- Sandro Magister - da L'ESPRESSO ONLINE (www.espressonline.kataweb.it)
Guerra santa o azione pacifica?
Due famosi gesuiti spiegano in modo opposto la celebre parola araba. Ma gli ulema musulmani danno ragione a uno solo dei due
Nel suo appello "Chiedete pace per Gerusalemme", pubblicato il 31 marzo 2002, domenica di Pasqua, sulla prima pagina del "Corriere della Sera", il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano e gesuita, scrive tra l'altro:
"Sappiamo che, anche secondo l'Islam, il jihad è un impegno per la pace e l'armonia, non è guerra".
Questo significato pacifico attribuito al jihad è argomento principe del dialogo dei cristiani con l'islam.
Ma ha fondamento? Stando a quanto sostiene Samir Khalil Samir, anch'egli gesuita, islamologo di fama mondiale, la risposta è no.
Questo infatti scrive Khalil Samir nel suo recentissimo libro "Cento domande sull'islam", sul significato del jihad:
"La parola jihad deriva dalla radice j-h-d che in arabo evoca uno sforzo, in genere quello bellico. Nel Corano la parola jihad è sempre utilizzata nel senso di lotta per Dio secondo l'espressione integrale jihad fi sabil Allah, lotta sul cammino di Dio, e perciò viene tradotta nelle lingue europee, dagli stessi musulmani, come "guerra santa".
"Questa traduzione è stata di recente messa in discussione da alcuni studiosi, soprattutto occidentali, secondo i quali il jihad non è la guerra, bensì la lotta spirituale, lo sforzo interiore. Si opera anche la distinzione tra il jihad akbar e il jihad asghar, il grande jihad e il piccolo jihad. Il primo sarebbe la lotta contro l'egoismo e i mali della società - insomma, uno sforzo etico e spirituale -, mentre il secondo sarebbe la guerra santa da combattere contro gli infedeli in nome di Dio.
"Tutto ciò è un'elaborazione che non corrisponde né alla tradizione islamica né al linguaggio moderno. Tutti i gruppi islamisti che adottano la parola jihad nel loro nome non la intendono certamente nel suo significato mistico, bensì nell'accezione violenta, e le decine di libri pubblicati negli ultimi anni sul jihad si riferiscono tutti alla guerra santa. Dunque sia a livello storico, dal Corano in poi, sia a livello sociologico, il significato odierno di jihad è univoco e indica la guerra musulmana in nome di Dio per difendere l'islam".
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E a proposito di chi dice che i mujahidin non sono veri musulmani, che la loro azione è contraria allo spirito dell'islam, e che l'islam significa etimologicamente pace e tolleranza, Khalil Samir precisa:
"Gli occidentali che ripetono queste affermazioni, di solito, dell'islam conoscono ben poco. Accettano volentieri queste tesi provenienti da ambienti musulmani, che in realtà non sono esatte.
"Le parole islam e salam derivano effettivamente dalla stessa radice, ma non hanno un contatto diretto. Mi spiego: la radice s-l-m in arabo, come sh-l-m in ebraico e in tutte le lingue semitiche, significa "essere sano", "essere in pace" e c'è un legame semantico tra pace, salvezza, salute, eccetera. Salam, in arabo, significa pace, salama significa salute, mentre islam significa sottomissione. La parola islam deriva dal verbo aslama, che vuol dire, "sottomettersi" o "abbandonarsi a"; l'islam è quindi l'atto di abbandonarsi o di sottomettersi, si sottintende a Dio, ma non significa "mettersi in stato di pace", anche se qualcuno può, con motivazioni spirituali, aggiungere questo significato non etimologico.
"La violenza è d'altronde chiaramente presente nella vita stessa di Maometto. È interessante osservare che le prime biografie del fondatore non portano il nome di sira, come saranno chiamate nel terzo secolo dell'egira, (IX secolo dell'era cristiana), bensì quello di kitab al-maghazi, ossia "il libro delle razzie". È stato lo stesso Maometto a condurre sistematicamente, come capo politico, queste razzie, ad organizzarle e a conquistare, una dopo l'altra, le varie tribù arabe. E queste si sono sottomesse a lui e al suo Dio, pagando un tributo che permetteva a Maometto di lanciarsi in nuove conquiste.
"Subito dopo la sua morte (632) molte tribù si sono ribellate al suo successore, il califfo Abu Bakr al-Siddiq (632-634), rifiutando di continuare a pagare il tributo cosicché il califfo ha dovuto dichiarare loro guerra. Gli storiografi musulmani chiamano queste guerre hurub al-ridda, le guerre degli apostati. Da qui è derivato l'obbligo di uccidere chiunque si tiri indietro, l'apostata che rinnega la sua fede [...].
"La violenza, in definitiva, ha fatto parte dell'islam nascente. In quell'epoca, nessuno trovava nulla di riprovevole nelle azioni belliche di Maometto, dato che le guerre erano una componente della cultura beduina dell'Arabia. Ma il problema è che, oggi, i gruppi musulmani più agguerriti continuano ad adottare quel modello. Dicono: "Anche noi dobbiamo portare all'islam i non musulmani come ha fatto il Profeta, con la guerra e la violenza", e fondano queste affermazioni su alcuni versetti del Corano".
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E a proposito della qualifica di "martiri dell'islam" attribuita ai terroristi suicidi, scrive ancora Khalil Samir:
"Nel Corano si allude una sola volta al suicidio, nella sura delle Donne (IV, 29): "O voi che credete, non divorate vicendevolmente i vostri beni ma commerciate con mutuo consenso e non uccidete voi stessi. Allah è misericordioso verso di voi". A questo unico riferimento coranico si aggiunge una serie di hadith: ne conosco almeno sette e tutti condannano il suicidio. [...] In definitiva il suicidio non trova nessuna giustificazione nella tradizione islamica. Ma il problema si è posto con drammaticità in tempi recenti a seguito dei numerosi episodi che hanno visto in azione terroristi che hanno scelto di morire procurando la morte di altre persone e dichiarando di farlo per una "causa islamica".
"È interessante ripercorrere alcuni dei pronunciamenti che si sono susseguiti a proposito di questi fatti e che segnalano l'importanza assunta dal dibattito all'interno del mondo islamico. Lo sheikh Muhammad Tantawi, rettore dell'università al-Azhar e considerato una delle più alte autorità del mondo sunnita, in una fatwa pronunciata il 2 dicembre del 2001 ha ribadito che il suicidio è da condannare in ogni caso. Ma pochi giorni dopo un altro famoso sheikh egiziano, Yusuf al-Qaradawi, lo ha accusato di formulare considerazioni astratte sottolineando la sua incapacità di applicare le norme classiche a una situazione storica come quella attuale che vede l'islam minacciato in varie parti del mondo. Secondo Qaradawi "nessuno può sostenere che sia illegittimo lottare con ogni mezzo contro l'occupazione israeliana", e che "il jihad sulla via di Dio e la difesa della terra, della patria e delle cose sacre è oggi un obbligo per tutti i musulmani più che in qualsiasi altra epoca del passato [...], in Palestina, nel Kashmir e in altre zone calde del mondo".
"A questo diverbio teologico ha fatto seguito un autorevole pronunciamento contro la liceità del suicidio da parte del decano della facoltà della shari'a dell'università del Kuwait, Mohammed Tabataba'i. A distanza di qualche giorno il capo degli ulema sciiti del Libano, lo sheikh Habib Nabulsi, ha legittimato le gesta dei kamikaze dichiarando testualmente che la fatwa emessa da Tantawi "non ha nessun significato e nessuna legittimità nella giurisprudenza islamica perché non fa riferimento al diritto ma alla politica [cioè alla posizione del governo egiziano, di cui Tantawi sarebbe succube, ndr] e perché i suoi obiettivi sono opposti a quelli della umma", e quindi contrari ai veri interessi dei musulmani.
"Sulla stessa lunghezza d'onda si colloca il comunicato finale emesso al termine del summit tenutosi a Beirut nel gennaio del 2002 e a cui hanno partecipato oltre duecento ulema sunniti e sciiti provenienti da trentacinque paesi: "Le azioni di martirio dei mujahidin sono legittime e trovano fondamento nel Corano e nella tradizione del profeta. Rappresentano anzi il martirio più sublime dato che i mujahidin le compiono con totale coscienza e libera decisione". Nel documento gli ulema affermano di parlare "a partire dalle loro responsabilità religiose, e in nome di tutti i popoli, riti e paesi della nazione islamica per dare indicazioni precise in merito alla causa palestinese". A loro avviso non si deve considerare l'attentato come gesto a se stante, ma in base allo scopo per il quale viene compiuto, che può essere rincondotto nella categoria del jihad perché si vuole proteggere o liberare un territorio musulmano in pericolo.
"Questa visione non si limita peraltro alla legittimazione delle azioni messe in atto dai kamikaze ma investe anche il campo dell'educazione. Ho presente, ad esempio, molti libri che circolano nelle scuole della Palestina e nei quali viene insegnato ai giovani l'obbligo del jihad in tutte le sue forme e si legittimano le gesta di coloro che vengono chiamati "martiri dell'islam", spiegando che non vanno considerati come suicidi ma come eroi e che sono destinati al Paradiso perché hanno fatto un vero jihad: insomma, non si sono comportati in maniera difforme dal Corano, ma si sono sacrificati per la causa islamica. È un altro esempio dell'ambiguità di fondo in cui continua a dibattersi ancor oggi il mondo islamico che non riesce a distinguere la fede dalla politica".
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(s.m.) Nato al Cairo nel 1938 e formatosi in Francia e in Olanda, Samir Khalil Samir vive a Beirut, dove insegna in diverse facoltà dell'università Saint-Joseph e dove ha fondato il Cedrac, Centre de documentation et de recherches arabes chrétiennes. È stato visiting professor alla Georgetown University di Washington, alla Sophia University di Tokio e alle università del Cairo, di Betlemme, di Graz e di Torino. Ha promosso e dirige la collana "Patrimoine arabe chrétien", edita al Cairo e poi a Beirut, è condirettore della rivista di orientalistica "Parole de l'Orient", pubblicata in Libano, e in Italia ha fondato e dirige la collezione "Patrimonio culturale arabo cristiano". È presidente dell'International Association for Christian Arabic Studies.
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Il libro da cui sono tratti i passi sopra riportati:
"Cento domande sull'islam", intervista a Samir Khalil Samir a cura di Giorgio Paolucci e Camille Eid, Marietti 1820, Genova, 2002, pagine 230, euro 13,00.
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