TANAQUILLA

 

Nella splendida Tarquinia del VII secolo a.C., Tanaquilla era la donna che più assomigliava alla città. Nobile, ricchissima, ambiziosa, era ammantata di una sacralità speciale, poiché nessuna come lei era esperta nelle dottrine tagetiche.
Sapeva leggere i segni attraverso i quali si manifestavano gli Dei e, come toccata dal divino, aveva il dono di interpretarli in modo da stornare da essi tutto quello che si opponesse alla propria volontà e allontanare ogni significato che ostacolasse i suoi progetti, trasformando così il suo fascino divinatorio in potere personale al quale tutti finivano per piegarsi.

Sposò Luchmon, figlio di una Tarquiniese e del greco Demarato che, fuggito da Corinto con un seguito di ceramisti eccellenti e di pittori squisiti, si era stabilito a Tarquinia, inondandola di bellezza e di ricchezza. Ma a Luchmon, proprio perché figlio di uno straniero sia pure così eminente, non era permesso dalle rigorose tradizioni etrusche di percorrere la carriera politica fino ai massimi livelli. L’esclusione dai giochi del potere sembrò intollerabile a Tanaquilla, che convinse il suo uomo a trasferirsi a Roma, città ancora giovane e in cerca di una propria identità dove tutto poteva accadere a chi era intelligente, intraprendente e ricco. Fu lei, che orgogliosa e impavida sapeva guidare i veloci carri da corsa degli etruschi, a prendere personalmente le redini del pilentum a quattro ruote carico di vasi dipinti e di preziosità di ogni genere con il quale, lasciando Tarquinia insieme al suo compagno, affrontò un destino che avrebbe cambiato la storia.

Sul Gianicolo, il primo colle di Roma che si incontra giungendo dall’Etruria, accadde un evento prodigioso: un’aquila piombando dal cielo ad ali spiegate, ghermì il cappello di Luchmon e dopo aver volato con alti stridi, glielo ripose in capo, come se solo per questo fosse venuta. Infine si rialzò in volo e sparì nel cielo altissimo. Luchmon ritenne infausto il presagio e ne rimase sopraffatto. Tanaquilla, invece abbracciò con riverenza il marito e vaticinò la gloria che lo attendeva: l’aquila scesa da altezze così grandi era il messaggero dei Numi e aveva tolto e rimesso il berretto etrusco sulla sua testa per significare che con lui stava entrando in città un vero capo che, voluto dagli dei, avrebbe reso Roma più grande e più potente.

Infatti Luchmon che era saggio e generoso ma che soprattutto sapeva combattere a cavallo e a piedi più coraggiosamente degli altri, divenne re con il nome di Lucio (Luchmon) Tarquinio (proveniente da Tarquinia) Prisco, il primo dei re etruschi. In quel tempo, Roma non era una vera città: sui colli tiberini esistevano soltanto sparuti gruppi di villaggi e nei luoghi pianeggianti regnava ancora la palude. Tarquinio la drenò, trasformò il terreno prosciugato in mercato, il futuro Foro Romano e di qui fece partire un reticolo di strade lastricate tra le quali la Via Sacra. Poi costruì gli edifici che sarebbero rimasti per sempre il nucleo monumentale dell’Urbe e gettò le fondamenta del tempio di Giove Capitolino. Infine, trasmise ai romani tutti i cerimoniali e i simboli che a Tarquinia significavano l’autorità: i littori con i fasci di verghe e la scure, le porpore ricamate, le corone d’oro, i troni e gli scettri d’avorio sormontati dall’aquila e l’uso di trionfare sul carro aureo a quattro cavalli. Musici, danzatori, atleti, artisti tarquiniesi invasero la città e riuscirono ad incantarla.

Da allora Roma incominciò a rincorrere un sogno: diventare nel tempo raffinata come Tarquinia e superarla in grandezza e splendore. Poi, negarne con crudeltà la dipendenza e cancellarne per sempre il nome dalla storia.

 

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