio affetto. E dico questo [d] osservando che tu ed io proviamo ora il medesimo affetto, innamorati, come siamo, ciascuno di due oggetti, io di Alcibiade figlio di Clinia e della filosofia, tu del demo ateniese e di Demo figlio di Pirilampo. Ebbene, in ogni circostanza, ho la sensazione che tu, pur non essendo uomo da poco, qualunque cosa dica, qualunque cosa sostenga l'oggetto del tuo amore, non sei capace di opporti, [e] ma ti lasci cambiare da cima a fondo. Nell'assemblea popolare, se, dopo il tuo discorso, il demo ateniese ti dà torto, tu cambi sùbito parere e dici quello ch'esso vuole; lo stesso ti accade con quel bel giovinetto che è Demo, figlio di Pirilampo. No, tu non sai opporti alle voglie, ai punti di vista degli oggetti del tuo amore, tanto che se qualcuno, ascoltando ciò che tu volta a volta dici per influenza di questi, si stupisse per le contraddizioni in cui vieni a cadere, tu, se proprio volessi dire la verità, dovresti rispondergli che fino a quando non s'impedirà ai tuoi amori di parlare come parlano, anche tu non potrai [482a] parlare se non come parli. Prova a pensare ora che tu debba ascoltare da me un discorso del genere, anche se volto ad altro, e non ti stupire se io parlo come parlo, ma impedisci piuttosto che la filosofia, l'oggetto del mio amore, dica quello che dice. Sì, compagno mio carissimo, è proprio la filosofia che dice quello che ora ascolti da me, ed essa è certo molto meno volubile degli altri miei amori: il figlio di Clinia, infatti, ora dice una ora altra cosa; la filosofia, [b] invece, dice sempre la stessa cosa; dice quello di cui adesso ti stupisci, tiene quegli stessi discorsi che hai ascoltato fin qui. E allora, come dicevo, o confuti la filosofia, dimostrando che commettere ingiustizia e non pagare il debito delle proprie colpe non è il più grave dei mali, o, se lascerai inconfutato questo punto, per il cane, dio dell'Egitto, Callicle, oh Callicle, sarà in contraddizione con se stesso, e per tutta la vita sarai in disarmonia con te. Personalmente, invece, ottimo amico, credo che meglio sarebbe suonare su di una lira scordata, che stonato [c] fosse un coro da me diretto, che la maggioranza degli uomini non fosse d'accordo con me, e dicesse il contrario di quel che penso io, piuttosto ch'essere in disaccordo e in contraddizione con me stesso.

XXXVIII. CALL. Socrate, nei tuoi discorsi sembri con tanta giovanile foga imbaldanzire, veramente come un oratore di popolo; e ora, mediante, appunto, codesta tua oratoria foga popolare, hai fatto cadere Polo nella stessa situazione in cui egli accusava Gorgia d'esser caduto per colpa tua Polo diceva che Gorgia, interrogato da te se qualcuno, [d] andando da lui con il proposito d'imparare la retorica pur non avendo alcuna cognizione della giustizia, anche questo, in che consiste la giustizia, imparerebbe da lui; Gorgia, per pudore, rispose di sì, conformandosi a una certa etica umana, poiché gli uomini si scandalizzerebbero se uno si esprimesse altrimenti, - a causa di tale concessione Gorgia era poi stato costretto a contraddirsi, ed è, appunto, far cadere la gente in contraddizione ciò di cui tu particolarmente ti compiaci! - ; e Polo, allora, rideva di te, giustamente secondo il mio parere. Ora, invece, di nuovo, è toccato a Polo subire la stessa sorte, e io non posso se non rimproverarlo di questo, d'essersi cioè trovato d'accordo con te nel sostenere che commettere ingiustizia sia più brutto che patirla. Per averti concesso questo, Polo, [e] preso alla tagliola dei tuoi ragionamenti, si è lasciato imbrigliare, anche lui per pudore di esprimere quello che realmente pensava. Sì, Socrate, tu, veramente, sostenendo di correre dietro alla verità, spingi il discorso a codeste affermazioni rozze e proprie da oratore popolare, che belle non sono certo per natura, ma per legge. In molti, casi, anzi, natura e legge sono in pieno contrasto tra loro. Chi, dunque, abbia pudore e non osi dire quello che pensa, [483a] è costretto a contraddirsi. Ebbene, tu, scoperto questo trucco, disonestamente lo usi nel corso della discussione: se uno intende dire ‘secondo la legge' tu incalzi con una domanda insinuando ‘secondo natura' e se, invece, l'altro intende dire ‘secondo natura', tu intendi ‘secondo legge'. Così hai fatto ora, discutendo sulla questione: ‘commettere ingiustizia e patire ingiustizia'. Polo, dicendo che più brutto è commettere che subire ingiustizia, intendeva secondo la legge, tu, invece, proseguivi il discorso come se Polo avesse inteso dire ‘secondo natura'. Sì, perché in natura tutto quel che è più brutto è, ad un tempo, più malvagio, ossia il subire ingiustizia; per legge, invece, commetterla. Né da vero uomo, ma da servo, è subire [b] ingiustizia senza esser capaci di ricambiare, e meglio è morire che vivere se, maltrattati ed offesi, non si è capaci di aiutare se stessi e chi ci stia a cuore. Secondo me la questione è tutta qui: quelli che fanno le leggi sono i deboli, i più; essi, evidentemente, istituiscono le leggi a proprio favore e per propria utilità, e lodi e biasimi dispensano entro questi termini. Spaventando i più forti, quelli che [c] avrebbero la capacità di prevalere, per impedire, appunto, che prevalgano, dicono che cosa brutta e ingiusta è voler essere superiori agli altri e che commettere ingiustizia consiste proprio in questo, nel tentativo di prevalere sugli altri. Essi, i più deboli, credo bene che si accontentano dell'uguaglianza!

XXXIX. Ecco perché la legge dice ingiusto e brutto il tentativo di voler prevalere sui molti, ecco perché lo chiamano commettere ingiustizia. Io sono invece convinto che la stessa natura chiaramente rivela esser giusto che il mi-[d] gliore prevalga sul peggiore, il più capace sul meno capace. Che davvero sia così, che tale sia il criterio del giusto, che il più forte comandi e prevalga sul più debole, ovunque la natura lo mostra, tra gli animali e tra gli uomini, nei complessi cittadini e nelle famiglie. Con quale diritto Serse mosse guerra alla Grecia, o suo padre mosse guerra agli [e] Sciti? Infiniti altri esempi si potrebbero portare! tutta questa gente, io penso, così agisce secondo la natura del giusto, e sì, in nome di Zeus, per legge, ma secondo la legge di natura, non per quest'altra legge, per la legge che noi istituiamo! accalappiandoli fin da bambini, mediante tale legge, plasmiamo i migliori, i più forti di noi, e, impa-[484a] stoiandoli e incantandoli come leoni, li osserviamo, dicendo loro che bisogna essere uguali agli altri e che in tale uguaglianza consiste il bello e il giusto. Ma, io credo, qualora nascesse un uomo che avesse adeguata natura, scossi via da sé, spezzati tutti questi legami, liberatosi da essi, calpestando i nostri scritti, i nostri incantesimi, i nostri prestigi, le nostre leggi, tutte contro natura, emergendo, da nostro schiavo, lo vedremmo nostro padrone, e qui, allora, di luce limpidissima il diritto di natura splenderebbe. [b] Anche Pindaro, mi sembra, ha sostenuto quello che penso io, in quel canto che dice:
 

di tutti regina la legge
dei mortali e degl'immortali;

essa, con mano sovrana, giustificando muove
ogni violenza; e questo lo provo pensando
ai fatti di Ercole, che, senza pagare...

Questo, più o meno - non so a memoria il canto - dice Pindaro; dice, insomma, che Ercole si portò via i buoi di Gerione, non avendoli né pagati né ricevuti in dono, ma perché questo è giusto per natura e cioè che i [c] buoi, qualsivoglia altra proprietà dei meno valenti e dei più deboli, spettano al migliore e al più forte.

XL. Questa la verità! e te ne renderesti conto, se ti volgessi a più alte cose, abbandonando la filosofia. Certo, Socrate, la filosofia è, senza dubbio, piena di grazia, purché venga studiata, con misura, in età giovanile, ma se con essa ci s'intrattiene oltre il dovuto limite, è la rovina degli uomini. Anche chi per natura sia ben dotato, se continua a filosofare in età matura, fatalmente resta al di fuori di tutto un com-[d] plesso di cose di cui deve essere esperto qualora voglia divenire uomo davvero completo e degno di stima. Saranno, infatti, uomini inesperti delle leggi vigenti nella propria città, dei discorsi che si debbono usare nelle relazioni umane, sia in privato che in pubblico, di quelli che sono i piaceri e le passioni degli uomini, in una parola non saranno per nulla competenti del mondo umano. Qualora, dunque, debbano affrontare un qualche privato o pubblico affare, [e] fanno ridere, sì come, credo, fanno ridere i politici quando intervengono alle vostre discussioni e si mettono a ragionare con voi. Accade proprio quel che dice Euripide: ciascuno è un lume in quel campo, verso quello è portato,

a quello dedica la maggior parte della sua giornata
sì da riuscire ad essere più che eccellente

 

[485a] mentre quello in cui non si riesce si evita e si disprezza, intessendo lodi di ciò in cui si è bravi, per amore di sé, credendo così di elogiare se stessi. Secondo me, invece, meglio è non trascurare né l'una né l'altra: bello è dedicarsi alla filosofia per quanto possa servire a una compiuta educazione: né per un giovanotto disdicevole è filosofare; ma quando, divenuti più anziani, si seguita a filosofare, allora, Socrate, la cosa si fa ridicola, ed io trovandomi [b] dinanzi ai filosofanti ho la stessa impressione di quando mi trovo dinanzi a gente che balbetta e bamboleggia. Quando vedo un fanciullino, per il quale è naturale parlare così, balbettando e bamboleggiando, la cosa mi piace e graziosa mi sembra e gentile ed appropriata alla sua età, mentre quando sento parlare un bambino seriamente, la cosa mi riempie di una qual certa tristezza, mi dà fastidio agli orecchi, l'impressione di un che di servile. Ma se ascolto [c] balbettare un uomo, se vedo bamboleggiare un uomo, mi sembra ridicolo, sconveniente, degno d'essere preso a bastonate. Ecco, identica è l'impressione che provo dinanzi ai filosofanti. In un giovane, in un adolescente mi fa piacere vedere coltivata la filosofia, mi sembra gli convenga, credo gli servirà per formarsi uomo veramente libero, mentre un giovane che non filosofa mi sembra di natura [d] servile, che mai aspirerà a cosa bella e nobile. Quando vedo, invece, un uomo già maturo che più non la finisce di filosofare, un uomo del genere, caro Socrate, mi sembra proprio degno d'essere preso a bastonate. Sì, perché un simile uomo, come dicevo, anche per natura assai dotato, diviene un mezzo uomo a forza di sfuggire i centri della vita cittadina e degli affari - ove, dice il poeta, gli uomini dimostrano il proprio valore - passando, invece, tutta la vita nascosto in un canto, chiacchierando a bassa voce con tre [e] o quattro ragazzi, senza dire mai qualcosa di veramente libero, grande, significativo.

XLI. Personalmente, Socrate, provo per te un sentimento di vera amicizia; finisce quindi che sento ora nei tuoi confronti quello che Zeto doveva sentire per Amfione, quel personaggio di Euripide, che dianzi ricordavo. E a te mi viene in mente di dire le parole di Zeto a suo fratello. "Tu trascuri, Socrate, proprio quello di cui dovresti avere la cura più grande, e ‘l'anima tua sì nobilmente dotata [486a] nascondi dietro puerile atteggiamento', e durante una discussione forense né sapresti portare il contributo di un tuo giusto pensiero, né cogliere l'argomento più verosimile e persuasivo, né dare ad altri ardito e generoso consiglio". Sì, amico Socrate - e non prendertela a male con me, ché io parlo per il bene che ti voglio - , non ti sembra vergognoso essere quale, secondo me, tu sei, quali sono tutti quelli che solo vivono per la filosofia? Se qualcuno, ora, ti prendesse, te o qualsiasi altro simile a te, ti conducesse in carcere, e ti accusasse di una colpa che non hai commessa, sai bene che non sapresti come trarti d'impaccio, [b] ma saresti preso dalle vertigini e rimarresti a bocca aperta non sapendo che dire e salito in tribunale, sia pur toccandoti un accusatore che non vale nulla, un miserabile accusatore, verresti condannato a morte, se l'accusa avesse richiesto per te la pena capitale. Ma quale mai tipo di sapere è questo, Socrate, "questa luminosa arte, che prendendo un uomo per natura ben dotato lo riduce a nulla" ? non saprebbe aiutarsi da solo, né salvare se stesso o altri dai più gravi pericoli, ché dai propri nemici si lascerebbe spogliare di ogni suo bene, e permetterebbe, infine, di [c] vivere privo dei propri diritti nella sua città? Un simile uomo - scusami l'espressione un po' forte - si può prendere a schiaffi impunemente. Sì, amico mio, dammi retta, "smetti il tuo sottile ragionar confutando", "segui la più bella via" della vita operosa, occupati di ciò che potrà darti fama di saggio, "lascia ad altri codeste eleganze", che forse vanno chiamate vaneggiamenti o sciocchezze, e che ti "porteranno ad abitare in una casa vuota" ; emula non chi disputa su codeste sottili questioni, ma chi nella [d] vita ha successo, fama, e molti altri beni!.

XLII. SOCR. Se avessi avuto in sorte un'anima d'oro, Callicle, non pensi che sarei tutto lieto se trovassi una di quelle pietre con cui si saggia l'oro, la migliore, per toccare con quella la mia anima, e se mi comprovasse che ho l'anima bene educata, saprei che altro non occorre e che non ci sarebbe bisogno di nessun'altro assaggio? CALL. [e] Perché mi chiedi questo, Socrate? SOCR. Ti dirò, perché ora, avendoti incontrato, credo di aver trovato codesto inaspettato tesoro! CALL. In che senso? SOCR. Sono convinto che se sarai d'accordo con me su quello che l'anima mia opina, basterebbe ciò perché questo fosse [487a] vero. Penso, infatti, che se si vuole saggiare l'anima come si deve, per sapere se vive o no rettamente, occorrono tre requisiti, e tu li possiedi tutti e tre: scienza, benevolenza, franchezza. Io m'incontro con molta gente che non è affatto capace di saggiarmi, perché non ha la tua cultura; altra, sì, è cólta, ma non vuol dirmi la verità, perché non ha per me quell'affetto che hai tu; questi due stranieri, Gorgia e Polo, sono addottrinati e tutti e due mi sono amici, ma difettano [b] di franchezza e sono troppo pieni di pudori; anzi, per codesto loro eccessivo pudore, sono perfino giunti a contraddirsi di fronte a molta gente e su argomenti della più grande importanza. Tutte le doti, invece, che agli altri mancano, tu le hai: hai ricevuto un'adeguata cultura, come molti Ateniesi confermerebbero, e mi sei benevolo. Quale [c] prova ne ho? eccola! so, Callicle mio, che siete in quattro compagni di studi, tu, Tisandro di Afidna, Androne figlio di Androzione e Nausicide di Colargo. Ebbene, una volta vi ho ascoltato mentre vi consigliavate fin dove si deve giungere nell'esercizio scientifico, e so che tra voi prevalse l'opinione che non si debba approfondire il filosofare fino [d] alla pedanteria, e che, anzi, vi esortavate a vicenda a fare attenzione perché la troppa dottrina, senza accorgervene, non avesse a guastarvi. Poiché ora ti ho ascoltato dare a me gli stessi consigli che allora davi ai tuoi amici più intimi, questa è per me una sufficiente prova, che mi sei davvero benevolo. Che poi non ti. manchi franchezza e tu non abbia pudori nel parlare, lo affermi tu stesso, e il tuo precedente discorso lo conferma. Evidentemente, dunque, [e] la questione sta ora in questi termini; ogni qual volta, nel corso della discussione, ti troverai d'accordo con me, ciò significherà che almeno quei punti saranno stati adeguatamente provati sia da me che da te, né vi sarà più bisogno di produrre altra prova: tu, certo, non mi darai la tua approvazione né per incompetenza, né per riguardo, né, tanto meno, per ingannarmi, poiché, come tu stesso dici, mi sei amico. Là dove, dunque, io e tu ci troveremo d'accordo, là significa che avremo còlto la verità. Pensando alle critiche che hai mosso alle mie ricerche, ebbene, Callicle, di tutte la ricer-[488a] ca più bella è proprio questa: indagare quale debba essere l'uomo, cosa l'uomo debba fare, e fino a qual termine, sia da giovane sia da vecchio. Ma sì! se talvolta io, nella mia vita, non agisco rettamente, sappi che non sbaglio perché lo voglio, ma per la mia ignoranza! Séguita, dunque, come hai cominciato, a correggermi! Solo che devi anche adeguatamente dimostrarmi che cosa mi conviene fare e in quale modo possa conseguire ciò, e se ora mi trovi d'accordo con te, mentre in séguito ti accorgerai che non agirò se-[b] condo quanto si è convenuto, considerami pure un vigliacco e non darmi più consigli, come a persona di nessun valore. Ma riprendi da capo il nostro discorso: come, tu e Pindaro, intendete il diritto secondo natura? è diritto secondo natura che il più forte s'impadronisca con la violenza degli averi del più debole, che i migliori abbiano il dominio dei peggiori, che colui che più vale possegga più di chi vale meno? Affermi forse che tale diritto consista in altro, ricordo con precisione?

XLIII. CALL. Sì, proprio questo ho detto, e lo ripeto! SOCR. Ma quando dici ‘migliore' e quando dici ‘più [c] forte', i due termini hanno per te lo stesso significato? perché neppure dianzi ho ben capito il tuo pensiero. Chiami migliori i più forti fisicamente e dici che a questi debbono obbedire i più deboli? come mi è sembrato tu ritenessi, quando hai detto che i grossi stati hanno per natura il diritto di assaltare i piccoli, solo perché sono più forti e più potenti, dando, appunto, a più forte, più potente, migliore, lo stesso significato; o si può essere migliori pur essendo meno potenti e più deboli? e più forti pur essendo più [d] malvagi? Identico è il significato di questi due termini, ‘migliore' e ‘più forte'? Questo mi devi definire con chiarezza: ‘più potente', ‘migliore', ‘più forte' hanno, o no, lo stesso significato? CALL. Ma sì! con tutta chiarezza ti dico che hanno lo stesso significato. SOCR. Ma la maggioranza è per natura più forte di uno solo? quella maggioranza che, come or ora dicevi, impone le proprie leggi al singolo. CALL. Come no? SOCR. Ma allora le norme legali istituite dalla maggioranza sono le norme dei più forti? CALL. Certo! SOCR. E, dunque, anche [e] dei migliori? ché, secondo il tuo pensiero, i più forti sono i migliori. CALL. Sì. SOCR. Buone appunto secondo natura sono le leggi della maggioranza, per il fatto che sono istituite dal più forte? CALL. Dico di sì. SOCR. Ma la maggioranza, come dianzi dicevi, pensa che l'uguaglianza sia giusta e che commettere ingiustizia sia [489a] più brutto che patirla? E' così o no? E sta attento a non cadere anche tu in falsi pudori! La maggioranza, insomma, pensa, o no, che l'uguaglianza, non avere il sopravvento, sia giusto, e che sia più brutto commettere che subire ingiustizia? Non mi negare la tua risposta, Callicle, perché se sei d'accordo con me avrò una conferma decisiva della bontà del mio pensiero, venendomi tale conferma da un uomo che sa davvero diagnosticare. CALL. Ma sì! la maggioranza pensa in questo modo. SOCR. Non è, allora, solo [b] per legge, ma anche per natura, che è più brutto commettere che patire ingiustizia, e che giusta è l'uguaglianza; finisce, dunque, che non vere erano le tue affermazioni di prima e che ingiustamente mi hai accusato dicendo che legge e natura sono antitetiche, e che io, sapendo questo, disonestamente uso questo trucco nei miei discorsi: se uno intende dire "secondo natura", io mi riferisco alla legge; se "conforme a legge", mi riferisco alla natura.

XLIV. CALL. Ma via! quest'uomo mai la smetterà con le sue sottili sciocchezze! Dimmi, Socrate, non ti vergogni alla tua età di andare a caccia di parole, e, se uno sbaglia [c] nell'uso di un termine, credere di aver fatto fortuna? Pensi davvero che altro sia per me il significato di ‘più forte', altro quello di ‘migliore'? non è già da un bel po' di tempo che sto dicendoti che, secondo la mia opinione, ‘migliore' e ‘più forte' hanno lo stesso significato? o credi che secondo me, per il fatto che un'accozzaglia di servi e di uomini di ogni genere e senza alcun valore, tranne, forse, la forza fisica, si siano riuniti e abbiano preso alcune delibere, queste abbiano significato legale? SOCR. E sia, dottissimo Callicle! Questo è il tuo pensiero! CALL.[d] Certo! SOCR. Sì, demoniaco uomo, anch'io, da un bel po' di tempo credo di aver capito, che, appunto, un qualcosa del genere debba significare per te l'espressione ‘più forte', e se ho insistito nella mia domanda, l'ho fatto perché desideravo comprendere con tutta chiarezza il tuo pensiero. In realtà, tu non ritieni che due, in quanto due, siano migliori di uno, né che i tuoi servi siano migliori di te, per il fatto che sono fisicamente più forti. Ricominciamo, dunque, da capo, e dimmi cosa intendi per ‘i migliori', dal momento che non sono ‘i più forti'. Ma, stupefacente amico, va con più calma nell'insegnarmi, per non costringermi ad abbandonarti. CALL. Tu fai giuochi di parole, [e] Socrate! SOCR. Oh no, per quello Zeto, Callicle, del quale ora ti sei tanto servito per far giuochi di parole alle mie spalle! Ma sù, dimmi, chi sono quelli che chiami ‘i migliori'? CALL. Quelli che valgono di più. SOCR. Vedi come anche tu non altro pronunci che parole, senza nulla chiarire? Vuoi dirmi se coloro che chiami i migliori e i più forti sono i più intelligenti o altri? CALL. Ma sì, per Zeus, intendo questi, e senza incertezze! SOCR. [490a] Allora, secondo te, può spesso accadere che uno, intelligente, è più forte di mille non intelligenti, e che questi deve avere in mano il potere, mentre gli altri debbono obbedire, e chi governa deve essere in una condizione superiore a quella dei sudditi. Ecco, mi sembra, quello che vuoi dire - e non sostenere che vado a caccia di parole - quando affermi che uno solo è più forte di mille. CALL. Proprio questo, io dico! In questo, penso, consiste il diritto di natura: chi sia migliore e più intelligente abbia in mano il potere e una condizione superiore rispetto a quelli che sono meno dotati.

[b] XLV. SOCR. Fermo! Cosa diresti ora in un caso come questo? se, per esempio, ci trovassimo riuniti in molti, come adesso qui, e avessimo in comune abbondanti cibi e abbondanti bevande, e fossimo gente di ogni tipo, forti e deboli, e tra di noi vi fosse un tale, il più intelligente di tutti in questo campo, perché medico, che però fosse, com'è naturale, più robusto di alcuni, più debole di altri, essendo, riguardo a cibi e bevande, il più intelligente, non sarebbe anche il migliore e il più forte di noi? CALL. Senza dubbio! SOCR. Già, ma allora, poiché è migliore, [c] dovrebbe anche avere una porzione di cibi più abbondante di noi? oppure, nella sua qualità di capo, dovrebbe pensare a distribuire i cibi senza pretendere, a vantaggio del proprio corpo, la parte maggiore nel consumo e nell'uso di essi, se non vuol danneggiarsi, ma prendere più di alcuni, meno di altri? e se per caso fosse il più debole di tutti, non è il migliore, Callicle, che dovrebbe avere la parte minore? Non è così, mio buon amico? CALL. Tu parli [d] di cibi, di bevande, di medici, di cosucce! Io non parlo di questo. SOCR. Ma non sostieni che il migliore è il più intelligente? L'hai dichiarato, o no? CALL. Sicuro! SOCR. Ma non hai detto che il migliore deve avere porzioni più grosse? CALL. Non di cibi e di bevande. SOCR. Capisco! ma sì di vesti, e il tessitore più bravo dovrà avere una veste più grande e se ne andrà passeggiando tutto avvolto in molti e magnifici drappi. CALL. Ma che vesti! SOCR. Ma per le scarpe è chiaro che il più intelli-[e] gente, il più bravo in fatto di calzari, dovrà averne più degli altri. Il calzolaio, sì, dovrà passeggiarsene calzando più paia di scarpe e più grandi di quelle degli altri. CALL. Ma che scarpe! Tu séguiti a dire sciocchezze. SOCR. Ma se non intendi parlare di vesti e di scarpe, vuoi forse parlare di questo: un agricoltore, ad esempio, intelligente, e bravissimo nel saper coltivare la terra, dovrà avere una porzione più grande di semi e potrà adoperarne in maggiore abbondanza per il suo terreno. CALL. Ripeti sempre le stesse cose, Socrate! SOCR. Non solo, ma anche, o Callicle, sullo stesso argomento. CALL. Per gli dèi, tu non hai in bocca che calzolai, cardatori, cuochi, medici, come se [491a] il nostro discorso avesse per argomento tale gente! SOCR. Lo dirai tu, allora, di cosa deve intendersi il più forte e il più intelligente, perché abbia il diritto di avere più degli altri? Cosa! non vuoi accettare i miei suggerimenti né dirlo tu stesso? CALL. Ma se è già un bel po' di tempo che lo dico! In primo luogo quando parlo dei più forti, non intendo calzolai o cuochi, ma quelle persone la cui intelligenza è volta agli affari dello stato, che sanno come si [b] debba amministrare la cosa pubblica, e che sono non intelligenti solamente, ma anche uomini di coraggio, capaci di portare a termine quello che pensano e che non indietreggiano nel loro compito per debolezza d'animo.

XLVI. SOCR. Vedi, ottimo Callicle, diverse sono le accuse che reciprocamente ci muoviamo. Tu dici che io ho sempre in bocca le medesime cose e me ne fai un rimprovero; io, all'opposto, che tu non parli mai ad un modo su [c] di uno stesso argomento, ma ora definisci i migliori e i più forti come i più robusti, ora come i più intelligenti, mentre adesso te ne vieni con altro: sostieni che i più forti e i migliori sono i più coraggiosi. Mio buon amico, deciditi una buona volta e di' chi sono, secondo te, i migliori e i più forti, e in quale campo! CALL. Ma se ho già detto che sono le persone che hanno intelligenza degli affari di stato [d] e che hanno coraggio. A tali uomini spetta il governo degli stati e giusto è che essi, i governanti, abbiano più degli altri, dei sudditi. SOCR. E che? rispetto a se stessi, compagno mio, cosa sono? governano o sono governati? CALL. Che vuoi dire? SOCR. Intendo dire che ciascuno abbia il governo di se stesso. O non ha alcuna importanza che abbiano il dominio di sé, basta lo abbiano sugli altri? CALL. Ma cosa vuoi dire con ‘avere il governo di se stesso'? SOCR. Nulla di complicato! ma proprio quello che intende la maggioranza, essere cioè assennato, padrone di sé, [e] capace di dominare le proprie passioni e i propri desideri. CALL. Ingenuo che sei! scemi sono quelli che tu dici saggi! SOCR. Ma via! Tutti capirebbero che non intendo affatto dire questo. CALL. Proprio così, invece, Socrate! e come potrebbe esser felice un uomo, se schiavo di qualsivoglia cosa? Ma sì, bello e giusto per natura è ciò che ora ti dirò con tutta franchezza: chi vuole vivere come si deve, ha da sciogliere, non da frenare, la briglia ai propri desideri per quanto grandi siano, e, per quanto grandi siano, deve esser capace di assecondarli con coraggio e con intelligenza e dare sempre piena soddisfazione alle [492a] proprie passioni. Ma tutto questo, penso, è impossibile per la maggioranza: ecco perché i più biasimano chi vive come dico io, per vergogna, credendo così di nascondere la propria impotenza; ed ecco perché sostengono che brutta cosa è la dissolutezza, come già dicevo, asservendo gli uomini migliori per natura e, non essendo capaci di dare piena soddisfazione alle proprie passioni, causa appunto [b] la loro impotenza, fanno l'elogio della temperanza e della giustizia. Per quanti, invece, fin dal principio hanno avuto in sorte di nascere figli di re, o per loro stessa natura sono capaci di conquistarsi un qualche potere, una tirannide, un regno, cosa per tali uomini vi sarebbe davvero di più brutto, di peggiore della temperanza e della giustizia? Essi che avrebbero la possibilità di godere tutti i beni, senza che nessuno lo impedisse, dovrebbero crearsi un padrone nella legge, nei ragionamenti, nei biasimi della maggioranza? E non sarebbero davvero infelici qualora si [c] sottoponessero a questa bella giustizia, a questa bella temperanza, senza per altro poter favorire gli amici più dei nemici, pur avendo in mano il governo della propria città? La verità che tu, Socrate, dici di cercare è questa: la licenza, la dissolutezza, la libertà e i relativi mezzi che le rendono possibili; ecco la virtù e la felicità; tutto il resto, tutti questi bei travestimenti, queste umane convenzioni contro natura, non sono che buffonate senza alcun valore.

[d] XLVII. SOCR. Non senza nobiltà e con franchezza, Callicle, hai preso d'assalto il discorso: con tutta chiarezza dici quello che gli altri pensano, ma non osano dire. Ti prego, continua così, sì che risulti evidente come si debba vivere. Dimmi, tu sostieni che non bisogna ponga freni alle proprie passioni chi vuol essere come si deve, bisogna, anzi, lasciarle libere di espandersi, dando loro, con ogni [e] mezzo, piena soddisfazione, e che, appunto, in questo consiste la virtù? CALL. Sì, proprio questo sostengo. SOCR. Non è, dunque, esatto dire che felici sono quelli che non hanno bisogni. CALL. Le pietre e i morti, in questo modo, sarebbero felici. SOCR. Ma anche la vita di cui tu parli è terribile, né mi stupirei che Euripide dicesse la verità, là dove si chiede:

chi sa mai se vivere è morire
e morire è vivere?

[493a] e davvero può darsi che noi, in realtà, siamo morti! come già ho sentito dire anche dai filosofi: noi, attualmente, siamo morti e nostra tomba [sèma] è il corpo [sòma] e quella parte dell'anima nella quale hanno sede le passioni, per sua natura si lascia trascinare, e in sù e in giù si lascia sospingere. Sotto forma di mito, questo disse un uomo assai fine, forse di Sicilia o italico; con un giuoco di parole chiamò orcio [pìthos] quella parte dell'anima così facile a farsi persuadere [pithanòs], e non-iniziati [amyetos] [b] chiamò gli uomini dissennati [anòetos], nei quali la parte dell'anima in cui hanno sede le passioni, la sua dissolutezza e permeabilità, raffigurò con un orcio forato, volendo così significare la sua insaziabilità. In senso opposto, invece, a quello che tu sostieni, Callicle, egli mostra che fra tutti coloro che sono nell'Ade - e con Ade intende l'invisibile [aidès] - proprio questi sono i più infelici, i non-iniziati, condannati, appunto, a versare acqua in un orcio forato con un vaglio anch'esso forato. Il vaglio - diceva [c] chi mi riferì il racconto - secondo lui significava l'anima, e nel vaglio raffigurava l'anima dei dissennati perché forata e incapace di trattenere in sé qualsivoglia cosa per la sua incredulità e oblio. Paragoni, questi, senza dubbio un po' strani, ma che chiariscono bene quello che vorrei dimostrarti, per convincerti, se ne sarò capace, a cambiare idea e a preferire ad una vita dissoluta e insaziabile, una vita ordinata, contenta e soddisfatta di quello che ha. Ma riuscirò a persuaderti di mutare idea, riuscirò a farti credere che la gente che abbia messo ordine in sé è più [d] felice di chi viva in modo dissoluto, o non cambierai affatto per quanti altri racconti possa ancora aggiungere? CALL. Sarà più vero ciò che hai detto in secondo luogo, Socrate!

XLVIII. SOCR. Ancora! ecco qua un'altra immagine, che riprendo dalla stessa scuola. Guarda un po' se puoi rappresentarti così la vita dell'uno e dell'altro uomo, quella del saggio e quella del dissoluto: se due persone possedessero molti orci - molti orci l'una e molti orci l'altra -, [e] e l'una li avesse sani e pieni, un orcio di vino, uno di miele, uno di latte e così via, e ambedue avessero liquidi rari, reperibili solo dopo molte e gravi fatiche, e una delle due persone quando avesse riempito gli orci di questi rari liquidi, non ne facesse venire più e mai più se ne occupasse, e per ciò, per quel che riguarda tali preziosi liquidi, se ne vivesse perfettamente tranquilla; l'altra persona, invece, avesse sì, come la prima, liquidi che, pur potendosi reperire, costano grandi fatiche, ma i suoi orci fossero forati e guasti, sì da esser costretta a riempirli continuamente, e [494a] notte e giorno, per evitare dolori e guai; ebbene, se davvero tali fossero la vita dell'una e la vita dell'altra persona, diresti ancora che la vita del dissoluto è più felice di quella dell'uomo misurato? Mediante questo mito ti ho persuaso, o no, a sostenere, in accordo con me, che una vita ordinata è migliore di una vita dissoluta? CALL. No, Socrate, non mi persuadi. No, perché colui che una volta per sempre ha riempito ben bene i suoi orci, non ne ricava più alcun piacere, e si riduce a vivere esattamente come ora dicevo, a vivere, riempiti i suoi orci, come una pietra, senza gioie [b] e senza dolori. Il piacere della vita, invece, proprio in questo consiste, in un continuo e grande fluire. SOCR. Ma se molto fluisce, non è fatale che molto si perda, che ben grandi bisogna siano i fori attraverso cui esce tale corrente? CALL. Senza dubbio! SOCR. Tu mi descrivi la vita di un caradrio, non la vita di un morto o di una pietra. Ma dimmi: secondo te una dolce vita consiste, per esempio, nell'aver fame e, avendo fame, nel mangiare? [c] CALL. Secondo me, si! SOCR. E nel bere quando si ha sete? CALL. Non solo, ma sostengo anche che vivere felicemente significa avere ogni sorta di desideri e la possibilità di soddisfarli in piena gioia!

XLIX. SOCR. Magnifico, ottimo amico mio! continua come hai cominciato e non avere pudori. Ma, sembra, neppure io debbo aver pudori. Dimmi, dunque, in primo luogo, se ritieni che vivrebbe felice chi, per esempio, avendo la scabbia e potendosi grattare a piacere, passasse la vita a [d] grattarsi. CALL. Che strano tipo sei, Socrate! un purissimo oratore popolare! SOCR. Ecco perché, Callicle, sono riuscito a confondere e a far vergognare Polo e Gorgia, ma tu, no, tu, certo, non ti confondi e non ti vergogni, poiché tu sei uomo di coraggio. Rispondi, dunque, e basta. CALL. Io dico che anche grattandosi, si passerebbe una piacevole vita. SOCR. Piacevole, e, dunque, felice? CALL. Certamente. SOCR. Se si ha voglia di [e] grattarsi la testa soltanto o anche...debbo continuare? Pensa un po', Callicle, cosa risponderesti se ti si ponessero una dopo l'altra una serie di questioni, tutte conseguenze di ciò che hai detto. Ma insomma, per venire, con un esempio, al nocciolo, la vita degli scostumati non è forse un'indegna, turpe, miserabile vita? o sarai tanto ardito da dire che anche costoro sono felici, qualora abbiano in abbondanza tutto quello che desiderano? CALL. Non ti vergogni, Socrate, di far scivolare il discorso su simili argomenti? SOCR. Ma sono io, nobile amico, che lo trasfe-[495a] risco su tali argomenti, o chi sostiene, senza mezzi termini, che felice è chi gode, quale che sia il suo piacere, senza distinguere tra piaceri buoni e piaceri cattivi? Ma sù, ancora una volta, dimmi: secondo te, piacere e bene sono la stessa cosa, o tra i piaceri ve n'è qualcuno che non è bene? CALL. Sì, dirò che sono la stessa cosa, perché poi il discorso non cada in contraddizione, se dicessi che il piacere è diverso dal bene. SOCR. Ma Callicle tu distruggi così ciò che hai detto in principio e non hai più titolo per proseguire con me la ricerca, se parli diversamente da quello che pensi. CALL. Ma anche tu, Socrate, lo fai! SOCR. [b] E se lo faccio, anch'io non faccio una cosa corretta, come non la fai tu. Ma, beato amico mio, rifletti a questo, che cioè il bene non sia identico ad ogni forma di godimento: se così fosse, tutte le molte e vergognose conseguenze a cui or ora abbiamo alluso, e tante altre, chiaramente verrebbero in luce. CALL. Secondo te almeno, Scorate! SOCR. Ma tu, Callicle, davvero persisti nella tua opinione? CALL. Sì.

[c] L. SOCR. Bisogna allora discuterla come se tu parlassi sul serio? CALL. Senza dubbio! SOCR. Bene, poiché questo è il tuo pensiero, dimmi con precisione: c'è qualcosa che chiami scienza? CALL. Io sì! SOCR. Ma non dicevi dianzi ch'esiste anche il coraggio accanto alla scienza? CALL. Sì, l'ho detto! SOCR. Altro dalla scienza è, dunque, il coraggio, dal momento che ne parli come di due cose diverse? CALL. Senz'altro. SOCR. E allora? Piacere e scienza sono la stessa cosa, o l'una è diversa dall'altra? CALL. Sono senza dubbio due cose diverse, [d] sapientissimo amico! SOCR. E anche il coraggio è diverso dal piacere? CALL. Come no? SOCR. Sù via, ricordiamoci questo allora, che Callicle, del demo di Acarne, ha detto che piacere e bene sono la stessa cosa, mentre scienza e coraggio sono diversi l'uno dall'altro e dal bene. CALL. Ma come, Socrate, del demo di Alopece, non è d'accordo con noi? O forse è d'accordo? SOCR. [e] Non è d'accordo, e, penso, che d'accordo non sarà neppure Callicle, quando avrà guardato meglio in se stesso. Dimmi: star bene e star male non credi siano due condizioni opposte? CALL. Secondo me, sì! SOCR. Se sono, dunque, condizioni opposte tra loro, varrà per esse ciò che, ad esempio, vale per la salute e per la malattia? Non si può essere sani e malati ad un tempo, né, ad un tempo, ammalarsi e guarire. CALL. Cosa vuoi dire? SOCR. Prendi in esame una qualsivoglia parte del corpo: soffre, o [496a] no, l'uomo una malattia di occhi, il cui nome è oftalmia? CALL. Come no? SOCR. Se ammalato di occhi, si può insieme dire che ha gli occhi sani? CALL. Certamente no! SOCR. E quando uno guarisce dall'oftalmia? perde in tal caso anche la salute degli occhi? insomma, si libera a un tempo dalla malattia e dalla salute? CALL. Ma no! [b] SOCR. Sarebbe cosa davvero miracolosa, credo, illogica, no? CALL. Senza dubbio! SOCR. Io penso invece che ci si ammala e si guarisce alternativamente. CALL. Sì! SOCR. E non avviene lo stesso anche per la forza e la debolezza? CALL. Sì! SOCR. Anche per la velocità e la lentezza? CALL. Certo! SOCR. Anche per i beni e la felicità, e per i loro contrari, i mali e l'infelicità? anche di questi l'uomo partecipa e di questi resta privo alternativamente? CALL. Senz'altro. SOCR. E allora, se troviamo [c] cose che si acquisiscono e ad un tempo si perdono, queste evidentemente non possono essere il bene e il male. Siamo d'accordo su questo? Pensaci bene e rispondi. CALL. Ma sì, sono più che d'accordo!

LI. SOCR. Possiamo allora tornare alle premesse, su cui ci siamo accordati prima. Avevi detto che la fame è piacevole o penosa? in quanto fame dico. CALL. Penosa! ma mangiare avendo fame è piacevole, dico io. SOCR. [d] Capisco. Ad ogni modo, però, la fame in quanto fame è penosa, o no? CALL. Sì. SOCR. Anche l'aver sete, dunque? CALL. Evidente. SOCR. Debbo seguitare con questo tipo di domande, o convieni senz'altro che ogni bisogno, ogni desiderio è penoso? CALL. Sono d'accordo, e non importa che tu continui. SOCR. Bene! Ma tu non sostieni che bere avendo sete è piacevole? CALL. Sì. SOCR. Ma quella tua espressione ‘avendo sete' non sta a [e] significare ‘soffrendo'? CALL. Sì. SOCR. L'atto del bere, invece, è soddisfazione di un bisogno e, quindi, piacere? CALL. Sì. SOCR. E' il bere in quanto bere, dunque, che secondo te provoca un godimento? CALL. Soprattutto questo! SOCR. Ma in quanto si ha sete? CALL. Sì. SOCR. E cioè soffrendo? CALL. Sì. SOCR. Non avverti le conseguenze che ne derivano? quando dici ‘bere avendo sete', non dici insieme godere e soffrire? Oppure godere e soffrire non avvengono a un tempo in uno stesso luogo del corpo o dell'anima, ché in questo caso non credo esservi differenza alcuna? E' vero o no? CALL. E' vero! SOCR. Ma tu hai detto prima che è impossibile stare [497a] bene e male ad un tempo. CALL. Sì, l'ho detto! SOCR. Ora, invece, hai convenuto ch'è possibile godere soffrendo. CALL. Sembra. SOCR. E allora, se godere non è stare bene e soffrire non è stare male, ne segue che il piacere è altro dal bene. CALL. Non so cosa tu vada sofisticando, Socrate. SOCR. Lo sai benissimo, Callicle, ma fai finta di non capire! Va pure avanti, prosegui pure sulla via segnata in partenza. CALL. Perché tanti rigiri? SOCR. Perché tu possa renderti perfettamente conto che [b] giuste sono le tue critiche nei miei confronti. Non è forse vero che, in ciascuno di noi, bevendo cessa insieme la sete e il piacere di bere? CALL. Non capisco quel che vuoi dire. GORG. Ma via, Callicle, non dire così! Rispondi, sia pur per venirci incontro, perché la nostra discussione giunga alle sue conclusioni. CALL. Ma Gorgia, sempre lo stesso è Socrate! Pone sempre domande su minuzzaglie, su questioni di scarsissima importanza e capziosamente ci discute sopra. GORG. E che te ne importa? Non è mica colpa tua, Callicle. Lascia che Socrate discuta come vuole. CALL. E va bene, poni pure le tue [c] minute e meschine domande, dal momento che così piace a Gorgia.

LII. SOCR. Felice te, Callicle, che sei stato iniziato ai Grandi prima che ai Piccoli Misteri: non credevo che fosse permesso. Ad ogni modo, riprendiamo da dove ti eri interrotto e rispondi se, in ciascuno di noi, bevendo, cessa insieme la sete e il piacere di bere. CALL. Sì. SOCR. E lo stesso avviene per la fame e per gli altri desideri? Se vengono meno, vien meno ad un tempo anche il piacere? CALL. Proprio così! SOCR. Ma, quindi, anche sofferenze [d] e dolori cessano insieme? CALL. Sì. SOCR. Il bene e il male, invece, non cessano mai insieme, come tu hai ammesso. Non sei più d'accordo ora? CALL. Sì, sono sempre della stessa opinione! Ma dove vuoi andare a parare? SOCR. A questo, che bene e piacere non sono identici, amico mio, identici sono male e pena, poiché gli uni vengono meno insieme, gli altri no, e ciò, appunto, per il fatto che sono diversi. Ma come potrebbero piacere e bene, pena e male essere identici? Ma, se vuoi, esamina pure la questione da quest'altro lato - neppure così, credo, sfuggirai alla [e] contraddizione - ; rifletti: i buoni non li dici buoni per la presenza del bene, sì come dici i belli per la presenza del bello? CALL. Io Sì! SOCR. Ma i dissennati e i vili, li diresti buoni? Non dicevi appena ora che buoni sono gli uomini di coraggio e di senno? Non sono questi che chiamavi buoni? CALL. Esatto ! SOCR. E che? Hai mai conosciuto un ragazzo senza senno che sia felice? CALL. Sì. SOCR. E uomini senza senno che siano felici, li hai mai conosciuti? CALL. Credo di sì. Ma che vuoi dire? [498a] SOCR. Nulla! Rispondimi e basta. CALL. Sì, ne conosco. SOCR. E soffrire e gioire uomini di senno? CALL. Sì. SOCR. E chi di più soffre o di più gioisce, il saggio o 1o stolto? CALL. Non credo ci sia molta differenza. SOCR. Ma anche su questo, tanto basta! Hai mai veduto in guerra un vile? CALL. Eccome! SOCR. E allora? Al ritirarsi del nemico ti sembravano più lieti i vili o i corag-[b] giosi? CALL. Gli uni e gli altri, press'a poco in egual misura. SOCR. Non importa. Sono dunque felici anche i vili? CALL. Sicuro! SOCR. Anche i dissennati, a quanto sembra. CALL. Sì. SOCR. E quando il nemico avanza sono solo i vili che soffrono, o anche i coraggiosi? CALL. Gli uni e gli altri. SOCR. In egual misura? CALL. Di più i vili, forse. SOCR. E quando il nemico si ritira non sono più felici? CALL. Forse! SOCR. Ma allora, dissennati e saggi, vili e coraggiosi soffrono e godono più [c] o meno nella stessa misura, come tu dici, e, se mai, più i vili dei coraggiosi? CALL. Sì. SOCR. Ma i saggi e i coraggiosi sono buoni, mentre i vili e i dissennati sono cattivi? CALL. Sì. SOCR. Buoni e cattivi, dunque, godono e soffrono più o meno nella stessa misura? CALL. Certo! SOCR. Ma buoni e cattivi sono buoni e cattivi in egual misura? o i cattivi sono buoni e cattivi ad un tempo in misura anche maggiore?

[d] LIII. CALL. No per Zeus, non so davvero cosa tu voglia dire! SOCR. Come, non sai che i buoni sono buoni per la presenza del bene - l'hai detto tu stesso - e i cattivi cattivi per la presenza del male? e che beni e piaceri s'identificano - l'hai detto tu - , come mali e dolori? CALL. Io sì. SOCR. Chi gode, gode dunque per la presenza di un bene, cioè di un piacere. CALL. Come no? SOCR. Ma allora, coloro che godono sono buoni per la presenza di beni? CALL. Sì. SOCR. E non è altrettanto vero, allora, che coloro che soffrono, soffrono per la presenza di mali, cioè di dolori? CALL. Senza dubbio. SOCR. Ma [e] non sei proprio tu a sostenere che i cattivi sono cattivi per la presenza di mali; non lo sostieni più? CALL. Lo sostengo ancora! SOCR. Buoni sono allora coloro che godono, cattivi quelli che soffrono? CALL. Esatto! SOCR. E chi gode di più è più buono, chi di meno meno, e press'a poco nella stessa misura, se uguale è la gioia e il dolore? CALL. Sì. SOCR. Ma non dicevi che press'a poco nella stessa misura godono e soffrono tanto gli uomini di senno quanto i dissennati, tanto i coraggiosi quanto i vili, e, se mai, più i vili dei coraggiosi? CALL. Sì, l'ho detto. SOCR. Date le premesse, volta a volta accordate, vediamo ora di trovare insieme le dovute conclusioni, tanto più che, [499a] come dicono, bello è ripetere e meditare due, tre volte le cose belle. Noi sosteniamo, dunque, che buono è l'uomo di senno e di coraggio, no? CALL. Sì. SOCR. E che cattivo è l'uomo senza senno ed il vigliacco? CALL. Senza dubbio. SOCR. E non abbiamo detto poi che buono è chi gode? CALL. Sì. SOCR. E cattivo chi soffre? CALL. Di conseguenza. SOCR. Che buono e cattivo godono e soffrono in egual misura, e, se mai, più il cattivo del buono? CALL. Sì. SOCR. Dobbiamo allora concludere che il buono e il cattivo sono ugualmente buoni, anzi [b] che il cattivo è più buono del buono? Non è questa, quella che abbiamo già detta, la conclusione, una volta ammessa l'identità tra piacere e bene? Non è questa, Callicle, la necessaria conclusione? 

LIV. CALL. Già da un pezzo, Socrate, sto qui ad ascoltarti e a rispondere sempre di sì, essendomi accorto che se uno, sia pur per giuoco, ti concede un punto, tu, sùbito, te ne impadronisci, tutto felice come un ragazzino. Ma davvero puoi credere che io, o qualsiasi altro uomo, non sappia che non tutti i piaceri sono uguali, ma che ve ne sono di migliori e di peggiori? SOCR. Ehi là là, [c] Callicle! Che birbante sei a prendermi in giro come un bambino, dicendo ora una ora altra cosa, tanto per ingannarmi! No, non credevo proprio, in principio, che tu avresti potuto scientemente ingannarmi, essendomi amico. M'ero sbagliato, invece! ed altro non mi resta, per dirla con il proverbio antico, che fare di necessità virtù, ed incassare quel che mi dài: quel che mi hai detto ora, no?, che vi son piaceri buoni e piaceri cattivi. E' così? CALL. Sì. SOCR. [d] I piaceri buoni saranno quelli utili, i cattivi quelli dannosi? CALL. Senza dubbio. SOCR. Utili quelli che hanno per effetto un qualche bene, cattivi quelli che hanno per effetto un qualche male? CALL. Sì. SOCR. Probabilmente stai pensando a quei certi piaceri del corpo di cui abbiamo parlato sopra, al piacere del mangiare e al piacere del bere? Buoni saranno quelli che procurano salute, o vigore, o qualsivoglia altro vantaggio fisico, cattivi invece quelli che producono l'effetto contrario? CALL. [e] Esatto ! SOCR. E lo stesso sarà per i dolori, alcuni saranno utili, altri penosi? CALL. Come no? SOCR. Si dovranno dunque preferire e ricercare i piaceri e i dolori buoni? CALL. Senza dubbio. SOCR. E i perversi no? CALL. Evidente. SOCR. E infatti, se ben ricordi, a me e a Polo risultava che tutto quel che si fa, lo si deve fare in vista del bene. Sei d'accordo anche tu su questo, che il fine di ogni azione è il bene e che tutto quel che facciamo [500a] lo dobbiamo fare in funzione del bene, e non il bene in funzione di altro? Abbiamo così, col tuo, un terzo voto favorevole? CALL. Sì. SOCR. Tutto si deve, dunque volere per il bene, anche il piacere, ogni altra cosa, e non il bene in vista del piacere. CALL. Senza dubbio. SOCR. Ma è cosa da tutti saper trascegliere tra i piaceri i buoni e i cattivi, oppure, caso per caso, c'è bisogno di un tecnico? CALL. Di un tecnico.

LV. SOCR. Rammentiamo allora ciò che già ho avuto occasione di dire a Polo e Gorgia. Se ti ricordi, dicevo [b] che tra i sistemi che preparano alla vita, ve ne sono alcuni che non hanno altro fine se non il piacere, e solo a questo è inteso ogni loro sforzo, senza conoscere affatto ciò che sia meglio e ciò che sia peggio, e altri che, invece, riconoscono il bene e il male. Tra i sistemi volti a procurare il piacere presi, come esempio, la culinaria, intesa come esperienza, non come arte; tra i sistemi volti al bene presi ad esempio la medicina. Ma in nome di Filio, Callicle, non ti mettere in capo di prenderti giuoco di me, e non rispondere, così, a caso, quel che viene viene, contro il tuo pensiero, né credere, come fai, che io parli per scherzo. Sì, perché, [c] come vedi, i nostri ragionamenti hanno per contenuto un argomento che chiunque abbia sia pur un minimo di senno deve prendere sul serio, più di ogni altro argomento, ché si tratta di sapere in quale modo si debba vivere, se la vera vita sia quella a cui tu mi esorti, sì da potere agire da uomo sul serio, e cioè parlare al popolo, esercitare la retorica, far politica, come voi ora la fate, o se, invece, la vera vita consiste nel dedicarsi alla filosofia, e in che cosa questo modo di vivere differisce da quello. La cosa [d] migliore sarà forse quella di distinguere, come avevo cominciato a fare, i due modi, e una volta distinti e messici d'accordo su questo, se davvero ci troviamo di fronte a due forme di vita, esaminare in che cosa siano diverse tra di loro e quale delle due forme sia da seguire. Ma forse non hai ancora ben capito quello che voglio dire. CALL. Non perfettamente. SOCR. Ti parlerò con maggior chiarezza. Dal momento che tu ed io ci siamo trovati d'accordo nel sostenere che esistono sia il bene che il piacere, che il piacere è diverso dal bene, e che, tanto per l'uno quanto per l'altro, vi è una pratica e un metodo per acquisirli, l'uno volto a cogliere il piacere, l'altro il bene... Ma prima [e] di tutto, sei o no all'unisono con me su questo punto? Sei all'unisono? CALL. Sono all'unisono con te.

LVI. SOCR. E allora, anche relativamente a quello che dicevo prima a Polo e a Gorgia, assicurami se ti è sembrato che fossi nel vero. Dicevo che quella del cuoco non mi pare che sia un'arte, ma un'esperienza, mentre la medi-[501a] cina sì; e sostenevo questo perché l'una, la medicina, ha studiato la natura di ciò che ha in cura e la causa del proprio agire e può rendere ragione di tutto quel che fa; mentre l'altra, quella del piacere, cui è rivolta ogni sua cura, tende al proprio fine indipendentemente da qualsiasi arte, non ha esaminato né la natura né la causa del piacere, procede, per così dire, in maniera assolutamente illogica, senza calcolo, conservando solo memoria, attraverso l'uso e l'esperienza, di quello che suole avvenire, e cercando con questi [b] stessi mezzi di procurare il piacere. Innanzi tutto, dunque, vedi un po' se quel che dico ti sembra adeguatamente dimostrato, e se anche per l'anima esistano tali mezzi, di cui alcuni, procedendo con arte, si preoccupano di ciò che sia il meglio per l'anima, altri, invece, non se ne dànno pensiero, e solo si preoccupano, come il corpo, di trovare un modo di procurare piacere all'anima, senza affatto ricercare, né se ne curano, quali siano i piaceri migliori, [c] quali i peggiori, solo avendo per scopo quello di dilettare, sia poi questo un bene, o sia un male. A me, pare, Callicle, che tali forme esistano, ed io le chiamo ‘adulazione', del corpo e dell'anima, di qualunque altro oggetto del quale ci si curi di procurare il piacere, senza ricercare affatto il meglio e il peggio. Ma tu, sei d'accordo con noi nel sostenere questo punto di vista, o ti opponi? CALL. No, non mi oppongo ma concordo, perché tu possa concludere e per far piacere al nostro Gorgia. SOCR. Ma [d] questi mezzi si possono esercitare su di un'anima sola e non su due o su molte? CALL. Non solo su una, ma anche su due e su molte. SOCR. Perché si possono lusingare anche molte anime insieme, senza preoccuparsi affatto del meglio? CALL. Lo credo bene!

LVII. SOCR. Mi sapresti dire ora quali sono le attività che hanno, appunto, questo scopo? o meglio, se preferisci, ti porrò io delle domande e quando nominerò un'attività che ti sembri appartenere a questi tipi, rispondi sì, e se [e] no, no. E cominciamo con l'esaminare la flautistica: non ti sembra, Callicle, che la flautistica sia tra quelle attività che vanno cercando solo di procurarci piacere, senza preoccuparsi di altro? CALL. Mi sembra di sì. SOCR. E non dobbiamo forse ripeterci per tutte le altre attività di questo tipo, ad esempio per la citaristica, quale si usa nelle gare pubbliche? CALL. Sì. SOCR. E tali non sono anche l'insegnamento dei cori e la poesia ditirambica? Non ti sembrano dello stesso genere? Credi forse che Cinesia, figlio di Meleto, avesse in animo di [502a] migliorare con i suoi versi i propri ascoltatori, o, comunque fosse, di divertire il pubblico degli spettatori? CALL. Per quanto riguarda Cinesia sì, Socrate, la cosa è evidente. SOCR. E suo padre Meleto? credi proprio che, mentre cantava al suono della cetra, tenesse gli occhi fissi al meglio? o Meleto non si preoccupava neppure di divertire? i suoi canti annoiavano il pubblico! Ad ogni modo rifletti a questo: non ti sembra che ogni forma di poesia citaredica e ogni forma di poesia ditirambica siano state ritrovate solo in vista del diletto? CALL. Sì. SOCR. [b] E la stessa solenne, mirabile poesia tragica di cosa soprattutto si preoccupa? Il suo scopo, la sua attenta ricerca, secondo te, sono rivolti solo a divertire il pubblico, o essa, invece, polemizza anche con gli spettatori e se qualche cosa sia loro piacevole e gradita, ma dannosa, cerca in tutti i modi di non dirla, mentre se qualcosa possa riuscir spiacevole, ma utile, questa dirà, questa canterà, sia o no gradita al pubblico? Quale ti pare la via battuta dalla poesia tragica? CALL. Evidentemente, Socrate, essa batte piuttosto la via del piacere, la via che porta a suscitare il gradi-[c] mento degli spettatori. SOCR. Ma, Callicle, non abbiamo detto che tutto questo è ‘adulazione'? CALL. Esattamente! SOCR. Bene! e allora, se spogliamo la poesia dalla melodia, dal ritmo, dal metro, cosa rimane se non il discorso? CALL. Per forza! SOCR. E tali discorsi non vengono forse pronunciati di fronte a numeroso popolo? CALL. Sì. SOCR. La poesia, allora, è una specie di orazione popolare? CALL. Sembra. SOCR. Sarebbe cioè una popolare orazione retorica: non ti sembra [d] che nei teatri i poeti facciano retorica? CALL. Mi sembra di sì. SOCR. Ecco! noi abbiamo trovato ora una specie di retorica che ha per spettatore tutto un popolo, formato di ragazzi, di donne, di uomini, di gente servile e di persone libere, tutti insieme, retorica che stimiamo assai poco, poiché secondo noi non è che "adulazione". CALL. Senza dubbio.

LVIII. SOCR. Già! ma che dire allora della retorica rivolta [e] al popolo di Atene, a tutti i popoli che vivono in liberi stati? Ti sembra che i rètori parlino sempre pensando al meglio, preoccupati solo che i cittadini, in virtù dei loro discorsi, diventino migliori, o anch'essi, gli oratori politici, solamente si propongano di compiacere alla cittadinanza, e in funzione del proprio vantaggio personale, senza pensare affatto al bene comune, parlino ai popoli come se fossero ragazzi, cercando solo di compiacerli, senza che neppure passi loro per la mente se con ciò migliori o peggiori [503a] divengano i popoli? CALL. Oh no! non è semplice quello che mi chiedi, poiché vi sono alcuni rètori che parlano sentendo la responsabilità di quel che dicono nei confronti dei cittadini, mentre altri sono senza dubbio quali tu li descrivi. SOCR. Mi basta! se è vero che vi sono queste due forme di oratoria, l'una delle due rimane sempre ‘adulazione' e brutta demagogia, mentre bella è l'altra, questo tentativo cioè che, quanto più è possibile, migliori divengano le anime dei cittadini, e questo lottare dicendo sempre il meglio, piacevole o spiacevole esso sia per gli [b] ascoltatori. Ma simile retorica tu non la vedesti mai! e se, d'altra parte, puoi fare il nome di uno di questi rètori, perché non mi hai detto sùbito chi è? CALL. No, per Zeus, tra i rètori di oggi non saprei citartene nessuno. SOCR. Ma tra quelli del passato avresti da indicarmene qualcuno, grazie al quale gli Ateniesi siano divenuti migliori dal momento ch'egli abbia cominciato a parlare al popolo, mentre prima erano peggiori? No, io non conosco alcun rètore di questo tipo. CALL. Ma come, non hai [c] mai sentito dire che uomo davvero perbene fu Temistocle, e così Cimone, Milziade ed il celebre Pericle, morto da poco, e che tu stesso hai potuto ascoltare? SOCR. Sì, caro Callicle, se vera virtù è quella che tu così chiamavi prima, soddisfare cioè le proprie e le altrui passioni! Ma se non è in questo modo, se vera virtù è quella che in séguito siamo stati costretti ad ammettere, che bisogna cioè soddisfare solo quegli appetiti che, soddisfatti, rendono l'uomo migliore, e non quelli che, invece, lo rendono peg-[d] giore, se questa è un'arte, puoi tu indicare se è mai esistito un uomo che ne sia stato in possesso? CALL. Non so davvero cosa risponderti.

LIX. SOCR. Se cercherai come si deve, troverai! Esaminando pacatamente la questione, vediamo se qualcuno degli oratori citati sia stato un uomo simile. L'uomo virtuoso che parla in funzione del più alto bene, quello che dice non lo dirà certo a caso, ma tenendo l'occhio fisso a qualcosa, [e] no? Egli si comporterà come si comportano tutti gli artefici, che, tenendo ciascuno l'occhio fisso, al proprio lavoro, non scelgono a caso i pezzi dell'opera che hanno tra le mani, ma l'un pezzo e l'altro in funzione di una certa qual forma che l'opera loro deve rappresentare. Guarda, se vuoi, i pittori, gli architetti, i costruttori di navi, qualsivoglia altro artefice ti piaccia, ciascuno pone i pezzi del proprio lavoro in un dato ordine, e fa sì che ogni parte si adatti e si armonizzi con l'altra, fino a che risulti un tutto [504a] perfettamente proporzionato e ordinato. E così fanno anche gli altri artefici, quelli di cui or ora parlavamo, e che si occupano della cura dei corpi, i maestri di ginnastica e i medici, anch'essi dànno ordine e proporzione alle membra. Siamo d'accordo che sia così, oppure no? CALL. Sia pur così! SOCR. Una buona casa, dunque, sarà una casa costruita con ordine e proporzione, se no sarà una pessima casa? CALL. Sì. SOCR. Lo stesso sarà per una [b] nave? CALL. Sì. SOCR. E lo stesso dovremo ripetere per i nostri corpi? CALL. Senza alcun dubbio! SOCR. E dell'anima? E' il disordine a renderla buona, o, invece, l'ordine e una qual certa proporzione? CALL. Date le premesse si deve necessariamente ammettere anche questo. SOCR. E che nome, relativamente al corpo, ha il qualcosa da cui risulta ordine e proporzione? CALL. [c] Vuoi dire, forse, salute e robustezza? SOCR. Sì. E relativamente all'anima che nome ha il qualcosa da cui risulta ordine e proporzione? Cerca di trovare e di dire tu stesso il nome come hai fatto per il corpo. CALL. E perché, Socrate, non lo dici tu? SOCR. Se preferisci, lo dirò io; e tu, se ti sembra giusto quello che dico, acconsenti, ma se no confutami e non lasciar correre. A me pare che per quel che riguarda il corpo l'ordine si chiami sanità, donde deriva al fisico salute e ogni altra virtù. E' vero o no? CALL. Vero! SOCR. E che l'ordine e la proporzione che riguar-[d] dano l'anima abbiano nome legalità e legge, donde si formano gli uomini legali e ordinati. Ecco da dove proviene giustizia e temperanza. Sì o no? CALL. Sia!

LX. SOCR. Sarà, dunque, tenendo l'occhio fisso a tutto questo che quel tipo di rètore, il bravo e buon rètore, rivolgerà alle anime ogni suo discorso, e a tale fine volgerà ogni sua azione, e tutto ciò che concederà al popolo, quando lo concederà, tutto ciò che proibirà, quando proibirà, tutto farà avendo sempre il pensiero a quest'unico scopo, che nelle anime dei suoi concittadini s'ingeneri la giustizia [e] e l'ingiustizia scompaia, s'ingeneri la temperanza e la dissolutezza scompaia, s'ingeneri ogni altra virtù ed il vizio venga estirpato. Sei d'accordo o no? CALL. D'accordo! SOCR. Perché, Callicle, cosa mai giova somministrare a un corpo, malato e mal ridotto, cibi e bevande in abbondanza, anche se squisiti, quando questi non gli saranno di alcun vantaggio, anzi, com'è facile capire, lo danneggeranno sempre di più? E così? CALL. Diciamo di sì. SOCR. Certo, [505a] perché sono convinto che all'uomo non giova vivere con il corpo in cattive condizioni, ché, in tal modo, la sua stessa vita necessariamente sarebbe una gran brutta vita. Non è così? CALL. Sì. SOCR. Tanto è vero che nel dar soddisfazione agli appetiti, come mangiare quando si ha fame, bere quando si ha sete, a volontà, è cosa che, in genere, i medici permettono a chi sia sano, mentre all'ammalato quasi sempre proibiscono tutto ciò che desidera. Sei d'accordo anche tu su questo punto? CALL. Sì. [b] SOCR. E non vale lo stesso argomento anche per l'anima, ottimo amico mio? Fino a quando l'anima sia in cattiva condizione, perché irragionevole, non castigata, ingiusta, empia, bisognerà frenarla nelle sue passioni e non permetterle di fare se non ciò che possa renderla migliore. Sì o no? CALL. Sì. SOCR. Perché questo è, appunto, il meglio dell'anima? CALL. Senza dubbio! SOCR. Ma proibirle quello che desidera non è forse per essa un castigo? CALL. Sì. SOCR. Per l'anima, dunque, è meglio il castigo che l'essere non castigata, contrariamente a quanto [c] tu prima pensavi. CALL. No, Socrate, non capisco proprio quello che dici interroga un altro! SOCR. Niente da fare! quest'uomo non tollera d'essere aiutato, non sopporta che su di lui si eserciti proprio quello di cui stiamo discorrendo, l'esser castigato. CALL. E a me non interessa un bel nulla dell'oggetto del tuo discorso, e se finora ti ho risposto l'ho fatto per compiacere a Gorgia. SOCR. E va bene! ma che faremo ora? Dobbiamo lasciare, così, il discorso a mezzo? CALL. Lo sai tu! SOCR. Ma se neppure i miti, dicono, è permesso lasciarli a mezzo! [d] anche ai miti, anzi, bisogna aggiungere la testa, perché non vadano in giro senza capo. Rispondi, dunque, anche al resto, sì che la nostra discussione venga anch'essa a un suo capo.
 

LXI.   CALL. Come sei violento, Socrate! Se dài retta a me, dirai addio a questa discussione, o seguiterai a discorrere con altri. SOCR. C'è qualche altro disposto a interloquire? Non si può certo lasciare incompiuto il nostro discorso. CALL. Ma non potresti continuare da te il ragionamento, o parlando tu solo, o rispondendo a te stesso? [e] SOCR. Perché mi accada quel che dice Epicarmo: "Sarò da solo capace di dire quello che prima dicevamo in due"! Eppure va a finire che sarò costretto a fare proprio così. Solo che se faremo in questo modo, tutti, io credo, dobbiamo essere animati dal desiderio di vincerci l'un l'altro nel sapere dove sia il vero e dove il falso nell'argomento che stiamo discutendo, ché bene comune è per tutti giungere a questo nella maniera più chiara possibile. Io dunque seguiterò a esporre il mio punto di vista; ma se [506a] a qualcuno di voi sembra che io conceda a me stesso quel che non è, deve interrompermi e confutarmi. Oh sì, perché quello che dico non lo dico perché già so, ma io cerco, e cerco insieme a voi, per cui se il contraddittore sembrerà dire cosa giusta, sarò il primo ad essere d'accordo con lui. Certo, ho così parlato nel caso vi sembri che il discorso debba trovare una sua conclusione, ma se non volete lasciamo stare e andiamocene via. GORG. No, Socrate, non mi sembra sia il caso di dovercene andare; è il caso [b] anzi, che tu conduca sino in fondo il tuo ragionamento, e della stessa mia opinione credo siano tutti gli altri. Personalmente ho una gran voglia di ascoltare come si concluda il tuo ragionamento. SOCR. Anch'io Gorgia, avrei continuato con piacere a discorrere con Callicle, finché non gli avessi recitato la tirata di Amfione in cambio di quella di Zeto. Ma poiché tu, Callicle, non vuoi più proseguire il ragionamento insieme a me, interrompimi, almeno, se, ascoltandomi, ti sembra che su qualche punto [c] io non sia nel giusto. Se mi rivolgerai delle critiche non me la prenderò con te come fai tu con me, ma t'iscriverò tra i miei più grandi benefattori. CALL. Ottimo amico, parla tu e concludi.
 

LXII. SOCR. E tu ascolta: riprenderò, fin dal principio il filo del discorso. Piacere e bene sono la stessa cosa? - No, come io e Callicle abbiamo convenuto. - Ma è il piacere che deve essere usato in funzione del bene, o il bene in funzione del piacere? - Il piacere in funzione del bene - . Piacere è ciò la cui presenza suscita [d] in noi piacere, e bene è ciò la cui presenza ci rende buoni? - Esattamente. - Ma siamo buoni, noi e tutte le cose buone, per la presenza di qualche virtù? - Mi sembra necessario, Callicle! - Ma la virtù propria di qualsivoglia cosa, quella di un arnese, come quella di un corpo, di un'anima, di ogni essere vivente, non si forma a casaccio, ma grazie a un ordine, a una rettitudine, a un'arte, [e] propri di ciascuna cosa: vero? - Direi di sì. - La virtù di ciascuna cosa, dunque, consiste in un ordine e in un'armonia risultante da una giusta proporzione? - Mi parrebbe di sì. - Un ordine, che si venga formando in una cosa, e che, perciò, le sia proprio, non la rende forse buona? - Mi sembra. - Anche l'anima, dunque, che sia ordinata, secondo il proprio ordine, è migliore di un'anima disordinata? - Necessariamente. - Ma l'anima che si venga ordinando secondo il proprio ordine è ordinata? - Senza dubbio. - E assennata [507a] è un'anima ordinata? - Assolutamente. - E un'anima assennata è un'anima buona. Amico Callicle, a tutto questo non ho nulla da obbiettare, ma se tu hai da dire qualcosa in contrario, fammi sapere di che si tratta! CALL. Parla pure, mio caro. SOCR. Bene, e dico che se è vero che un'anima assennata è buona, è altrettanto vero che un'anima, che sia stata determinata in modo opposto alla saggezza, è cattiva: e tale è l'anima dissennata e non castigata. - Perfettamente. - Non solo, ma l'uomo di senno si comporterà come deve di fronte agli dèi e agli [b] uomini: non sarebbe saggio se si comportasse in altro modo. - Necessaria conclusione. - Agire nei confronti degli dèi è agire piamente, e chi agisce secondo giustizia e secondo pietà è necessariamente uomo giusto e pio. - Proprio così!- E altrettanto necessariamente è coraggioso, ché non sarebbe da uomo di senno ricercare e fuggire ciò che non si deve cercare e fuggire: ma di qualunque cosa si tratti, cose e uomini, piaceri e dolori, fuggirà e cercherà ciò che è bene cercare e fuggire, e, quando sia necessario, resisterà, tenendosi fermo al suo posto. Neces-[c] saria conseguenza, Callicle, è, dunque, che l'uomo di senno, come abbiamo detto, sia giusto, coraggioso, pio, e, perciò, perfettamente buono, e che, appunto in quanto buono, tutto quello che fa lo fa bene, virtuosamente, e che necessariamente beato e felice è chi agisce bene, mentre infelice è il malvagio in quanto agisce male; tale è chi sia l'esatto opposto dell'uomo di senno, quel dissoluto che tu dianzi esaltavi.

LXIII. Ecco la mia tesi, ecco come in realtà stanno le cose, e questa, dico, è la verità; e se tale è la verità, chi vuole [d] essere felice deve, evidentemente, cercare di esercitare la temperanza, fuggire a piè veloce la dissolutezza e, innanzi tutto, volgersi con ogni cura a non aver bisogno di castighi; ma se ne avesse bisogno, egli o chiunque gli stia a cuore, privato cittadino o stato, deve pagare il suo debito alla giustizia, dev'essere castigato, se vuole essere davvero felice. Questo, sono convinto, il fine a cui bisogna tenere fisso lo sguardo nella vita, a questo scopo volgere ogni sforzo, nostro e dello stato, perché giustizia e temperanza mettano radice in chi voglia essere felice, e in tal modo [e] agire, non lasciando andare senza freno alcuno gli appetiti, dando a tutti piena soddisfazione - male senza rimedio -, in una vita da vero scellerato. Simile uomo, anzi, non può essere amico né agli uomini né a Dio; impossibile è vivere in una umana relazione se non c'è amicizia. Chi se ne intende dice, invece, o Callicle, che cielo, terra [508a] dèi, uomini, sono collegati in un tutto grazie all'unione, all'amicizia, all'armonia, alla temperanza, alla giustizia, e che per tale ragione, amico mio, questo tutto è chiamato ‘cosmo' [ordine], e non ‘acosmìa' [disordine] e dissolutezza. Ma tu, mi sembra, non poni attenzione a questo motivo, pur intendendotene, ma oscuro ti resta quale mai grande potenza abbia tra uomini e dèi l'uguaglianza geometrica, e perciò credi si debba, invece, esercitare la strapotenza: ecco perché non consideri la [b] geometria. Ad ogni modo, o bisogna confutare il mio ragionamento e dimostrare che non è affatto vero che giustizia e temperanza sono ciò che debbono acquisire i felici per essere felici e che non è la malvagità che rende infelici, o, se questo è vero, perché così avvenga. Accade appunto, Callicle, tutto quello che sopra dicevo e per cui mi hai domandato se parlavo sul serio, quando sostenevo che bisogna accusare se stesso, il proprio figlio, il compagno, qualora si commetta ingiustizia, e che a questo serve la retorica; ciò che, dunque, Polo, secondo te, concedeva per pudore, era verissimo e cioè che commettere ingiustizia è di fronte al subirla tanto più turpe quanto più è malva-[c] gio; e pur bisogna che colui il quale intende esser correttamente rètore, sia anche giusto e sappia di giustizia, la quale cosa, Polo, a sua volta, sosteneva che Gorgia aveva concesso per pudore.

LXIV. Poiché, dunque, così stanno le cose, esaminiamo ora il significato del tuo rimprovero, e se giusto sia, o no, quello che tu dici, che io, cioè, non sono capace di venire in aiuto né a me stesso, né agli amici, né ai miei familiari, né di salvare me e gli altri dai più gravi pericoli; che io sono nelle mani del primo venuto, come chi sia privo dei [d] diritti civili e che chiunque può schiaffeggiare, secondo la tua baldanzosa, giovanile espressione, confiscargli i beni, mandarlo in esilio, e perfino ucciderlo; secondo il tuo modo di ragionare, trovarsi in simili condizioni è la cosa più brutta che ci sia mentre quale sia il mio pensiero già ho espresso più volte, ma nulla vieta che ancora una volta lo ripeta. Io sostengo, Callicle, che l'essere ingiustamente preso a schiaffi non è la cosa più vergognosa [e] che ci sia, né l'aver tagliato il corpo e la borsa, ma che più brutto, più malvagio è battermi, ferirmi, derubarmi, ingiustamente, che cioè derubarmi, ridurmi in servitù, violare il mio domicilio, fare, insomma, violenza contro di me e contro le mie cose, è più brutto, è peggio per chi commette tali ingiustizie che per me che le subisco. Tali punti di arrivo, che già dai precedenti ragionamenti sono risultati non poter essere che giusti, stanno lì, come [509a] dico io, se troppo grossolana non è l'espressione, fissi e incatenati con ragioni di ferro e di adamanto - per quanto almeno sembra fino ad ora -, e se tu, o altro più ardito di te, non riuscirai a rompere tali ragioni, non si può, a voler pensare come si deve, se non giungere alle conclusioni cui sono giunto io. Ad ogni modo, ancora una volta lo ripeto, io non so affatto come in realtà stiano le cose, ma questo sì, lo so, che ogni qual volta mi sono incontrato con qualcuno, come ora con voi, nessuno, mai, ha parlato in maniera diversa, senza coprirsi di ridicolo. Io, dunque [b] pongo che così stiano le cose: se così sono, se l'ingiustizia è per chi la commette il più grande dei mali, se male ancor più grande - fosse possibile! - è non pagare alla giustizia i propri debiti, quale l'aiuto che l'uomo deve dare a se stesso, se non vuole ricoprirsi davvero di ridicolo? Non forse quell'aiuto che serva a salvarci dal danno più grave che ci sia? Questa, fatalmente, è la più vergognosa mancanza che possa capitare: non poter venire in aiuto a noi stessi, agli amici, ai propri familiari; mentre, in secondo luogo, si presenta l'impotenza di venirci in aiuto contro il [c] secondo male, in terza posizione l'incapacità di difenderci dal terzo malanno, e così via di séguito. Quanto grande, in una parola, è il male, tanto grande è la bellezza di poterci venire in aiuto e tanto grande la vergogna di non poterlo. E' o no così, Callicle? CALL. Proprio così!

LXV. SOCR. Di questi due mali, dunque - commettere e subire ingiustizia - , io sostengo che maggiore è commetterla, minore subirla. Di cosa, allora, dovrà preoccu-[d] parsi l'uomo per procurarsi un aiuto nei confronti dell'uno e dell'altro male, sia contro il commettere ingiustizia sia contro il patirla? Potere o volere? Voglio dire cioè: basterà che non voglia, perché non gli venga fatta violenza; o, invece, non gli verrà fatta violenza solo se riuscirà a procurarsi il potere di evitarla? CALL. Chiaro, solo in questo modo, se riuscirà a procurarsi il potere! SOCR. E come farà per non commettere ingiustizia? Basterà che [e] non voglia essere ingiusto, per non commetterla, o, invece, anche per questo, dovrà procurarsi una qual certa capacità e un'arte, senza apprendere, senza esercitare le quali seguiterà a commettere atti ingiusti? Ma perché, Callicle, non mi rispondi, perché non dici se ti sembra, o no, che Polo ed io siamo stati a ragione costretti, sopra, durante il corso della nostra discussione, ad ammettere quel che abbiamo ammesso, quando abbiamo convenuto che nessuno volontariamente commette ingiustizia, ma che tutti coloro che la commettono lo fanno involontariamente? [510a] CALL. Ma sì, Socrate, sia pure in questo modo, perché tu possa condurre a termine il tuo ragionamento! SOCR. Anche per questo, dunque, anche per non commettere ingiustizia, dobbiamo procurarci una qual certa capacità, un'arte? CALL. Senza dubbio. SOCR. Ma quale mai arte ci dà i mezzi per non subire ingiustizie o per subirle il meno possibile? Guarda un po' se pensi come me. Io penso sia questa: avere in mano il potere della città o essere tiranno, o parteggiare per il governo in carica. CALL. Vedi, Socrate, come volentieri e sùbito t'approvo, quando dici cose giuste! Mi sembra proprio che tu abbia parlato molto [b] bene.

LXVI. SOCR. Guarda un po', allora, se anche questo ti sembra detto bene. Credo che la più profonda amicizia possibile sia, come dicono anche i saggi antichi, quella del simile per il suo simile. Non lo credi anche tu? CALL. Sì. SOCR. Quando, dunque, abbia in mano il governo un tiranno, rozzo e incolto, se nella stessa città vi sia qualcuno migliore di lui, il tiranno ne avrà paura e mai potrà dive-[c] nirgli amico. CALL. Certo! SOCR. Ma neppure se vi sia qualcuno di gran lunga peggiore di lui! il tiranno lo disprezzerebbe, né potrebbe provare nei suoi confronti un sentimento di seria amicizia. CALL. Anche questo è vero. SOCR. L'unico amico, dunque, che logicamente resta al tiranno è chi, avendo la sua stessa mentalità, e biasimando e approvando le sue stesse concezioni, è disposto ad obbedire e a rimaner soggetto al signore. Grande sarà in tale stato il suo potere e nessuno gratuitamente lo potrà toccare. [d] Non è così? CALL. Sì. SOCR. Se in quello stato, dunque, un giovane pensasse: "In quale modo potrei divenire molto potente senza che nessuno mi molesti?". Questa, sembra, la via che dovrebbe tenere: fin da giovane abituarsi, sùbito, ad ingraziosirsi il padrone, ad avere i suoi stessi gusti, e a cercare, quanto più gli è possibile, di essere simile a lui. Non è così? CALL. Sì. SOCR. Un uomo del genere sarebbe, dunque, in grado di mettersi [e] al riparo da ogni sopruso, e di avere, come suonano le vostre parole, un gran potere nello stato. CALL. Senza dubbio. SOCR. Ma sarà anche capace di non commettere ingiustizia? o ne sarà invece lontanissimo, dal momento che somiglia al suo padrone, che è ingiusto, e godendo su lui di un grande potere? Io credo, invece, che sia tutto il contrario, che questo sia, anzi, il sistema con cui prepararsi i mezzi per commettere ogni genere d'ingiustizia e non dover pagare il debito delle proprie colpe. Non ti sembra? CALL. Chiaro ! SOCR. Egli, dunque, a causa di questo [511a] suo mimetizzarsi col padrone e per questo suo potere, si procurerà il male più grande che ci sia, avendo l'anima guasta e perversa. CALL. Non so proprio come fai, Socrate, a capovolgere ogni volta dall'alto in basso i discorsi! Ma non sai che colui che imita il tiranno potrà, se vuole, mettere a morte chi si rifiuta d'imitare il signore e confiscargli ogni suo bene? SOCR. Lo so, mio buon Callicle, [b] non sono mica sordo! Me lo sono sentito dire da te e poco prima da Polo, e tante mai volte me lo sono sentito ripetere da quasi tutti gli altri cittadini. Ma tu, via, ascolta anche quello che rispondo io: quel tale ucciderà pure quando voglia, ma sarà sempre un malvagio che fa morire un uomo per bene. CALL. E non è proprio questa la cosa più deplorevole? SOCR. No, per chi abbia intelletto, come chiaramente indica il ragionamento. O, forse, tu pensi che l'uomo non debba avere altro scopo se non di vivere il più a lungo possibile e di studiare le tecniche che ci [c] salvano dai pericoli, come, ad esempio, la retorica che tu mi esortavi a studiare, quella certa retorica che ci salva nei tribunali? CALL. Sì, per Zeus, certo! e credo proprio di averti dato un ottimo consiglio.

LXVII. SOCR. E che, mio buon amico, la scienza del nuoto, anche questa ti sembra una nobile scienza? CALL. No, per Zeus! SOCR. Eppure salva anch'essa l'uomo dalla morte, quando vi sia bisogno di saper nuotare. Ma se tale scienza ti sembra cosa da poco, te ne citerò una di maggior [d] valore, l'arte della navigazione, che non solo salva le anime, ma anche i corpi e gli averi dai pericoli estremi, proprio come la retorica: eppure essa è un'arte umile e semplice, né altèra se ne va e pomposa come se facesse chi sa mai quale grande cosa. Anzi, pur non facendo meno di quello che fa l'oratoria forense, quando ci ha salvati, trasportandoci da Egina a qui, se non erro ci prende due oboli, e se dall'Egitto o dal Ponto, per un sì grande servizio, dopo [e] aver salvato, come dicevo, te, i figliuoli, gli averi, la moglie, quando ti sbarca nel porto, non ti chiede al massimo che due dracme; e chi possiede tale arte, chi tanto ha saputo fare, sceso a terra, passeggia lungo il mare vicino alla sua nave, in modesto atteggiamento. Questo, io credo, perché sa quanto sia difficile, impossibile calcolare a chi tra i passeggeri abbia giovato e a chi abbia, invece, nociuto, facendo in modo che non naufragassero, ben sa-[512a] pendo che non li ha sbarcati migliori, nel corpo e nell'anima, di come li aveva imbarcati. Il suo ragionamento è che se uno fisicamente sofferente per gravi e incurabili malattie non è annegato, è infelice per non esser morto e dall'opera sua non ha tratto alcuna utilità; e che se uno porta nell'anima, che vale tanto più del corpo, numerose e incurabili malattie, per un simile uomo non merita il conto di vivere, né certo gli si gioverebbe salvandolo dal mare, [b] dai tribunali, da qualsivoglia altra cosa: egli sa che per chi sia malvagio è meglio non vivere, poiché in simili condizioni è fatale vivere male.

LXVIII. Ecco perché di regola il pilota non si dà arie, sia pur salvandoci. E neppure, stupefacente amico, grandi arie si dà il costruttore di macchine belliche, il quale può talvolta salvare, non solo quanto il pilota, ma non meno dello stratega, non meno di qualunque altro: egli salva a volte intere comunità. E a te non sembra che sia al livello dell'oratore forense? Eppure, Callicle, s'egli volesse ma-[c] gnificare l'opera sua, come fate voi, vi sommergerebbe di parole e vi spingerebbe a divenire costruttori di macchine belliche, ché tutto il resto non avrebbe nessun valore. E seriamente egli parlerebbe! Ma tu disprezzi lui e la sua arte, e oltraggiosamente lo chiameresti ‘un costruttore di macchine', né daresti una tua figliola in moglie a suo figlio, né vorresti che tuo figlio sposasse una sua figliola. Eppure, date le ragioni per cui tu magnifichi la tua arte, con quale diritto disprezzi chi costruisce macchine e gli [d] altri di cui sopra ho parlato? Dirai, lo so, che tu sei migliore e che migliore è la tua origine! Ma se migliore è non quello che dico io, se la virtù, invece, consiste appunto in questo, nel salvare se stesso e le proprie cose, come e dovunque si sia, ridicolo davvero sarebbe il tuo disprezzo per il costruttore di macchine, per il medico, per tutti quegli artefici la cui opera è intesa a salvare l'uomo. Ma, te beato, guarda piuttosto se nobiltà e bontà non siano tutt'altra cosa che codesto salvar la vita ed essere salvato! Oh no, non in questo consiste la vita! della lunghezza della [e] vita, anzi, un vero uomo non deve preoccuparsi, né ad essa esser troppo attaccato, ma, in questo, affidandosi al dio, e persuaso di quello che dicono le donne che nessuno può sfuggire al destino, deve, invece, fin da ora cercare il modo migliore di consumare il tempo di vita che gli resta, conformandosi alla costituzione politica vigente nello stato in cui abita, per cui tu, ora, devi [513a] uniformarti quanto più ti è possibile alla democrazia ateniese, se vuoi essere ad essa gradito ed avere quindi un gran potere nella città. Ma vedi un po' se questo può davvero servire al nostro scopo, a me e a te, perché, ingenuo amico mio, non ci abbia a succedere quello che dicono accada alle donne di Tessaglia, quando con i loro incantesimi fanno scendere in terra la luna. Oh sì, è rischiando quanto abbiamo di più prezioso che sceglieremo la via che conduce al potere politico! Ma se pensi che vi sia qualcuno [b] che possa insegnarti un'arte capace di darti grande potenza in questo stato, ma non in conformità a quella ch'è la sua costituzione politica, sia in bene sia in male, mi sembra, Callicle, che tu abbia fatto male i conti. Non basta volere imitare, ma essere eguali per natura, se desideri procurarti un vero e sincero rapporto di amicizia con il demo ateniese, sì come anche, per Zeus, con Demo, figlio di Pirilampo. Solo chi riuscirà a farti in tutto e per tutto simile ad essi, solo costui farà di te un politico e un rètore quale tu desideri essere. Tutti amano sentir pronunziare [c] discorsi in cui ritrovano se stessi, mentre disapprovano i discorsi diversi, a meno che, mia cara testolina, tu non sia d'altra opinione. Hai nulla da obbiettare, Callicle?

LXIX. CALL. Non so come, ma talvolta mi sembra che tu ragioni bene, Socrate, pur accadendomi quello che a tanti altri succede, di non rimanere pienamente persuaso. SOCR. E' l'amore del demo, Callicle, radicato nell'anima tua, che mi è d'ostacolo. Ma se più e più volte, e meglio, [d] esamineremo la questione, forse ti persuaderai. Ma rammentati, intanto, che due, abbiamo detto, sono i sistemi per prendersi cura e del corpo e dell'anima, l'uno che ha per fine il piacere, l'altro, invece, il meglio, e che non tende a indulgere, anzi a lottare. Non avevamo dianzi delimitato entro questi termini, l'una e l'altra via? CALL. Esattamente. SOCR. E l'una, la via volta al piacere, è ignobile ed altro non è che "adulazione". Vero? [e] CALL. E sia! se così vuoi. SOCR. L'altra, invece, non è forse tutta tesa a far sì che ottimo sia l'oggetto delle nostre cure, corpo o anima che sia? CALL. Senza dubbio! SOCR. Dobbiamo, dunque, metterci all'opera in questo modo per curare lo stato e i cittadini, con il fine di rendere i concittadini quanto migliori è possibile? Certo, perché senza questo - come già è risultato sopra - qualsivoglia [514a] altro beneficio si rechi alla comunità, esso non potrà essere utile affatto, se nobile e buona non sia l'intenzione di chi abbia la possibilità o di accumulare grandi ricchezze o di esercitare una magistratura o qualunque altro potere. Possiamo dire così? CALL. Ma certo! se ti fa piacere. SOCR. Se, per esempio, ambedue ci occupassimo di affari pubblici e vicendevolmente ci consigliassimo di volgere la nostra attenzione alle costruzioni di più alto impegno, come erigere mura, arsenali, templi, non sarebbe innanzi [b] tutto nostro dovere osservare ed esaminare noi stessi, per renderci conto se conosciamo davvero, o no, l'arte del costruire, e da chi l'abbiamo appresa? Dovremmo far così, oppure no? CALL. Senza dubbio. SOCR. In secondo luogo dovremmo considerare se, prima, abbiamo costruito edifici privati, per qualche amico o per noi, e se tali costruzioni sono belle o brutte. Solo quando trovassimo che i nostri maestri sono stati buoni ed insigni architetti, e che [c] abbiamo costruito molte e belle case insieme a loro e che, poi, indipendentemente da loro, molte e belle ne abbiamo costruite per conto nostro, solo in questo caso sarebbe da uomini di senno dedicarsi alle opere pubbliche. Se non avessimo, invece, da indicare alcun maestro né da mostrare alcuna costruzione nostra, oppure molte, ma di nessun valore, sarebbe allora stoltezza metter mano alle opere pubbliche e consigliarci l'un l'altro a porci su tale [d] via. Ti sembra o no giusto quello che dico? CALL. Perfetto.

LXX. SOCR. Per tutto, per qualsiasi altra impresa, non è forse così? Se, per esempio, noi due decidessimo di far la professione di medico pubblico e ci consigliassimo l'un l'altro a intraprendere tale professione come se già fossimo medici compiuti, dovremmo senza dubbio esaminarci, e tu dovresti fare l'esame a me e io a te: "Sù via, per gli dèi, qual è lo stato di salute di Socrate stesso? C'è qualcuno, servo o libero, guarito da Socrate ?"; a mia volta, m'immagino, rivolgerei a te le stesse domande; e se non trovassimo nessuno che per opera nostra stia ora fisicamente [e] bene, né straniero, né cittadino, né uomo, né donna, per Zeus, Callicle, senza avere in precedenza, da privati, fatto alla meglio il nostro tirocinio e avere a lungo esercitata l'arte, non sarebbe davvero ridicolo arrivare a tale mancanza di senno da volere, come suona il proverbio, imparare la ceramistica cominciando dagli orci, se cioè pretendessimo di far la professione di medico pubblico, consigliando anche altri a fare come noi? Non ti sembrerebbe una vera stoltezza se volessimo agire in questo modo? CALL. Sì. SOCR. E ora, ottimo amico mio, dal momento [515a] che tu stesso sei al principio della carriera politica e consigli anche me di darmi a tale carriera e mi rimproveri di non far politica, non dobbiamo, anche noi, sottoporci ad un reciproco esame, e dire: "Callicle, con la propria opera, ha già reso migliore qualche cittadino? esiste qualcuno, straniero o cittadino, servo o libero, che precedentemente fosse malvagio, ingiusto, dissoluto, stolto, e che [b] grazie a Callicle sia divenuto bello e buono?". Dimmi, Callicle, se uno ti facesse simili domande, cosa risponderesti? Chi potrai dire di aver reso migliore con la tua frequenza? Esiti forse a rispondere? Non dovresti, se hai davvero al tuo attivo una qualche tua opera, compiuta da privato, quando non ti sei ancora dato alla vita pubblica! CALL. Come ami stravincere, Socrate!

LXXI. SOCR. Non è per bramosia di vittoria che t'interrogo, ma perché vorrei veramente sapere il tuo pensiero sulla maniera con la quale, qui, da noi, si deve far politica. [c] Una volta entrato in politica, quale altra mai cura ti occuperà se non questa soltanto, se non di fare di noi degli ottimi cittadini? Non ci siamo già trovati d'accordo più volte nel concludere che appunto questo è il dovere dell'uomo politico? Non avevamo concluso così? Rispondi! Sì, tale era stata la nostra conclusione, risponderò io per te. Se questo deve, dunque, procurare alla propria città l'uomo per bene, rammentati ora e dimmi se quei tali uomini che poco prima hai nominati ti sembra ancora che siano [d] stati dei buoni politici: Pericle, Cimone, Milziade, Temistocle. CALL. Secondo me, sì! SOCR. Se buoni, evidentemente ciascuno di loro ha reso migliori, da peggiori che erano, i propri concittadini. Questo hanno fatto o no? CALL. Sì. SOCR. Ma allora, quando Pericle cominciò a tenere i suoi discorsi dinanzi al popolo, gli Ateniesi erano peggiori di quando pronunciò gli ultimi? CALL. Forse. SOCR. Non ‘forse', ottimo amico, ma necessariamente, date le premesse convenute, se Pericle era davvero un buon [e] politico. CALL. Ebbene? SOCR. Oh, nulla! Ma, in base a questo, dimmi se fama sia che gli Ateniesi sono, per opera di Pericle, divenuti migliori, o non si dica, invece, l'esatto contrario, che da lui sono stati corrotti. Quanto a me, sento dire in giro che Pericle ha reso gli Ateniesi oziosi, vili, chiacchieroni, avidi di quattrini, avendo per primo introdotto l'uso di pagare i pubblici uffici. CALL. E' dal gruppo degli "orecchi rotti" che hai sentito dire queste cose, Socrate! SOCR. Questo invece non lo so per sentito dire, ma con certezza, e anche tu lo sai, e cioè che in principio Pericle godeva ottima fama e che al tempo in cui erano peggiori gli Ateniesi non lo condannarono per nessuna vergognosa colpa; mentre, poi, quando per opera, [516a] sua, divennero buoni, proprio al termine della sua vita, lo condannarono per peculato, e poco mancò non gli dessero la pena di morte, evidentemente perché lo ritennero un corrotto.

LXXII. CALL. E come, per questo dobbiamo dire allora che Pericle era un malvagio? SOCR. Un guardiano di asini, o di cavalli, o di buoi, per esempio, che, avendo preso in consegna tali animali, che non tiravano calci, non mordevano, non scornavano, li avesse poi resi tanto selvaggi da far tutto questo, si dimostrerebbe certo un gran cattivo [b] guardiano. Non credi sia un cattivo guardiano di qualsivoglia tipo di animali, chi ricevesse bestie mansuete e le rendesse più selvagge di come gli furon consegnate? Sì o no? CALL. Dirò di sì per farti piacere. SOCR. E allora fammi il piacere di rispondere anche a questo: l'uomo è, o no, un animale? CALL. E come no? SOCR. Ma non aveva Pericle cura di uomini? CALL. Sì! SOCR. E allora essi, per opera sua, non dovevano, come sopra abbiamo convenuto, divenire più giusti e non, invece, più ingiusti, se Pericle che li aveva in cura fosse stato un buon [c] politico? CALL. Senza dubbio! SOCR. Ma, come dice Omero, i giusti sono mansueti. E tu che ne dici? Pensi forse altrimenti? CALL. Sì, sono della tua stessa opinione. SOCR. Pericle, invece, li rese più selvaggi di come li aveva ricevuti, e, ciò che certo non avrebbe mai voluto, più selvaggi contro lui stesso. CALL. Vuoi proprio che ne convenga? SOCR. Se ti sembra che dica la verità! CALL. E va bene, accetto che sia così. SOCR. Ma se più selvaggi, li rese anche più ingiusti e peggiori? CALL. E [d] sia ! SOCR. Da tutto questo ragionamento risulta, dunque, che Pericle non fu, un buon politico. CALL. Lo dici tu! SOCR. No, per Zeus, anche tu lo dici, date le premesse convenute. Ma dimmi ora di Cimone: non gli hanno dato l'ostracismo, proprio quelli ch'egli aveva in cura, sì da non ascoltarne più per dieci anni la voce? E non dettero l'ostracismo anche a Temistocle, per di più condannandolo all'esilio? E Milziade, l'uomo di Maratona, non stavano per decidere di precipitarlo nel baratro [e] e se non interveniva il pritane ve lo gettavano davvero? Ebbene, se, come tu dici, questi uomini fossero stati i buoni politici, non avrebbero patito tali guai. Buon auriga non è chi da principio non cade dal cocchio, ma dopo avere educato i cavalli, e divenuto lui stesso migliore, allora cade. Questo senza dubbio non accade nell'arte di guidare i cavalli, non avviene in nessun'altra attività. Ti sembra di no? CALL. Non mi pare! SOCR. Ma allora, sembra, è vero quello [517a] che prima dicevamo, che cioè non conosciamo, in questa nostra città, essere esistito un virtuoso uomo politico. Tu ammettevi, sì, che tale non era alcuno dei contemporanei, ma sostenevi questi quattro: anch'essi, invece, si sono rivelati simili a quelli di oggi, ragion per cui, se erano rètori, non hanno saputo usare né la vera retorica - ché altrimenti non sarebbero caduti - né l'altra retorica, l'adulatrice.

LXXIII. CALL. Ma, Socrate, sarebbe già molto se gli attuali politici, quali tu voglia, sapessero fare cose simili a quelle che hanno saputo fare gli uomini del passato. [b] SOCR. Amico mio divino, ma io non disconosco affatto i loro meriti per ciò che riguarda l'aver saputo servire lo stato: mi pare anzi ch'essi siano stati servitori migliori degli attuali, di gran lunga più bravi nel procurare allo stato ciò che gli potesse far piacere. Solo che nel combatterne le passioni deviandole, nel non cedere, nell'usare persuasione e violenza, perché i cittadini divenissero migliori, in ciò come ho già detto non furono in nulla superiori ai poli-[c] tici attuali: eppure questo è il solo dovere di un buon cittadino. Per altro verso sono, invece, d'accordo con te nel riconoscere che per fornire navi, mura, arsenali ed altre cose del genere, furono molto più capaci di questi. Ma quanto siamo ridicoli, tu ed io, in questa nostra discussione! Per tutto il tempo che abbiamo discusso non abbiamo fatto che girare sempre intorno ad uno stesso punto, l'uno ignorando quello che in effetto voleva dire l'altro. Certo, a me sembra di avere ripetutamente riconosciuto e di-[d] chiarato che vi è un duplice sistema di provvedere tanto al corpo, quanto all'anima: l'uno strumentale, mediante cui, appunto, ci possiamo procurare cibi quando abbiamo fame, bevande quando abbiamo sete, indumenti, coperte, calzari, tutto quello di cui il corpo abbia bisogno, se abbiamo freddo: e se uso sempre gli stessi esempi, è perché tu capisca con più facilità. Chiunque sappia fornire tutte queste cose, venditore al minuto o commerciante, o produttore [e] diretto di ciascuna di queste merci - fornaio, cuoco, tessitore, calzolaio, conciatore - non c'è affatto da stupirsi se viene considerato come l'unico che davvero provvede al corpo, sia da se stesso sia da quanti non sappiano che, accanto a tutti questi mestieri, esistono la ginnastica e la medicina, le quali soltanto hanno vera cura del corpo e debbono dirigere tutte quelle altre attività e servirsi dell'opera loro, poiché esse solo sanno quale tipo di cibo e di [518a] bevanda può giovare e quale nuocere al corpo, mentre tutte le altre lo ignorano. Ecco perché diciamo che quei mestieri, che si occupano della nostra vita fisica, sono servili, strumentali, illiberali, mentre le altre arti, la ginnastica e la medicina sono, per diritto, signore di tutte le altre. Che la stessa cosa si debba ora ripetere a proposito dell'anima, mi sembra, talvolta, che tu, mentre parlo, lo comprenda: acconsenti, mostrando appunto di avere capito quello che [b] dico. Solo che, sùbito dopo, mi vieni a dire che nella nostra città sono esistiti cittadini davvero buoni ed onesti, e quando ti domando chi fossero, mi vieni fuori con tali nomi di uomini politici, che, mi sembra, sarebbe come se, a proposito della ginnastica, ti chiedessi quali furono o sono i maestri veramente bravi nell'educazione fisica, e tu, con tutta serietà, mi facessi i nomi del fornaio Tearione, di Miteco, autore di uno scritto sulla cucina siciliana, del vinaio Sarambo, straordinariamente competenti nella cura del corpo, l'uno perché sa fare dolci squisiti, l'altro prepa-[c] rare piatti eccellenti, il terzo perché vende ottimo vino.

LXXIV. Chissà, forse te la prenderesti a male, se ti dicessi: "Uomo, di ginnastica non te ne intendi affatto: mi fai nomi di gente che sa solo servire e solleticare i nostri appetiti, senza affatto sapere dove, in questa materia, stia il bello e il buono, e che, quando va bene, riesce a riempire e ad ingrassare i corpi degli uomini, e ne riceve lodi, ma che alla fine rovinerà quelle carni originariamente sane. Certo, [d] chi si sarà ammalato incolperà, nella sua inesperienza, di averlo fatto ammalare, avergli fatto perdere la salute, non coloro che lo hanno riempito di cibi, ma chi gli sarà vicino in quel momento e consiglia un qualche rimedio, quando si è presa quella indigestione che, contraria a ogni regola di salute, con l'andar del tempo, produce vere e proprie malattie, e incolperà e ingiurierà costui, e cercherà perfino di fargli del male, mentre per quei primi, per i veri autori dei suoi malanni, non avrà che parole di lode. Ebbene, Callicle, tu ora ti comporti proprio come si com-[e] portano quei tali: innalzi un inno a uomini che hanno rimpinzato i nostri cittadini di tutto quello che desideravano. Ecco perché dicono ch'essi hanno fatto grande la città, mentre non si accorgono che essa, invece che grande, [519a] è malsanamente bolsa per colpa di certi politici del passato. Senza preoccuparsi della temperanza e della giustizia, essi hanno, infatti, riempito la città di porti, di arsenali, di mura, di tributi e di un'infinità di simili sciocchezze. Quando poi verrà il momento culminante della malattia, verranno allora incolpati i consiglieri del giorno, mentre saranno esaltati Temistocle, Cimone, Pericle, prima causa dei loro mali attuali. E quando, oltre ai nuovi acquisti, perderanno ciò che anticamente avevano conquistato, è probabile che, se non stai attento, se la prendano anche con te, se la prendano con il mio caro compagno Alcibiade, [b] non colpevoli di questi malanni, ma, forse, corresponsabili. Eppure è davvero assurdo quello che ora vedo e che, sento dire, accadeva anche all'epoca di quegli uomini del passato. Ho la sensazione, infatti, che quando la città mette sotto processo, come colpevole, qualche uomo politico, costui si sdegna e si lamenta per come vien trattato. E' un'ingiustizia, dicono, che la città, dopo ch'essi le hanno fatto tanto bene, voglia rovinarli in tale modo. Ma è tutta [c] una menzogna: nessun uomo di governo può essere giustamente condannato a morte per opera della città di cui egli dirige le sorti. Va così a finire che, entro questi termini, non c'è nessuna differenza fra chi si vanta d'essere un politico e chi si vanta d'essere un sofista. Anche i sofisti - persone dotte del resto - cadono in un'assurdità di questo genere: essi che si proclamano maestri di virtù, spesso accusano i propri discepoli d'essere ingiusti nei loro confronti, per il fatto che sono defraudati dell'onorario e che vien loro negata qualsiasi altra forma di riconoscenza, [d] pur essendo stati da essi bene indirizzati. Ci può essere nulla di più illogico in questa loro logica? che uomini, divenuti buoni e giusti, liberati dall'ingiustizia grazie al loro maestro, in possesso della giustizia, commettano atti ingiusti con un'ingiustizia che non è più in loro? Non ti sembra, compagno mio, che sia un assurdo?". Ma sì, Callicle, per non voler rispondere mi hai davvero costretto a tenere un'orazione di tipo popolare!

LXXV. CALL. Ma non saresti capace di parlare senza che nessuno ti rispondesse? SOCR. Sembra di sì! tanto [e] è vero che da quando ti rifiuti di rispondermi, ho tenuto un discorso tutto filato. Ma, in nome di Filìo, mio buon amico, non ti sembra illogico sostenere di aver reso buono qualcuno e poi rimproverarlo perché, divenuto buono, davvero buono, è cattivo? CALL. Mi pare di sì! SOCR. Hai mai sentito dire cose del genere da chi professa di educare gli uomini alla virtù? CALL. Certo! Ma perché [520a] parlare di gente di nessun valore? SOCR. Già, ma che dirai di questi uomini, che, pretendendo di governare la città e di avviarla sulla via del bene, l'accusano poi, quando sia il caso, d'essere estremamente malvagia? Pensi vi sia differenza tra questi e quelli? No, beato amico mio, sofista e rètore sono tutt'uno, o sono, almeno, molto vicini, come già dicevo a Polo. Nella tua ignoranza, invece, credi [b] che bellissima sia la retorica, mentre disprezzi la sofistica. Per la verità, invece, la sofistica è più bella della retorica, di quanto l'istituzione delle leggi è più bella dell'amministrazione della giustizia, e la ginnastica della medicina. Io credevo che solo agli oratori politici e ai sofisti non fosse lecito rimproverare chi essi stessi educano perché malvagi nei loro confronti, senza con questo, e con le proprie parole, accusare, ad un tempo, se stessi di non aver saputo rendere ai propri discepoli quei servizi che si vantano di avere dato loro. Non è così? CALL. Senza dubbio! SOCR. Non [c] solo, ma credevo anche, se fosse vero quello che dicono, che solo a loro convenisse prestare la propria opera senza pattuire fin dal principio la mercede. Certo, per qualsivoglia altro servigio ricevuto, imparare, ad esempio, a correre veloce sotto la guida di un maestro di ginnastica, per un simile servigio il discepolo potrà forse non pagare il maestro, se il maestro si è fidato e, non avendo fissato prima il prezzo, non ha intascato il denaro via via che addestrava. Non è, [d] in realtà, per il fatto di andar piano, credo, ma per l'ingiustizia, che gli uomini sono ingiusti. E' vero? CALL. Sì! SOCR. E allora, se uno sopprime proprio questo, l'ingiustizia, non c'è affatto pericolo che venga poi commessa ingiustizia nei suoi confronti, ed egli solo, anzi, può con tutta sicurezza prestare i propri servigi, qualora, appunto, sia capace di rendere virtuosi i propri discepoli. Non è così? CALL. Sì.

LXXVI. SOCR. Questa, sembra, la ragione per cui non è affatto vergognoso prendere denaro in cambio di tutti gli altri consigli che si dànno, come, ad esempio, rispetto alla costruzione delle case o ad ogni altro tipo di arte. CALL. [e] Sembra. SOCR. Quando, invece, si tratta di questa materia, quando si tratta di sapere quale sia il sistema di vita per divenire buono, per sapere amministrare nel modo migliore possibile la propria casa e lo stato, è ritenuta cosa davvero vergognosa negare i propri consigli a chi non sia disposto a pagarli in denaro. Non è vero? CALL. Sì. SOCR. Questa, evidentemente, n'è la causa: solo questo servigio dà, a chi lo abbia ricevuto, il desiderio di restituire il bene che gli è stato dato: ecco un bel segno, io credo, del successo ottenuto, il fatto che colui che ha reso un servigio abbia in cambio il bene che ha dato: se no, no! Non [521a] ti sembra che tale sia la verità? CALL. Sì! SOCR. Dimmi, dunque, in conclusione, a quale tipo di cura dello stato m'inviti: a quella di polemizzare con gli Ateniesi perché diventino quant'è possibile migliori, comportandosi come un medico, o a quella di rendersi loro servo, cercando solo di compiacerli? Dimmi la verità, Callicle! Sì, è giusto che tu, che con tanta franchezza hai cominciato a parlare nei miei riguardi, tu concluda esprimendo per intero il tuo pensiero. Ed ora parla franco e liberamente. CALL. Dico, dunque, che la via su cui t'invito è quella di farsi servo dei cittadini. SOCR. Nobile amico mio, tu, dunque, [b] m'inviti sulla via dell'"adulazione". CALL. E se ti piace, chiamala pure la via del Misio; ma se non farai come ti consiglio... SOCR. Ma via, non ripetere quello che già tante volte mi hai detto, che il primo venuto, se vuole, riuscirà a farmi condannare a morte, per non costringermi a risponderti ancora una volta: "Un malvagio farà morire un buono!", e non stare neppure a ripetermi che chiunque mi spoglierà di quel poco che ho, per non costringermi a risponderti ancora una volta: "Chi mi avrà spogliato non ne ricaverà alcun utile; anzi, come ingiusta-[c] mente avrà rubato, così ingiustamente ne userà; e se con ingiustizia, vergognosamente, e se con vergogna, in maniera davvero cattiva"!

LXXVII. CALL. Ma Socrate, come puoi essere così profondamente convinto di non dover mai patire cose del genere, quasi tu vivessi fuori del mondo, e non potessi, invece, essere trascinato in tribunale chi sa mai da quale vile e spregevole uomo? SOCR. Sarei proprio uno stupido, Callicle, se non sapessi che in questa città a chiunque possono capitare guai del genere. Ma so anche questo - eccome! -, che, se dovrò essere trascinato in tribunale, [d] con il rischio d'esser condannato a una delle pene da te accennate, colui che mi accuserà sarà un malvagio - nessun uomo onesto potrà mai trascinare in tribunale chi non abbia commesso alcuna colpa - per cui nulla di strano vi sarebbe se venissi condannato a morte. Vuoi ti dica perché me l'aspetto? CALL. Certo! SOCR. Credo di avere posto la mano, insieme a pochi Ateniesi - per non dire d'essere il solo -, sulla vera arte politica, e d'essere il solo, oggi, a metterla in pratica. Ecco perché io, non parlando mai per rendermi gradito, non avendo per scopo il piacere, ma il bene, rifiutandomi di fare tutte quelle [e] belle cose che mi consigli, in tribunale resterò senza parola. Ripeto, dunque, a te quello che dianzi dicevo a Polo: rischierò d'esser giudicato come sarebbe giudicato da un gruppo di ragazzi un medico accusato da un cuoco. Vedi un po' tu come potrebbe difendersi un medico che si trovasse in una situazione del genere, quando l'accusatore dicesse: "Ragazzi, quanto male costui ha fatto anche a voi; anche i più piccoli egli ‘corrompe' con il ferro e col fuoco, li ‘angoscia' facendoli dimagrire e soffocandoli, [522a] li obbliga a prendere amarissime bevande, fa patire loro la fame e la sete; né certo vi tratta come facevo io, che per voi preparavo svariati e saporiti piatti!". Cosa mai pensi che potrebbe dire un medico che si trovasse in una si brutta situazione? E se dicesse la verità?, se dicesse: "Ragazzi, tutto quello che ho fatto, l'ho fatto per la vostra salute", fin dove credi che si diffonderebbero le grida di quei giudici? Non farebbero un enorme baccano? CALL. Forse! E' proprio da crederlo! SOCR. Ritieni, dunque, che non saprebbe da che parte voltarsi per poter rispondere? [b] CALL. Senza dubbio! 

LXXVIII. SOCR. So bene che la stessa cosa capiterebbe anche a me, se mi dovessi presentare in tribunale. Non avrei da ricordare piaceri fatti loro, quei certi piaceri ch'essi chiamano vantaggi e benefici: io, anzi, non invidio affatto chi li fa e chi li riceve. Se mi si accusasse poi che corrompo i giovani, angosciandoli con le mie questioni, o che offendo i vecchi dicendo su di loro, sia in privato che in pubblico, cose troppo pungenti, non potrei rispondere la verità - cioè: parlo come è giusto che parli, e, giudici, io faccio [c] il vostro stesso interesse -, né altro potrei dire, onde, probabilmente, mi accadrà quello che mi deve accadere. CALL. Ma Socrate, ti sembra bello che un uomo, nella sua città, si trovi in simile condizione e non abbia la possibilità di difendere se stesso? SOCR. Sì, Callicle, purché gli rimanga quell'ultima difesa, sulla quale tu sei rimasto più volte d'accordo! ch'egli sia venuto in soccorso di se stesso, non avendo mai detto, non avendo mai fatto cosa ingiusta [d] né verso gli uomini né verso gli dèi. Che questo sia il più valido aiuto che si possa dare a se stessi, già lo abbiamo ammesso più volte. Se mi si dimostrasse, dunque, che non sono capace di dare questo aiuto a me e ad altri, allora sì che mi vergognerei di una simile dimostrazione, sia di fronte a una gran folla, sia a poca gente, sia solo di fronte a me solo, e se a causa di questo mio non sapermi difendere dovessi essere condannato a morte, oh se mi dispiacerebbe morire! Ma se fosse per mancanza di retorica adulatrice che dovessi morire, sono convinto che serena-[e] mente mi vedresti affrontare la morte. Nessuno, che sia totalmente irragionevole, che non sia uomo davvero, ha paura della morte; l'ingiustizia, piuttosto, deve spaventare: il supremo di tutti i mali è che l'anima nostra giunga all'Ade carica di ogni ingiustizia. Anzi, se ti fa piacere, vorrei farti un racconto che serva a provarti che quel che ti ho detto è realmente in questo modo. CALL. Ma sì! come hai condotto a termine tutto il resto, porta adesso a conclusione quanto hai ancora da dire !

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Epilogo - mitologico di Socrate

[523a] LXXIX. SOCR. Ascolta, dunque, come si dice, un bel discorso, che tu, credo, riterrai un mito, ma io un ragionamento, ragionamento che, infatti, desidero esporti quasi fosse una verità. Come narra Omero, Zeus, Posidone e Plutone, quando nelle loro mani passò l'impero del padre, se lo divisero tra di loro. Al tempo di Crono, era, come lo è ora e lo sarà in futuro, divina legge per gli uomini che l'uomo, giustamente e piamente vissuto, dopo la morte, vada nelle Isole dei beati e là egli abiti in piena libertà, [b] libero da ogni male, mentre l'uomo ingiustamente ed empiamente vissuto sia mandato in quel carcere di pena e di espiazione che vien chiamato Tartaro. Al tempo di Crono e, ancora, nei primi anni del regno di Zeus, viventi giudicavano altri viventi, ed emanavano la loro sentenza nel giorno stesso in cui ciascuno doveva morire. Ma i giudizi non erano quali avrebbero dovuto essere. Perciò Plutone e gli altri che avevan la cura delle Isole dei beati si recavano da Zeus a riferire che, ora in questo ora in quel luogo, giungevano persone immeritevoli di entrare, appunto, in questo luogo o in quello. Disse allora Zeus [c] "Metterò fine a tutto questo. Oggi le cose vanno male, perché non giusti sono i giudizi, e questo per il fatto che, al momento del giudizio, chi viene giudicato è vestito, poiché sono giudicati essendo ancora vivi. Molti - proseguì - che posseggono un'anima malvagia, sono rivestiti di bei corpi, di nobiltà, di ricchezza, e, al momento del giudizio, molti sono i testimoni che si presentano a de-[d] porre sostenendo che sono vissuti giustamente. Avviene che i giudici si lasciano impressionare da tanto apparato; non solo, ma essi stessi giudicano essendo vestiti, poiché hanno l'anima velata dagli occhi, dagli orecchi, da tutto l'insieme del corpo. Tutti questi ingombri costituiscono un ostacolo, sia i velami dei giudici sia quelli di coloro che debbono essere giudicati. Bisogna, dunque, in primo luogo - disse - far sì che gli uomini non conoscano in precedenza il giorno della loro morte, come accade oggi; anzi, si è già dato ordine a Prometeo perché tolga di mezzo questo [e] inconveniente. In secondo luogo dovranno, dunque, esser giudicati da morti, nudi cioè, spogli da tutti questi ostacoli. E nudo, cioè morto, dovrà essere anche il giudice, sì che, direttamente esaminando, anima di fronte ad anima, sùbito dopo la morte, senza tutto quell'accompagnamento di parenti, senza tutto quell'apparato che in terra circonda la gente, giusto sia il giudizio. Io, resomi conto di questi inconvenienti già prima di voi, nominai giudici alcuni dei [524a] miei stessi figli, due provenienti dall'Asia, Minosse e Radamanto, uno dall'Europa, Eaco. Quando Eaco, Minosse e Radamanto saranno morti, dovranno giudicare, là nel prato, stando al centro di quel trivio da cui prendono le mosse le due vie che portano l'una alle Isole dei beati, l'altra al Tartaro. Radamanto giudicherà chi proviene dall'Asia, Eaco chi proviene dall'Europa. A Minosse darò il còmpito di giudicare in suprema istanza, se gli altri due avranno qualche dubbio su come giudicare, sì che quanto più è possibile giusto sia il giudizio su quale via debbono prendere gli uomini".

LXXX. Questo, Callicle, ho sentito dire, e che questo sia [b] vero, ho fede! e dall'insieme di tale racconto traggo queste conseguenze. La morte, io credo, altro non è che separazione di due cose l'una dall'altra: dell'anima e del corpo. Una volta l'uno dall'altra separati, ciascuno dei due conserva il proprio essere quasi come in vita, e la sua natura mantiene il corpo e chiari i segni delle cure avute [c] e dei casi sofferti. Se, ad esempio, uno da vivo aveva un corpo grande - lo avesse per natura o perché ben nutrito, o per l'una e l'altra ragione insieme - quando sarà morto, ugualmente grande sarà il suo cadavere; e se robusto, anche da morto il suo cadavere sarà altrettanto robusto, e così via; e se usava portare capelli lunghi, lunghi capelli avrà anche da morto. E se era uno scioperato, condannato più volte alla frusta, che portava sul corpo i segni dei colpi ricevuti e di altre ferite, anche il suo cadavere mostrerà tali segni. E se da vivo aveva membra rotte o contorte, anche il morto porterà chiare tali deformità. [d] In una parola, quali erano i segni caratteristici contratti dal corpo durante la vita, tali, più o meno, si manterranno anche sul cadavere, almeno per un certo periodo di tempo. Lo stesso, io credo, è anche per l'anima, o Callicle: quando sia spogliata dal corpo, chiaramente si vedono nell'anima tutte le qualità che l'uomo aveva per natura e gli abiti contratti a seconda delle sue singole attività. E così, quando i morti giungono dinanzi al giudice, quelli che provengono [e] dall'Asia di fronte a Radamanto, Radamanto li ferma, ed esamina l'anima di ciascuno senza affatto sapere di chi sia, anzi, messa spesso la mano sull'anima del Gran Re o d'altro re o sovrano, si accorge che non è in esse nulla di sano, ma vede l'anima loro come flagellata e piena di cicatrici, segni di spergiuri e d'ingiustizie, lasciati da ogni singola azione, tutta contorta per la menzogna e la millan-[525a] teria, niente affatto diritta, perché allevata fuori della verità, e vede, infine, che l'anima, per la licenza, la mollezza, la tracotanza, la scostumatezza, è tutta sproporzione e bruttura. Vedutala in tal modo, sùbito, ignominiosamente l'avvia in prigione, ove, giunta, patirà i dovuti castighi.

[b] LXXXI. Chiunque sconta una pena, qualora il castigo inflitto sia giusto, o diviene migliore e ne trae vantaggio, o serve da esempio agli altri, sì che gli altri, vedendo quello che soffre, intimoriti divengano migliori. Chi, punito dagli dèi o dagli uomini, trae un vantaggio dalla pena, è chi abbia commesso colpe riparabili; tale vantaggio, comunque, lo trovano solo in quanto passino attraverso sofferenze e dolori, in questo mondo e nell'Ade: non altrimenti potremmo liberarci dall'ingiustizia. Chi [c] abbia, invece, commesso i più gravi delitti e, per tale causa, non è più curabile, non può servire che da esempio, e mentre, soffrendo la propria pena, non può giovare a sé, appunto perché incurabile, gli altri, invece, si giovano del suo esempio, poi che per le sue colpe lo vedono condannato a patire in eterno le maggiori, le più dolorose, le più atroci pene, veri e propri esempi sospesi là nel carcere dell'Ade, spettacolo e monito ai colpevoli che, via via, in continuazione, [d] arrivano laggiù. Tra questi, uno, io dico, è anche Archelao, se è vero quello che Polo ha detto, e chiunque sia tiranno come lo fu Archelao; sono convinto, anzi, che la maggior parte di tali esempi è di tiranni, di re, di sovrani, di uomini che abbiano avuto in mano il governo degli stati: essi, per la loro libertà di potere, sono quelli che commettono i più grandi, e i più orrendi delitti. Anche Omero ne fa testimonianza: re, sovrani sono, infatti, coloro ch'egli [e] ha rappresentato nell'Ade, condannati a sempiterne pene, Tantalo, Sisifo, Tizio; Tersite, invece, o qualsivoglia altro malefico uomo privato, nessuno ha voluto rappresentare in pene tremende perché incurabile: neppure avrebbe avuto il potere di commettere sì gravi delitti, e perciò Tersite fu più felice di quelle potenti persone. Sì, caro Callicle, i malvagi, davvero più grandi, fioriscono da chi abbia in mano la più grande potenza. Oh certo, nulla [526a] vieta che anche tra i potenti non possano nascere uomini virtuosi, e non si debbano ammirare quelli che ci sono: tanto più, anzi, Callicle, poiché è difficile, e degno dunque di gran lode, mantenersi giusti sino alla fine, avendo tutte le possibilità di commettere ingiustizia. Pochi essi sono. Senza dubbio sono esistiti, qui ed altrove, e ancora, credo, esisteranno uomini moralmente belli che hanno la virtù di amministrare con giustizia tutto ciò che viene loro affi-[b] dato. Uno, divenuto famoso anche tra gli altri Greci, fu Aristide, figlio di Lisimaco. Ma certo, ottimo amico mio, la maggior parte dei potenti divengono malvagi.

LXXXII. Come, dunque, dicevo, quando Radamanto blocca un malvagio di questo genere, nulla egli sa di lui, né chi sia né di quale famiglia, ma solo sa che è un delinquente. Veduto che è un delinquente, lo manda nel Tartaro, dopo averlo segnato, per indicare se lo ritiene da curare o no: giunto colà, il colpevole sconta la sua pena. Talvolta, [c] invece, vedendo un'anima santamente vissuta, consacratasi per tutta la vita alla verità, sia essa l'anima di un privato o di chi sia, ma in particolare, io dico, Callicle, quella di un filosofo, tutta tesa a compiere il proprio dovere senza preoccuparsi d'infinite altre faccende non sue, Radamanto l'ammira e quell'anima avvia verso le Isole dei beati. Lo stesso ufficio compie Eaco - l'uno e l'altro pronunciano la loro sentenza, tenendo in mano un bastone - mentre Minosse, seduto, dall'alto sorveglia: egli solo tiene [d] in mano uno scettro d'oro, sì come, in Omero, Ulisse dice di averlo veduto: "Avendo in mano uno scettro d'oro, giudica gli estinti". Sì, Callicle, questo racconto mi ha profondamente persuaso, e guardo di fare in modo di potere un giorno mostrare al giudice quanto più sana è possibile l'anima mia. Per questo, accantonando proprio quegli onori che la maggioranza gradisce, tenendo l'occhio fisso sulla sola verità, con tutte le mie forze cercherò di essere perfetto finché avrò vita e tale, quando giungerà il momento, [e] cercherò di morire. Non solo, ma anche gli altri esorto, tutti gli uomini, per quanto sta in me, ed ora anche te esorto, a seguir questa vita, a prepararti a quest'ultima prova, che, io dico, è la più importante di ogni altra gara, e ti rimprovero perché sarai tu, a tua volta, a non saperti difendere quando verrà l'ora di quel processo e di quel giudizio di cui ho adesso parlato, e quando arriverai di fronte al tuo giudice, al figlio di Egina, ed egli ti avrà [527a] fermato, allora sarai tu a restare con la bocca aperta, sarai tu ad essere preso dalla vertigine - come io qua, tu là -, e, forse, qualcuno ignominiosamente ti schiaffeggerà e ti ricoprirà di ogni sorta di oltraggi.

LXXXIII. Probabilmente, questo, a te sembra un mito, di quei miti che narrano le vecchie, e non t'invita a pensare; né sarebbe il caso, se, poi, cercando, trovassimo qualche cosa di meglio e di più vero. Eppure vedi che ora, voi tre, che pur siete tra i più sapienti dei Greci di oggi, tu Polo e Gorgia, non riuscite affatto a dimostrare [b] che si debba condurre una vita diversa da questa, che utile si rivela anche nell'aldilà. Ma fra tanti ragionamenti, tutti sottoposti a critica, uno solo è rimasto inconfutato, saldo e sicuro, quel ragionamento il cui esito è che bisogna guardarsi dal commettere ingiustizia più che dal patirla e che, soprattutto, si deve porre ogni cura non a parere, ma ad essere buoni, così nella privata come nella pubblica vita; non solo, ma chi cade in peccato deve essere punito, e questo, dopo l'esser giusti, è il secondo bene: divenir [c] giusti pagando alla giustizia il proprio debito. Ogni adulazione bisogna evitare, sia di fronte a se stessi sia di fronte agli altri, di fronte a poca gente come di fronte a molti, e fare uso della retorica, come di ogni altra pratica, solo, e sempre, in funzione del giusto. Sù via, dunque, dammi retta, séguimi fino a questa mèta, dove giunto, sarai felice, da vivo e da morto, sì come indica il ragionamento. Lascia pure che altri ti disprezzi come se tu fossi uno stupido, e che, se vuole, t'insulti, e, sì, per Zeus, sopporta da forte anche lo schiaffo da te ritenuto un disonore. [d] Se tu sarai moralmente bello, se davvero eserciterai la virtù, nessun male ti capiterà! Quando, insieme, ci saremo così esercitati, allora sì, se parrà necessario, potremo correre dietro alla politica o a qualunque altra attività che ci sembri doveroso compiere: solo allora saremo più capaci, di quanto non lo siamo ora, di prendere adeguata decisione. Turpe sarebbe, invece, se, nella condizione in cui risultiamo essere ora, continuassimo in tanta nostra sicurezza, come se fossimo qualcosa, noi che continuamente passiamo di opinione in opinione, e, per di più, rispetto alle più gravi [e] questioni, sì profonda è la nostra mancanza di formazione. Bisogna, dunque, lasciarsi guidare dal ragionamento che, rivelandosi, si è concluso ora, il quale c'indica che il miglior sistema di vita consiste nel praticare, in vita e in morte, giustizia e ogni altra virtù. Seguiamo, dunque, questa via, esortiamo anche gli altri a porsi sulla medesima strada, non su quella cui altro ragionamento ti conduceva e sulla quale m'invitavi; no, Callicle, il tuo ragionamento non ha alcun valore!