la DOTTRINA
e le QUATTRO VERITA'
LA FILOSOFIA
LA PRIMA NOBILE VERITA'
LA SECONDA NOBILE VERITA'
LA TERZA NOBILE VERITA'
LA QUARTA NOBILE VERITA'
LA DOTTRINA
DEL NON SE'
LA
MEDITAZIONE
LA FILOSOFIA
Il problema principale che si incontra nello studio delle filosofie
indiane (lo abbiamo già detto altre volte, ma è importate ripeterlo) è
l'enorme difficoltà nell'accertare cosa abbia veramente detto il maestro
originale e quali siano invece le interpretazioni dei suoi seguaci e
discendenti. Il buddhismo non è un'eccezione. Ciò è abbastanza
comprensibile se si pensa che i tempi del Buddha sono trascorsi da circa 2500
anni. Perciò cercheremo di parlare del buddhismo presentandovi la versione
dei buddhisti storici. Ma quanto sarebbe meglio discutere di ciò che
veramente disse il Maestro!
Cominciamo col definire la mentalità di un praticante
buddhista.
Prima di tutto il Buddha non diceva di essere Dio o qualche incarnazione
divina, ma sosteneva di essere un uomo qualsiasi e che qualunque risultato
dovesse essere ottenuto grazie al proprio sforzo. Il ruolo dell'uomo è
fondamentale. Non essendoci alcun Dio da realizzare, il fulcro principale
della ricerca filosofica è la persona, l'uomo, la cui posizione è sempre
suprema. Solo lui, infatti, può accedere al più alto stadio, che è quello
di divenire un Buddha. Come abbiamo già accennato, non c'è un essere supremo
o un potere superiore che possa decidere il nostro destino: ognuno è il
rifugio di se stesso. L'importanza dei maestri (i tathagata), come il Buddha e
gli altri, sta nell'insegnare la via, che poi però deve essere percorsa dallo
studente, cioè da ognuno di noi.
Da questo inizio possiamo vedere quanto diverso è l'approccio alla
filosofia da parte del buddhismo rispetto alle altre dottrine indiane. Tutte
queste hanno sempre messo al centro di ogni cosa un Dio spirituale (personale
o meno che sia), mentre per il buddhismo l'uomo è solo e pienamente
responsabile del proprio destino. Una manna, per gli atei e i materialisti di
ogni genere.
La cosa più importante è la giusta conoscenza. Il maestro non deve
essere accettato prima che abbia dato prova di possedere la conoscere corretta
e solo allora il discepolo deve accettare di porsi sotto la sua guida. E lui,
lo studente, deve avere un forte desiderio di conoscere.
La base della sapienza è la fede, ma non quella cieca di tante
religioni, bensì quella fondata sull'esperienza. Infatti, dice il Buddha, la
fede è quella che scaturisce dalla conoscenza. Se conosci, credi. Non si può
credere a qualcosa che non si conosce. L'Illuminato criticava il brahmanesimo
del suo tempo proprio per questa loro pretesa di far credere ciò che poi non
poteva essere realmente conosciuto e paragonava quei brahmana degradati a
tanti ciechi che volevano trascinare altri nel loro stesso baratro.
Ma non si deve neanche essere attaccati alla conoscenza stessa, la
quale può diventare un fardello. E' come una zattera: quando il fiume è
attraversato, questa va abbandonata. Non c'è bisogno di portarsela appresso.
Il Buddha era un filosofo pratico. Non sembra che fosse stato
interessato a complicate questioni metafisiche. Nel suo discorso a
Malunkyaputta, affermò che comprendendo tutto ciò che riguarda le quattro
verità fondamentali (chiamate le Quattro Nobili
Verità), si sarebbe
conosciuto tutto. Queste sono:
1) dukkha,
2) samudaya, il sorgere, o l'origine del
dukkha,
3) nirodha, la cessazione del dukkha,
4) magga, il sentiero che conduce alla cessazione del
dukkha.
Seguiremo la traccia dell'Illuminato cercando di spiegare i suoi
insegnamenti passando proprio attraverso l'analisi delle Quattro Nobili Verità.
LA PRIMA NOBILE VERITA'
Il termine pali dukkha (in sanscrito duhkha) generalmente è tradotta
come sofferenza, ma questa parola non è sufficiente per dare l'idea piena del
suo significato. La sofferenza è solo una parte del dukkha. Infatti essa
porta in sé anche i concetti di imperfezione, di impermanenza, di vacuità,
di insostanzialità. E siccome è difficile trovare una parola italiana che
comprenda tutti questi significati, crediamo sia meglio non tradurla affatto.
Quando il Buddha dice che questo mondo è composto solo di
dukkha,
non intende negare l'esistenza di varie forme di felicità, siano esse
materiali che spirituali. In una delle scritture che ci informano dei primi
dialoghi dell'Illuminato (l'Anguttara-nikaya) troviamo addirittura una lista
di cose piacevoli che sia un laico che un monaco può trovare nel mondo. Ma
queste sono incluse nel dukkha. Persino gli stati più altamente spirituali
sono inclusi nel dukkha. La ragione è che tutti sono impermanenti e soggetti
alle mutazioni. Forse non sono sofferenza, possono anche essere piacevoli, ma
certamente sono dukkha, perché destinati alla fine.
Il piacere dei sensi si manifesta ed esiste in tre modi e momenti
diversi, che sono:
1) l'attrazione,
2) l'insoddisfazione e
3) la liberazione.
Facciamo un esempio. Quando ascoltate una bella musica, ne siete attratti e
ne gioite. Ma prima o poi finisce e allora sentite il dispiacere. In questo
modo si può capire che è un'illusione e ve ne distaccate, diventando liberi
dall'attrazione. Per liberarsi veramente è necessario rendersi conto della
realtà della vita.
Il dukkha può essere visto sotto tre aspetti:
1) dukkha visto come sofferenza comune (dukkha-dukkha),
2) dukkha inteso come prodotto del cambiamento (viparinama-dukkha) e
3) dukkha compreso come l'insieme di stati condizionati (samkhara-dukkha).
Ora, comprendere che in questa vita si soffre e che si prova dolore
perché tutto sfugge è facile capirlo. Ma per capire il terzo tipo di dukkha
(il samkhara-dukkha) si devono approfondire alcuni concetti, cominciando da
quello che riguarda il cosiddetto "io".
Per il buddhismo non esiste un io individuale, un
atma, come lo si
concepisce nel Vedanta e in tutte le altre dottrine di origine vedica. Quello
che noi chiamiamo "il sé" è solo una combinazione di forze, o
energie mentali e fisiche, che sono in continuo cambiamento. Insomma, potremmo
chiamarlo un flusso energetico in continuo mutamento. Ma non esiste nessun io.
Questi flussi possono essere schematizzati secondo cinque
raggruppamenti e per questa ragione vengono chiamati "i cinque
aggregati". Messi insieme, costituiscono il senso più profondo della
parola dukkha.
Questi cinque (panchakkhandha) sono gli aggregati
1. della materia (rupakkhandha), che includono tutto il regno della
materia vera e propria, sia interna che esterna,
2. delle sensazioni (vedanakkhandha), comprendenti il mondo delle
sensazioni sia fisiche che mentali,
3. delle percezioni (sannakkhandha), e cioè la capacità di
riconoscere sia l'oggetto fisico che mentale,
4. delle formazioni mentali (samkharakkhandha), che sono il potere
concernenti le attività dipendenti dalla volontà,
5. della coscienza (vinnanakkhandha), che sono le reazioni conseguenti
alle percezioni.
A questo punto è meglio spendere qualche parola sulla coscienza.
Nelle filosofie vediche noi apprendiamo che la coscienza è la prima
manifestazione dell'anima, intesa come un sé individuale. Ma nel buddhismo è
differente. La coscienza non sorge da alcun sé, bensì è il risultato delle
condizioni esterne. Abbiamo un occhio e una forma visibile; dunque nasce una
coscienza visibile. Abbiamo un palato e del cibo; dunque nasce un'altra
coscienza visibile. Ma questa coscienza non nasce se non ci sono le
condizioni. Perciò non c'è una coscienza oggettivamente esistente.
Abbiamo già accennato a cosa è il mondo secondo il
Buddha: un
flusso continuo e non permanente di elementi. Con l'atto di sparire, un
elemento condiziona l'apparizione del seguente, in una serie di cause ed
effetti che non conosce soste. Quindi non c'è una sostanza eterna e
immutabile. Non esiste nessun sé dietro le cose, nessun io individuale né
subordinato né supremo, ma solo degli aggregati fisici e mentali
interdipendenti tra di loro, che costituiscono la "macchina
psicofisica".
Buddhaghosha diceva che esiste una sofferenza, ma non un lui che
soffre; che ci sono le azioni, ma non un autore; c'è il movimento, ma non un
motore che lo provoca. Non sussiste differenza tra il pensiero e colui che lo
pensa: infatti se togliete il pensiero, non esiste più un pensatore.
Andiamo a vedere un'altra questione. Ci chiediamo: la vita ha un
inizio? La risposta è no. E' impensabile che la vita, ossia la corrente
vitale degli esseri viventi sia nata in qualsiasi dato momento. E' eterna e,
con essa, anche il samsara è eterno. E la causa principale delle continuità
della vita è l'ignoranza.
Il Buddha diceva che era importante capire bene cosa fosse il
dukkha:
chi lo conosce, vede chiaramente il suo insorgere e ne intravede la
cessazione; così come comprende quale sia il sentiero che conduce alla
perfezione dell'esistenza.
LA SECONDA NOBILE VERITA'
Ora parleremo della Seconda Nobile Verità, che riguarda l'origine del
dukkha. Da cosa proviene? Dal prepotente desiderio di essere e di provare
qualcosa (tanha), risponde il Buddha, da cui proviene la rinascita e ogni tipo
di divenire.
Ci sono diversi tipi di desideri (o sete di sensazioni), che vengono
classificati nel seguente ordine:
1) la voglia di piacere sensoriale,
2) la spinta a esistere e a divenire,
3) il desiderio di annullarsi, di scomparire.
Queste voglie sono all'origine di tutte le sofferenze e, come
conseguenza, della continuità degli esseri. Ma neanche questo forte desiderio
è la causa prima di tutto, in quanto il buddhismo rifiuta l'idea di una
qualsiasi ragione che sia al principio di tutto. Se si ammettesse che qualcosa
era al principio, questa diverrebbe indipendente. E non c'è nulla del genere,
in quanto ogni cosa è interdipendente in modo totale. Se volessimo immaginare
il creato ce lo potremmo figurare come una ruota, che non ha un punto dove
inizia e dove finisce.
Ma questa voglia insaziabile di esistere da dove proviene?
Dall'ignoranza, risponderebbe qualsiasi buddhista, che nasce dalla falsa
cognizione di un sé. In altre parole, dal momento in cui cominciamo a pensare
di esistere, iniziamo a provare mille desideri. A causa di questa falsa
concezione, noi agiamo (karma) e da queste azioni provengono delle reazioni (karma-phala),
che ultimamente ci costringono a rinascere in un ciclo senza fine (samsara).
Ma vediamo meglio questa teoria dalla prospettiva buddhista.
Ci sono quattro condizioni necessarie per l'esistenza e per la
continuità degli esseri, che sono:
1) il nutrimento che conosciamo, quello che otteniamo con il cibo,
2) il contatto degli organi di senso con il mondo esterno, senza dei quali
qualsiasi vita sarebbe improbabile,
3) la coscienza, di cui abbiamo già parlato,
4) la volontà, che è l'esigenza di esistere.
Queste condizioni fanno sì che la vita sia possibile, ci capacitano
a portare avanti diversi tipi di azioni, che possono sempre essere positive o
negative. Queste provocano delle reazioni della stessa natura che causano la
continuità e impediscono l'estinzione del concetto di essere, da cui
scaturisce ogni sofferenza.
Ma non dobbiamo pensare che questo dolore sia qualche tipo di
giustizia divina o morale, non sono delle ricompense o delle punizioni in
quanto, per il buddhismo, non esiste un Dio che giudica e che quindi punisca o
ricompensi. Ogni essere condizionato è prigioniero di questa legge; solo il
liberato (arahant) può agire in questo mondo senza che i suoi atti producano
alcun karma, e questo perché è libero dalla falsa idea che esista un sé.
Per tale persona non c'è rinascita.
Cos'è la morte? Come dicono anche le dottrine di origini
vediche,
la morte in sostanza non esiste: anche per il buddhismo la conclusione è la
stessa. Ma le ragioni differiscono. Mentre per i Veda noi siamo l'anima e
questa, essendo eterna, non muore, per il buddhismo tutto ciò che c'è in
questa vita si trasferisce nella prossima. E quindi la morte è un fenomeno
illusorio.
Ora, sicuramente viene da chiederci, se non c'è un
atma, dopo la
morte cos'è che si reincarna? Abbiamo già detto che per il buddhismo la vita
è una combinazione di elementi, di impulsi energetici in continuo
cambiamento; nulla rimane lo stesso neanche per due istanti consecutivi. Ogni
momento tutto nasce e muore. Anche ciò che identifichiamo come il
"noi" subisce ogni istante lo stesso processo. L'istante della morte
non è che uno dei tanti momenti della vita, in cui quelle stesse forze si
trasformano, per continuare ad esistere in nuove forme. L'esistenza di ogni
cosa è un continuo rinnovarsi: nulla è immutabile e nulla si trasmette da un
istante all'altro. E' una serie continua, ininterrotta, di mutazioni, di
movimenti. Ciò che rinasce dopo la morte non è che la continuità della
stessa serie.
La differenza tra la vita e la morte non è che un istante mentale:
l'ultimo momento di attività mentale condiziona il primo della cosiddetta
nuova vita, che porrà le basi per la continuazione della serie. E tutto ciò
andrà avanti fintanto che ci sarà la sete di essere. Questo circolo vizioso
si può spezzare solo con l'arma della saggezza.
LA TERZA
NOBILE VERITA'
Ora discuteremo le teorie buddhiste che riguardano la liberazione.
Questa Terza Verità è chiamata "la Cessazione del Dukkha" (dukkhanirodha-ariyasacca)
e non è altro che il Nirvana, termine ben conosciuto anche in occidente.
Prima di tutto dobbiamo dire che il Buddha ammetteva l'esistenza
della liberazione, e anzi che tutto il nostro sforzo deve vertere sul suo
ottenimento. Per far ciò bisogna eliminare la radice del dukkha. Come?
Azzerando i desideri. Infatti un altro epiteto del Nirvana è tanhakkhaya
(estinzione della sete).
Ma andiamo con ordine e vediamo cosa si intende per Nirvana.
In primo luogo bisogna dire che non si può mai essere precisi
quando si parla di questo argomento, in quanto il linguaggio è uno strumento
creato dagli uomini e risente perciò delle loro stesse limitazioni e dei loro
condizionamenti. Infatti abbiamo tradotto in parole solo la limitata gamma
delle esperienze sensoriali. Dunque è un'arma che potrebbe diventare
controproducente, in quanto produce degli schemi mentali che non corrispondono
alla verità. Ma siccome non si può rinunciare a comunicare con le parole,
tentiamo di definire il Nirvana.
Secondo una logica diffusa negli ambienti
buddhisti, definire il
Nirvana in modo positivo presenta pericoli maggiori che farlo con il processo
negativo, per cui conviene sempre prima specificarlo in rapporto a "ciò
che non è". Per cui il Nirvana è "lo stato dove il desiderio è
cessato", è il "non composto", "l'incondizionato",
"la situazione in cui tutto è estinto, spento" e via dicendo. E'
dunque la cessazione della continuità e del divenire.
Ma, affermano i buddhisti, sbaglia chi dice che si stia tentando di
promuovere una qualsiasi forma di nichilismo, o di annientamento del sé: in
realtà non c'è alcun sé da annullare, né nient'altro da azzerare. L'unica
cosa che deve essere annientata è la falsa idea di un sé. Questa è sapienza
perfetta.
In ciò consiste la Verità Assoluta, che è il determinare con
certezza totale che al di là del Nirvana non c'è nulla di assoluto; che
tutto è relativo, condizionato e temporaneo e che non esiste atma dentro o
fuori di noi. Ogni cosa che sperimentiamo diventa vera solo quando possiamo
vedere la realtà priva di veli, senza illusioni o condizionamenti.
Ma il Nirvana non è il risultato dell'estinzione del desiderio.
Infatti se fosse il risultato di qualcosa, diventerebbe un elemento
condizionato. E nella logica buddhista questa conclusione deve essere
rigettata.
Potremmo chiederci cosa ci sia al di là del Nirvana, e la risposta
è ovvia: dopo di quello non c'è nulla. Il Nirvana non è un regno, o uno
stato, ma un'estinzione. Dunque non dobbiamo immaginarlo come una specie di
paradiso dove ritroviamo i nostri maestri, i nostri amici, le persone a cui
tenevamo durante la nostra vita. Anche i Buddha si estinguono dopo la morte.
Si sta parlando di come ottenere lo stato di Nirvana. Ma chi è che
lo realizza, se non esiste un'atma? La risposta è che è la comprensione che
comprende, ed è la stessa energia che vuole liberarsi. Dentro la prigionia c'è
la liberazione, l'ignoranza comprende la capacità di giungere a comprensione.
Dentro dukkha c'è l'elemento della sua cessazione: possiamo trovarlo
all'interno dei cinque aggregati. Dunque la liberazione è parte naturale di
ciò che noi crediamo sia il creato.
Quando la saggezza è sviluppata, si vedono le cose come stanno e
tutte le forze che producono il ciclo delle morti e delle rinascite (samsara)
si placano e diventano incapaci di produrre nuovo karma. Cessata è
l'illusione, non c'è più sete per la continuità: solo allora si ottiene il
Nirvana, stato che si può raggiungere anche in questa stessa vita. Chi ha
guadagnato questa posizione prova la più grande felicità possibile, che
consiste nel non provare più sensazioni.
Ma il Nirvana è al di là di ogni logica e ragionamento. Non si può
capire con esattezza solo discutendone: dobbiamo soprattutto realizzarlo.
LA QUARTA
NOBILE VERITA'
Ora andiamo ad analizzare il sentiero, cioè i modi necessari per
giungere alla cessazione del dukkha. Questo sentiero è generalmente
conosciuto come "l'Ottuplice Sentiero", una strada composta di otto
fasi. Infatti essa è composta da altrettante categorie (o divisioni), che
sono:
1) retta comprensione,
2) retto pensiero
3) retta parola
4) retta azione
5) retta condotta di vita
6) retto sforzo
7) retta consapevolezza
8) retta concentrazione
Questa sezione può, con tutta probabilità, essere considerata la
parte più importante dell'insegnamento del Maestro; sicuramente è quella
sulla quale ci si è soffermato con maggiore insistenza. Bisogna anche
premettere che le otto categorie che compongono questo processo disciplinare
non vanno praticate una dopo l'altra, ma più o meno in modo simultaneo.
Queste sono utili a perfezionare i tre elementi essenziali della disciplina
buddhista, che sono la Moralità, la Disciplina Mentale e la Saggezza.
Vediamo le ultime tre una per una, inquadrandole nella logica del
Sentiero a Otto Fasi.
Quando parliamo di Moralità (shila) intendiamo l'amore e la
compassione nei confronti di tutti gli esseri viventi, che però deve tradursi
in un aiuto reale, non sentimentale, che solo la Saggezza può conferire.
Questa qualità comprende tre fattori del Sentiero a Otto Gradi, che sono la
retta parola, la retta azione e la retta condotta di vita. La parola è retta
quando non si indulge in bugie, in maldicenze, in linguaggi duri, scorbutici o
addirittura ingiuriosi, nel pettegolezzo o nei discorsi futili. Se non ha
nulla di importante da dire, il buddhista deve rimanere in "nobile
silenzio". La retta azione mira a promuovere una condotta morale
irreprensibile. La retta condotta di vita vuole ingiungere a tutti di
astenersi, anche se solo per guadagnarsi da vivere, da professioni che possano
nuocere agli altri. Questi tre fattori costituiscono la Moralità.
Viene poi la Disciplina Mentale, in cui sono inclusi altre tre
elementi del Sentiero a Otto Gradi, che sono: il retto sforzo, la retta
attenzione e la retta concentrazione. Il retto sforzo è la volontà energica
di prevenire gli stati mentali cattivi e malsani, di sbarazzarsi di quegli
stati negativi che siano già sorti in noi e naturalmente di produrne di
positivi. La retta consapevolezza (o attenzione) consiste nell'essere sempre
coscienti di ciò che si fa, delle nostre sensazioni, delle emozioni, delle
attività della nostra mente, delle idee e dei pensieri. Il terzo e ultimo
fattore della disciplina mentale è la retta concentrazione. E' importante
imparare a concentrarsi nel modo giusto.
Infine la Saggezza, composta dagli ultimi due elementi che
costituiscono il Sentiero a Otto Fasi, che sono il retto pensiero e la retta
comprensione. Il retto pensiero è il controllo delle proprie riflessioni, le
quali devono essere educate a focalizzarsi su soggetti come la rinuncia e
l'amore universale. La retta comprensione consiste nello sforzarsi di capire
come stanno le cose in realtà e che possiamo impararle comprendendo le
Quattro Nobili Verità.
Dunque, riassumendo il tutto, la prima verità consiste nel capire
la natura vera della vita, che è dukkha. La seconda nella comprensione
precisa dell'origine del dukkha, che è il desiderio. La terza nel trovare il
modo di estirpare il dukkha. La quarta nell'analisi del sentiero che conduce
al Nirvana.
LA
DOTTRINA DEL NON SE'
Torniamo ora su uno dei punti cardini della filosofia buddhista, che è
quella dell'anatma (in pali anatta), ovverosia della convinzione che non
esista nessun sé, né individuale né assoluto. Vediamo di dare qualche
elemento in più oltre quelli già espressi.
Nella storia del pensiero, il buddhismo è stato forse il solo a
negarne l'esistenza in modo tanto perentorio. Va detto subito però che anche
su questo punto fervono da secoli aspre polemiche, in quanto c'è chi sostiene
che il Buddha non sarebbe stato affatto chiaro su questo argomento ma che
avrebbe spesso taciuto e altre volte detto mezze verità. Siamo d'accordo su
questa interpretazione. Infatti non affrontare un discorso sull'anima non
significa necessariamente volerne affermare l'inesistenza. Ma anche qui
sarebbe interessante poter stabilire cosa avesse veramente inteso dire o
tacere il Maestro e separarlo dalle interpretazioni dei suoi successori.
Ad ogni buon conto, per il buddhismo classico l'idea
dell'atma è
una credenza totalmente infondata e anzi pericolosa. Dal loro punto di vista
ha, infatti, il potere di causare pericolosi dualismi interiori, scatenare
l'idea dell'io e del mio, desideri egoistici e mai saziabili, orgoglio e
impurità. Secondo loro, tutti i guai del mondo possono essere fatti risalire
a questa falsa visione.
Abbiamo già visto come tutto il creato ricade nelle cinque
divisioni di elementi, oltre alle quali non c'è nulla. Comprendendo la
dottrina della Genesi Condizionata (Paticca-samuppada), ci si può liberare
dalla falsità. Questo sistema dice che:
1) L'ignoranza condiziona le azioni (karma); in altre parole noi
agiamo, e lo facciamo in un certo modo a causa dell'ignoranza che ci
imprigiona. Poi
2) dalla qualità delle azioni viene condizionata la coscienza, che è
la facoltà di percepire. Dunque è naturale che
3) dalla coscienza siano condizionati i fenomeni mentali e fisici,
4) dai quali inevitabilmente vengono condizionate le sei facoltà (i
cinque organi di senso più la mente).
5) Dalle sei facoltà è condizionato il contatto (sia dei sensi che
della mente), il quale poi
6) condiziona la sensazione, o la capacità di provare gusti,
7) dalla sensazione è condizionato il desiderio. Quando si provano
delle sensazioni è normale che il desiderio ne sia condizionato. Poi
8) dal desiderio viene condizionato l'attaccamento
9) dall'attaccamento è condizionato il divenire
10) dal divenire è condizionata la nascita
11 e 12) dalla nascita sono condizionati la vecchiaia, la morte, il
lamento, il dolore.
E' così che la vita nasce esiste e continua. Per far sì che il
processo dell'ignoranza abbia fine dobbiamo invertire la direzione di marcia,
e cioè: cessando l'ignoranza, terminano le attività interessate e via
dicendo.
Comunque ribadiamo che per il buddhismo non esiste nulla di assoluto
e indipendente: tutto è condizionato e condizionante.
Qualcuno potrebbe chiedersi: come mai nel linguaggio del Buddha
erano così tanto presenti i concetti riguardanti le persone e le cose, come
se esistessero delle individualità?
La risposta è simile a quella che avrebbe dato
Shankara, e cioè
che esistono due tipi di verità: la verità convenzionale e la verità
ultima. La prima è quella che si stabilisce per comodità di dialogo e serve
per avvicinarsi a una verità superiore, mentre l'altra è la definitiva.
Non sono pochi, comunque, coloro che sostengono che il Buddha
avrebbe ammesso l'esistenza di un sé e altrettanti quelli che dicono con
certezza che, a riguardo di questo punto specifico, abbia intenzionalmente
taciuto.
LA MEDITAZIONE
Per il buddhismo, la meditazione è lo strumento grazie al quale si può
ripulire la mente da ogni impurità, da ciò che provoca turbamento, come i
desideri materiali, l'odio e le preoccupazioni. Grazie ad essa, il praticante
può dunque giungere alla verità più alta, il Nirvana.
Sono previste due forme di meditazione, due sistemi abbastanza
diversi tra di loro: il primo è detto samadhi (in pali samatha) e il secondo
vipashyana (in pali vipassana).
Il samadhi consiste nel concentrare la propria attenzione mentale su
un unico punto, cercando di non deviare mai dall'oggetto assunto come
strumento di meditazione. E' sostanzialmente una forma di meditazione presa in
prestito dal sistema yoga, ben precedente all'epoca buddhista. Si dice che
attraverso questo sistema non si possa direttamente conseguire il Nirvana,
tanto che il Buddha stesso ne avrebbe contestato la validità. Sarebbe utile,
questa, solo per vivere felicemente in questa vita. Fu lui stesso che scoprì
un altro metodo di meditazione, conosciuta come vipashyana, che è lo sviluppo
di una diversa visione della natura delle cose che dovrebbe condurre alla
liberazione della mente e ultimamente al Nirvana.
Analizzato dal Buddha stesso in un importante discorso sulla
meditazione chiamato satipattana-sutta, (I Fondamenti della Consapevolezza),
è un metodo analitico basato sulla presa di coscienza attenta e vigile di
ogni azione che si compia. Non importa cosa si faccia, l'importante è non
perdere mai la concentrazione sui propri atti, siano questi la respirazione,
il provare piacere, odio, amore o dolore. Si deve sempre essere attenti a
qualsiasi cosa si faccia. Secondo il buddhismo, questa forma di controllo
mentale può portare al Nirvana.
Ma non si deve pensare che "sono io che faccio questo".
Bisogna dimenticare il concetto illusorio dell'esistenza di un io agente per
identificarsi totalmente nella propria azione. E quando i cinque impedimenti
che si frappongono sul sentiero (i desideri sessuali, l'odio, la pigrizia, le
eccitazioni e i dubbi) si saranno acquietati, sarà possibile ottenere la
liberazione finale, il Nirvana.