In
questa campagna incantata
io
canto il silenzio degli astri,
io
canto il pulsare dei cuori,
io
canto per me sola,
come
fringuello su un ramo
canto
col mio dialetto d’amore
e
non m’importa d’esser capita.
Se
c’è chi chiede al poeta
incomunicabilità
e fragore,
dissociazione
e più significati
e
ciascun capisca quel che vuole,
costui
non udirà il mio canto
o
lo prenderà per un trastullo,
come
colui che strappa
un
filo d’erba dei campi
non
credendolo nulla.
Ma
l’erba fresca dei campi
dalle
mille forme e sembianze,
è
per me più interessante
di
un qualsiasi rottame pesante.
Così
io canterò sovente
della
capinera imprudente,
della
ginestra elegante
e
del riccio furbo ed esitante.
Se
mi dite che non è poesia
e
vorreste insegnarmi la via,
replicherò
che
ogni cuore
canta
per il proprio amore,
che
se io non amo l’odore
del
carbonio e delle ciminiere,
vorrei
sapere perché dovrei esaltare
le
lordure di questa civiltà
che
riesce a farci diventare
i
polmoni e le anime nere.
E
se io rinnego i vari
Pasolini,
Verlaine, Testori
E
compagnia dicendo,
come
quei grandi
che
stupravano i bambini,
e
mi dite che nulla
capisco
di costoro
che
il mondo ha santificato,
come
anticristi di un
mondo
all’arrovescia,
risponderò
che
ho
amici più fidati
che
pur furono uomini
con
tutti i loro peccati:
prima
fu Detti,
mio
maestro e amico,
architetto,
urbanista,
e
gentiluomo,
vengon
poi gli altri
conosciuti
dai libri
ma
a me vicini
come
in parentela:
Bernanos
e Mauriac
E
poi il sincero Peguy,
la
cui poesia è preghiera
nel
momento in cui il mondo
abbandonando
Dio
fu
abbandonato.
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