Ravnthu appartenne a due delle più grandi famiglie tarquiniesi: per nascita a quella dei Thefrinai e per matrimonio a quella ancora più prestigiosa e storica degli Spurinna. Quando morì fu deposta con gli Spurinna nella regale Tomba dell’Orco, dove ancora s’intravede dipinta in una nicchia, sullo sfondo di un paesaggio agreste. Indossa una tunica bianca ed è distesa con meravigliosa scioltezza in banchetto, accanto al marito Velthur il Grande, l’eroe che al comando di due eserciti etruschi partecipò come alleato di Atene all’assedio di Siracusa. Le sue quinquereme combatterono magnificamente nella battaglia di Lisimelia, ma quella fu l’ultima azione militare di vasta portata in cui, nel meridione, apparvero le forze navali di Tarquinia. Perché, come era stato scritto inesorabilmente, il tempo concesso dagli Dei alla nazione etrusca stava per concludersi e nel silenzio del cielo sereno era già risuonato lo squillo terrificante della tromba sacra che ne annunciava la fine.
Roma invadeva le terre, atterrava le rocche, devastava i porti, ma Tarquinia resisteva e contrattaccava. Ogni volta, a difendere la libertà della città santa al nomen etrusco c’era uno Spurinna, strettamente legato per vincoli di parentela alla matriarca Ravnthu. Prima scese in campo suo figlio Velthur il giovane, poi suo nipote Avle, che i romani chiamavano Aulus. Avle Spurinna spodestò dal trono Orgolnius, re di Cere, liberò Arezzo dalla rivolta degli schiavi, tolse ai Latini nove città fortificate. Poi carico di orgoglio, di rancore e di sete di libertà, affrontò Roma in campo aperto. Tanta era l’ira di entrambe le parti che nessuna iniziò lo scontro con i giavellotti, gli archi e le altre armi da getto. La battaglia fu subito aperta con la spada, corpo a corpo, e la già inaudita violenza iniziale si accrebbe durante la lotta.
I tarquiniesi vinsero e il prezzo che imposero ai vinti fu durissimo: con un implacabile cerimoniale che si protrasse per giorni e giorni, in un mare di sangue che inondò il Foro di Tarquinia, trecentosette prigionieri romani furono giustiziati davanti all’Ara della Regina. Nella seconda battaglia per la libertà, le truppe etrusche inferiori per numero furono sconfitte. Questa volta fu Roma a non avere pietà. I tarquiniesi vinti furono passati per le armi la sera stessa, sul luogo dello scontro. Trecentocinquantotto tra i più nobili furono invece trascinati nell’Urbe. Qui, in un crescendo di orrore che superò quello dell’eccidio dell’Ara della Regina, furono pubblicamente massacrati. I ricchi oliveti, i vigneti, i campi della città vinta furono bruciati e gli impianti idraulici insabbiati. Tarquinia non morì subito, anzi conobbe altri anni di effimero splendore. Poi, pian piano, uscì dalla storia.
Mezzo millennio più tardi, però, un cittadino della Roma Imperiale, che nonostante l’oblìo dei molti secoli trascorsi voleva onorare il ricordo dei suoi antenati etruschi, fece incidere in una epigrafe, gli “Elogia Tarquiniensia”, le lodi degli Spurinna e il racconto delle loro grandi gesta. Tra i nomi degli eroi, con grandissima dignità e rispetto, volle immortalare anche quello di Ravnthu, la donna che orgogliosamente fu al centro della loro gente e della loro storia. L’epigrafe degli Elogia è conservata nel Museo Nazionale Archeologico di Tarquinia.
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