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     GIOVANNI  FARABOLI (Sindacalista)
Givanni Faraboli Faraboli e Giovannino

Novant’anni fa nasceva Guareschi, padre della "strana coppia"

Quell’Italietta in lite di Peppone e don Camillo  

POCHI giorni dopo la sua nascita, il 1° maggio di novant’anni fa, Giovanni Guareschi, avvolto in un fazzolettone rosso, finì fra le braccia di Giovanni Faraboli. Con quell’implume fardello il fondatore delle cooperative della Bassa si presentò alla platea socialista che affollava la piazza del paese e trionfante annunciò: "Gente, oggi è nato un nuovo compagno". Mai profezia fu più fallace, ad onta degli applausi che la scandirono.

Fontanelle di Roccabianca, dove il padre di Peppone e don Camillo vide la luce, è un comunello in provincia di Parma. In famiglia si tirava la cinghia e l’infanzia di Giovannino fu piena di sogni e di digiuni. Gli piaceva scrivere, anche se aveva letto poco o, forse, proprio per questo. Non gli fu facile trovare una ribalta, e non solo perché il suo fondo anarchico mal si conciliava con un regime vincolante all’ubbidienza "cieca, pronta, assoluta". Ma anche perché non voleva lasciare il suo paese e la sua terra, dove chances di farsi conoscere e far carriera ne aveva poche o punte. Finalmente un settimanale milanese, il "Secolo illustrato", cominciò a pubblicare le sue vignette. Il vecchio Angelo Rizzoli le vide, gli piacquero, e aprì all’autore la porta dei suoi giornali. Il boccone era ghiotto: settecentomila lire al mese, ma la patria chiamò e Giovannino, deposta la penna, imbracciò lo schioppo. Tornata la pace, il "Cummenda", che aveva una memoria da elefante, anche se mi chiamava Giordano invece di Gervaso, rilanciò l’offerta e Guareschi si trasferì a Milano, dove, nel ’45, partorì "Candido", settimanale di satira politica: insieme il suo rostro, il suo pulpito, la sua vita. Il mondo si stava dividendo in due emisferi ideologicamente incompatibili e faziosamente ostili, aggiogati a due carri imperiali, quello yankee e quello bolscevico, Giovannino, reduce da due anni di lager nazista a Deblin, in Polonia, dov’era finito per non rinnegare la fede monarchica, si schierò con lo zio Sam contro il Baffone georgiano, diventando il paladino più sanguigno e il propagandista più ruspante dell’anticomunismo. Nelle Botteghe Oscure e nei suoi inquilini, a cominciare da Togliatti, vide i nemici da combattere e da sterminare, non a colpi di Stern o di bazooka, ma di vignette al fulmicotone e di battute al vetriolo. Li dipinse, consegnandoli ai posteri, come "trinariciuti": due froge per respirare e la terza per sfiatare il fumo esalante dal cervello. Il "Migliore" gli rese pan per focaccia, definendolo "tre volte idiota". Ma quello era il clima. Che nelle elezioni del ’48 si arroventò. La Dc trovò in Giovannino una spalla formidabile. Batté per ko alla prima ripresa il Fronte popolare e Walter Lippman, oracolo della stampa americana, commentò: "Hanno vinto De Gasperi e Guareschi". Time rincarò la dose: "Per capire l’Italia e gli italiani bisogna leggere Machiavelli, Mussolini e Guareschi". Esagerava, ma nessuno fiatò. Guareschi non era sceso in campo con penna e clava per difendere il Biancofiore, ma per non ritrovarsi con un’altra mordacchia, dopo quella che per vent’anni gli aveva imposto il regime. Allergico a divise e a prebende, a galloni e a guiderdoni, amava poche cose, oltre a "Candido", che lo teneva incatenato tre giorni alla settimana. Amava la cascina di Busseto, il suo buen retiro; la mensa sempre imbandita. Si dedicava al lavoro dei campi e al "fai da te". Trovava anche il tempo di scrivere libri, e grazie a quelli su Don Camillo e Peppone, il parroco e il sindaco "trinariciuto", nemici per la pelle e amici per la vita, divenne lo scrittore italiano più letto del mondo: venti milioni di copie e traduzioni in quaranta lingue, compreso l’esquimese. Il linguaggio rasoterra (pane al pane vino al vino), lo stile immediato e scanzonato, sfottente e indulgente, favorirono quel prodigioso boom editoriale, senza precedenti e senza seguito. Giovannino aveva colto lo stato d’animo, le inquietudini, i tic, le grandi meschinità, i piccoli eroismi non solo dei fedeli di don Camillo e dei compagni di Peppone, ma dell’uomo, di là da ogni latitudine ed etnia. Anche il giornale andava a gonfie vele finché non decise di pubblicare la falsa lettera di De Gasperi al tenente colonnello americano Bonham Carter, datata 19 gennaio del ’44, in cui il futuro premier chiedeva agli alleati di bombardare la periferia di Roma. Un falso smaccato, un tragico abbaglio. De Gasperi non poté far a meno di querelarlo e il tribunale di condannarlo a quattrocento giorni di carcere. Avrebbe potuto scapolarli, se avesse chiesto la grazia. La rifiutò, scontando la pena con orgoglio sdegnoso. Nel ’55, tornato in libertà, era un altro uomo. Ma era anche un uomo finito. Si chiuse sempre più in se stesso e nel suo piccolo mondo. Quando, il 22 luglio del 1968, uscì di scena, il telegiornale lo commemorò in centotrentacinque secondi, e l’Unità lo liquidò con il perfido epitaffio: "E’ morto uno scrittore mai nato". Più generosa, la rivista americana Life gli dedicò nove pagine. La Dc, more solito, fece finta di niente. Gli doveva tanto, e forse proprio per questo preferì il silenzio. Sorte strana, e anche ingiusta, per chi anticipò di decenni il disgelo e di quasi mezzo secolo il compromesso storico. Oggi, in salsa ulivista. Allora, doncamilliana.