PITINUM  MATAURENSE

 

Questo epigramma in eleganti versi esametrici latini, inciso a grandi caratteri sull’attico di Porta Albani a Sant’Angelo in Vado, sintetizza mirabilmente la storia dell’antica Tifernum Mataurense e della città moderna che ne ha ereditato il sito. Il municipio romano affonda le sue più remote radici nella cultura preistorica e protostorica. Le più antiche testimonianze di un piccolo insediamento dell’età del ferro, segnalato da resti di capanne, sono state recentemente individuate nell’area meridionale della città, tra via Galassia e via Copernico, ai piedi del monte detto della Giustizia. Significative tracce dell’esistenza di un abitato di età premunicipale, forse ancora di tipo protourbano, si intravedono nei livelli più profondi dei saggi e degli scavi archeologici, costituite da pavimenti in cocciopesto (opus signinum) con tessere di cotto e da pozzi artificiali, poi obliterati nella fase della successiva urbanizzazione. Anche le monete e le ceramiche di età medio e tardorepubblicana sembrano confermare questa ipotesi. Non conosciamo con esattezza la data di costituzione del municipio, tuttavia gli studi storici più recenti - sempre più confortati dai dati emergenti dagli scavi archeologici - sono orientati a collocarla negli anni immediatamente successivi alla guerra sociale (90-88 a.C.), quando l’oppido di Tiferno da semplice città alleata di Roma (civitas foederata) sarebbe divenuto municipium romanum. L’origine stessa del nome sembra riconducibile al substrato linguistico preromano di natura umbra: Umbria era chiamata la regione amministrativa (regio VI) in cui Augusto incluse queste ed altre comunità limitrofe delle Marche settentrionali, e Clustumina era il nome della tribù elettorale di appartenenza. Il municipio disponeva di un vasto territorio, per lo più collinare e montano, confinante con quello di Tifernum Tiberinum (Città di Castello), Sestinum (Sestino), Pitinum Mergens (Macerata Feltria), Urvinum Mataurense (Urbino) e Pitinum Mergens (Acqualagna, loc. Pole), sul quale erano sparsi insediamenti demici minori (vici e pagi). Sembra che il principale dei vici tifernati sorgesse presso la Pieve d’Ico (Plebs Vici) di Mercatello sul Metauro. La viabilità extraurbana verso il territorio ed i municipi limitrofi si imperniava su tre diverse direzioni, riconducibili agli assi principali (kardo e decumanus) della città: ad est correva una strada che, costeggiando la sponda destra del Metauro, piegava poi verso il muniimpaginato cipio di Pitinum Mergens per raccordarsi con la via consolare Flaminia; da sud partiva un’altra strada che risaliva la valle del torrente Mòrsina e raggiungeva la valle del Tevere e Tifernum Tiberinum con un percorso intervallivo; un terzo asse stradale, ad ovest, risaliva la sponda destra del Metauro in direzione dell’Appennino e del territorio del municipio sestinate. La strada est-ovest, tagliando longitudinalmente l’intera alta valle del Metauro, fungeva anche da asse centuriale per la parcellizzazione delle terre coltivate (centuriazione). Di Tifernum Mataurense troviamo per la prima volta una sicura menzione nella Naturalis historia di Plinio il Vecchio (III, 114). Non è altrettanto chiaro se al nostro Tiferno, o piuttosto a quello Tiberino, siano da riferire alcuni passi della Geografia di Tolemeo di Alessandria e del Liber Coloniarum. A giudicare dalle testimonianze epigrafiche ed archeologiche il municipio fiorì nel corso dei primi due secoli dell’impero ma poi, come la maggior parte delle città dell’Italia antica, iniziò un lento e lungo periodo di crisi fino alla decadenza ed abbandono. L’arrivo e l’affermazione del cristianesimo non sembrano averne risollevate le sorti. Tiferno fu sede episcopale nella seconda metà del V secolo ma finora non sono emersi resti di strutture riferibili al culto cristiano. Un’inveterata tradizione storiografica vuole che il nostro Tiferno sia stato distrutto dai Goti intorno alla metà del VI secolo, nella fase finale della guerra combattuta da Narsete contro Totila. I dati archeologici finora in nostro possesso, in modo particolare le monete, suggeriscono di spostare alla fine del VI secolo la fase terminale della vita della città. Delle magistrature pubbliche conosciamo ben poco e quel poco lo dobbiamo ad un’esigua documentazione epigrafica di carattere onorario, talvolta esterna al nostro municipio. L’ ordo decurionum, ovvero il consiglio dell’intera comunità - costituito fin dal momento della concessione municipale - compare una prima volta come destinatario di culto urbano, una seconda volta quale dedicante di una statua onoraria a Lucio Vero (a noi è pervenuto soltanto il piedistallo) fatta erigere, verosimilmente nell’area del foro, nell’anno 150 d.C., ed una terza volta figura come ordo Tifernatium Mataurensium sul piedistallo di una statua onoraria (a noi non pervenuta) ad un imperatore del III secolo, il cui nome è stato accuratamente cancellato, perché colpito da damnatio memoriae. Non sappiamo come fosse realmente costituito il collegio dei magistrati tifernati, che aveva il compito di eseguire le deliberazioni del consiglio dei decurioni. È ipotizzabile un collegio di tipo quattuorvirale ma i documenti epigrafici finora noti attestano soltanto la presenza degli aediles, cioè i due magistrati inferiori, cui erano normalmente affidati compiti di amministrazione e polizia urbana. Oltre agli edili è chiaramente documentata la carica di quinquennalis, magistrato eletto ogni cinque anni con il compito di procedere al censimento dei cittadini del municipio e all’aggiornamento delle liste elettorali. Fra le istituzioni e le provvidenze pubbliche figurano le alimentationes, istituite per la prima volta dall’imperatore Traiano. Qualche decennio più tardi, esattamente nel 137 d.C., i pueri et puellae alimentari di Tiferno dedicano a Lucio Elio Cesare, figlio adottivo dell’imperatore Adriano, un’elegante iscrizione su lastra marmorea. Infine si conosce l’esistenza di una carica amministrativa locale, il curator kalendari Tif(erni) Mat(aurensis), da mettere verosimilmente in stretta relazione con la gestione e l’amministrazione di un patrimonio, che gli imperatori Settimio Severo e Caracalla affidarono ad un certo Lucio Dentusio Proculino, cavaliere del vicino municipio di Sestinum. Scarsi ma significativi sono i dati archeologici ed epigrafici relativi ai culti tifernati. Tra tutti primeggia il culto al dio Silvano, qui onorato con l’epiteto di Sanctus, come attesta un grande altare di marmo a lui dedicato da un certo Vinnio Verecondo, il quale aveva fatto ricostruire il tempio del dio, “crollato a causa della vetustà”. Il luogo di rinvenimento dell’altare in questione induce a ritenere che il tempio di Silvano fosse collocato tra le terme ed il foro di Tiferno e comunque in posizione di piena centralità urbana. Il rifacimento si data nel III secolo d.C. ma il tempio era molto più antico. L’ubicazione centrale e la lunga durata del culto al dio Silvano si addicono pienamente alla natura collinare ed all’economia silvo-pastorale del territorio tifernate. Una dedica epigrafica frammentaria, recuperata in anni recenti, attesta anche il culto alla Fors Fortuna, cioè al cieco caso - culto antico, originariamente praticato in ambito agricolo - che a Tiferno e nell’intera valle del Metauro sembra aver goduto di particolare devozione, anche per la presenza del più noto santuario della Fortuna fanestre. Al culto della Fors Fortuna il documento epigrafico associa anche quello del Genio dell’ordine dei decurioni (Genius ordinis), ovvero dell’intera assemblea che governava il municipio, e quello dei Lari della comunità. Questa associazione induce a ritenere che la triade era venerata all’interno di una stessa struttura sacra, verosimilmente un tempietto o un sacello urbano. In ambito religioso, inoltre, le iscrizioni tifernati documentano soltanto due importanti cariche sacerdotali: il pontificato e il flaminato: il pontefice, quale carica sacerdotale più alta, sovrintendeva ad ogni attività e manifestazione religiosa della comunità; i flamini, invece, erano semplici sacerdoti e ministri di un culto specifico. Entrambe le cariche religiose furono ricoperte da Lucio Aconio Statura, uno dei più illustri cittadini tifernati, vissuto tra la fine del I e gli inizi del II secolo d.C.. 

VISITA ALL’AREA ARCHEOLOGICA 

La città romana sorgeva su un ampio terrazzo fluviale della sponda destra del Metauro (a circa 360 m s.l.m.), nel punto in cui quest’ultimo riceve le acque del torrente Mòrsina, affluente di destra, sicché il sito sui due lati appariva difeso per natura. Ciò potrebbe spiegare il perché dell’assenza di cinta muraria, della quale finora non sono state rinvenute tracce sicure. I resti della città antica - che occupava una superficie stimabile intorno a quindici ettari - sono in gran parte sepolti sotto l’abitato medioevale di Sant’Angelo in Vado e soltanto una quarta parte di essa è stata preservata da costruzioni moderne. Sporadici ritrovamenti archeologici avvennero già nel corso dell’Ottocento ma soltanto nella seconda metà del XX secolo - in special modo negli ultimi anni di questo - è iniziata la sistematica esplorazione delle strutture archeologiche superstiti. Alla luce di queste ricerche il quadro urbanistico e monumentale dell’antica Tiferno comincia a configurarsi sempre più chiaramente. L’antico reticolato urbano era formato da vie parallele orientate nord-sud (kardines), intersecate ortogonalmente da altre vie ad andamento est-ovest (decumani), che definivano isolati regolari (insulae), allungati in senso nord-sud. Scavi passati e recenti hanno riportato alla luce tre cardini ed un decumano dell’area sudorientale dell’abitato. Un terzo cardine si nasconde sotto il tracciato dell’attuale via Ghibelline. Finora non sono state scoperte sicure tracce di condotte idriche per il rifornimento della città, benchè non manchino notizie archivistiche del rinvenimento di antiche tubature di piombo (fistulae), asportate e poi distrutte: una di queste recava il marchio della fornitura da parte dell’imperatore Adriano. Va detto, altresì che alcune case private erano dotate di piccoli pozzi interni, sufficienti a garantire il fabbisogno domestico. Le aree e gli edifici pubblici Il foro del municipio era ubicato in posizione centrale rispetto al resto della città antica. Esso è stato individuato sotto il moderno complesso dell’ex Convento di Santa Caterina, dove un saggio di scavo del 1987 ha rivelato l’esistenza - a circa 2 m di profondità dal piano attuale - di una pavimentazione antica a grandi lastre squadrate di calcare, allettate su uno strato sterile di ghiaia fluviale. Al foro conduceva il principale asse nord-sud del reticolato urbano (kardo maximus), un lungo tratto del quale è ancora visibile nell’area Graziani, tra via Mancini e via Ghibelline. La sede stradale, larga m 6,50 esclusi i marciapiedi, è pavimentata con larghi lastroni di pietra locale, disposti in modo irregolare. I margini della carreggiata sono delimitati da pietre conficcate verticalmente sul terreno (crepidines) a protezione del marciapiede riservato ai pedoni. Sotto il margine ovest della sede stradale corre un’unica fogna di scarico con pareti ciottoli di fiume e copertura a lastroni di pietra ben allineati. Tutta la sede stradale pende verso l’imboccatura della fogna, che corre in direzione nord e scarica le sue acque nel letto del fiume Metauro. La fila di lastroni mancanti al centro della sede stradale non nasconde una struttura fognaria ma è il frutto di uno scasso moderno per la piantagione di un filare di viti. L’orientamento nordsud, l’ampiezza e il tipo di pavimentazione della sede stradale, nonché la sua proiezione verso il foro, inducono a ravvisare in questo asse il cardine principale (kardo maximus) dell’intero reticolato della città antica. La mancanza di solchi di carri sul tratto di basolato riportato in luce sta a significare che questa via era preclusa al traffico veicolare. Sul lato orientale di questo cardine, nell’anno 1957, si rinvennero le strutture di un edificio termale, preceduto da un porticato, i cui resti furono nuovamente interrati per motivi conservativi. In quella occasione si scavarono soltanto tre ambienti, il maggiore dei quali era riscaldato (calidarium) e conservava ancora gran parte della doppia pavimentazione (hypocaustum) con i pilastrini di sostegno in laterizio (suspensurae). Il pavimento del calidario - quasi completamente distrutto sotto il peso del crollo - era decorato da un mosaico a fondo bianco, contornato da una treccia tra due fasce, sul quale si stagliava una scritta a grandi lettere, ormai illeggibile. Il complesso termale, che si estende anche sotto via Mancini - dove sono stati intercettati altri vani di servizio con pavimenti musivi - sembra avere avuto più fasi, la più antica delle quali risale al I secolo a.C., ovvero al tempo della costituzione in municipio. L’edilizia privata Una parte della città antica, quella sud-orientale, ancora giace sotto i terreni agricoli della periferia sud dell’abitato odierno, nei terreni di proprietà Graziani ed ex Monti, ai lati di via Ghibelline. La proprietà Monti - un tempo denominata “ Campo della Pieve” - è stata recentemente demanializzata e recintata, ed ora costituisce il primo nucleo di un’area archeologica con strutture a vista. Eccezionali riprese aeree della suddetta area agricola - effetuate nel 1992, prima dell’acquisizione e della costituzione dell’area archeologica - hanno rivelato l’esistenza, sotto il suolo agricolo coltivato a foraggio, di due isolati urbani, allineati in senso nord-sud e delimitati dall’incrocio di un cardine con un decumano. Questi isolati costituiscono il quartiere sudorientale della città antica con tracce di edifici e strutture di età più tarda. Il recente scavo di una parte dell’isolato posto all’angolo dei due assi viari, avviato nel 1999, ha riportato in luce i vani posteriori di una domus di età imperiale - ormai tutti privi delle pavimentazioni originarie, distrutte sia in età antica che moderna - adibiti allo svolgimento di un’attività artigianale legata alla presenza di un forno. Lo scavo ha scoperto anche un cospicuo tratto angolare di un cardine e di un decumano, tagliati da condotti fognari centrali e serviti da marciapiedi laterali ma ormai quasi interamente spogliati del basolato originario. Sull’intera superficie sono ancora chiaramente visibili le devastazioni delle strutture antiche tagliate da profonde trincee fatte in età moderna per la piantagione di filari di viti. Un più recente scavo archeologico, aperto nella parte meridionale dell’area recintata ed ancora in corso, ha restituito i vani centrali di una domus urbana di età imperiale, con almeno tre principali fasi di vita. Uno degli ambienti conserva ancora in posto un intero pavimento a mosaico con una semplice decorazione gometrica (esagoni e rombi) a tessere nere su fondo bianco. In epoca tardoantica e medioevale le strutture della città antica vennero sistematicamente spogliate dei materiali edilizi - asportati fino a livello della pavimentazione e talvolta anche oltre - riutilizzati nella costruzione di edifici pubblici e privati della nuova città dedicata all’Arcangelo Michele. Neppure le pesanti lastre della pavimentazione stradale sono state risparmiate. Migliore sorte sembra toccata alle strutture antiche sepolte sotto l’ abitato moderno - dove le nuove costruzioni si sono sovrapposte alle prime, senza distruggere totalmente fondazioni e pavimenti - come si evince chiaramente dalla recente scoperta di un pavimento musivo a grandi tessere di cotto, eccezionalmente ben conservato, rinvenuto in via Madonna, in quello che finora è il quartiere più settentrionale della città antica. Le necropoli Allo stato delle attuali conoscenze due sembrano essere state le principali aree di sepoltura utilizzate in età romana: una necropoli, più antica ed alquanto estesa, era collocata ad est e a sud dell’abitato antico, lungo una fascia di terra in declivio, che si interponeva tra il “Campo della Pieve” e la sponda sinistra del torrente Mòrsina, idronimo il cui nome rievoca fortemente un antico legame con la morte. Questa’area suburbana anticamente era attraversata da due assi stradali diretti ad est e a sud, il primo dei quali collegava Tifernum Mataurense con Pitinum Mergens e la via consolare Flaminia, mentre il secondo conduceva verso Tiferno Tiberino, nell’alta valle del Tevere. Da questa necropoli proviene la piccola stele marmorea di Gaio Alennio Diadumeno ed un frontoncino cuspidato, con fregio floreale, probabilmente appartenuto ad un monumento funerario. I reperti archeologici finora rinvenuti sembrano documentare un uso della necropoli dall’età di costituzione del municpio, fino alla prima e media età imperiale. Una seconda necropoli, certamente più tarda della prima, si estendeva nell’area suburbana ad ovest di Tifernum Mataurense, in quella parte di terreno urbanizzato che oggi è compreso tra Porta Albani, il Consorzio Agrario ed il punto d’innesto con la Strada Statale 73bis di Bocca Trabaria. Qui, alla profondità di oltre un metro, sono state scoperte numerose tombe terragne con copertura alla cappuccina (oltre trenta), con corredi di materiali poveri, costituiti quasi esclusivamente da vasellame di terracotta e vetro. Tutto il materiale funerario è andato perduto. Ciò nonostante il tipo di sepoltura alla cappuccina induce a datare quest’area funeraria nella piena e tarda età imperiale. Sull’area archeologica tifernate - che solo recentemente è stata in gran parte demanializzata - esiste un progetto pilota di valorizzazione culturale a medio e lungo termine, promosso dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici delle Marche, dall’Università degli Studi di Macerata e sostenuto dal Comune di Sant’Angelo in Vado, dalla Comunità Montana dell’alta valle del Metauro, dalla Provincia di Pesaro e Urbino e dalla Ragione Marche. effetuate nel 1992, prima dell’acquisizione e della costituzione dell’area archeologica - hanno rivelato l’esistenza, sotto il suolo agricolo coltivato a foraggio, di due isolati urbani, allineati in senso nord-sud e delimitati dall’incrocio di un cardine con un decumano. Questi isolati costituiscono il quartiere sudorientale della città antica con tracce di edifici e strutture di età più tarda. Il recente scavo di una parte dell’isolato posto all’angolo dei due assi viari, avviato nel 1999, ha riportato in luce i vani posteriori di una domus di età imperiale - ormai tutti privi delle pavimentazioni originarie, distrutte sia in età antica che moderna - adibiti allo svolgimento di un’attività artigianale legata alla presenza di un forno. Lo scavo ha scoperto anche un cospicuo tratto angolare di un cardine e di un decumano, tagliati da condotti fognari centrali e serviti da marciapiedi laterali ma ormai quasi interamente spogliati del basolato originario. Sull’intera superficie sono ancora chiaramente visibili le devastazioni delle strutture antiche tagliate da profonde trincee fatte in età moderna per la piantagione di filari di viti. Un più recente scavo archeologico, aperto nella parte meridionale dell’area recintata ed ancora in corso, ha restituito i vani centrali di una domus urbana di età imperiale, con almeno tre principali fasi di vita. Uno degli ambienti conserva ancora in posto un intero pavimento a mosaico con una semplice decorazione gometrica (esagoni e rombi) a tessere nere su fondo bianco. In epoca tardoantica e medioevale le strutture della città antica vennero sistematicamente spogliate dei materiali edilizi - asportati fino a livello della pavimentazione e talvolta anche oltre - riutilizzati nella costruzione di edifici pubblici e privati della nuova città dedicata Eccezionali riprese aeree della suddetta area agricola - effetuate nel 1992, prima dell’acquisizione e della costituzione dell’area archeologica - hanno rivelato l’esistenza, sotto il suolo agricolo coltivato a foraggio, di due isolati urbani, allineati in senso nord-sud e delimitati dall’incrocio di un cardine con un decumano. Questi isolati costituiscono il quartiere sudorientale della città antica con tracce di edifici e strutture di età più tarda. Il recente scavo di una parte dell’isolato posto all’angolo dei due assi viari, avviato nel 1999, ha riportato in luce i vani posteriori di una domus di età imperiale - ormai tutti privi delle pavimentazioni originarie, distrutte sia in età antica che moderna - adibiti allo svolgimento di un’attività artigianale legata alla presenza di un forno. Lo scavo ha scoperto anche un cospicuo tratto angolare di un cardine e di un decumano, tagliati da condotti fognari centrali e serviti da marciapiedi laterali ma ormai quasi interamente spogliati del basolato originario. Sull’intera superficie sono ancora chiaramente visibili le devastazioni delle strutture antiche tagliate da profonde trincee fatte in età moderna per la piantagione di filari di viti. Un più recente scavo archeologico, aperto nella parte meridionale dell’area recintata ed ancora in corso, ha restituito i vani centrali di una domus urbana di età imperiale, con almeno tre principali fasi di vita. Uno degli ambienti conserva ancora in posto un intero pavimento a mosaico con una semplice decorazione gometrica (esagoni e rombi) a tessere nere su fondo bianco. In epoca tardoantica e medioevale le strutture della città antica vennero sistematicamente spogliate dei materiali edilizi - asportati fino a livello della pavimentazione e talvolta anche oltre - riutilizzati nella costruzione di edifici pubblici e privati della nuova città dedicata.

 

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