AUGUSTA TAURINORUM
Entrata nella storia intorno al 27 a.C, con il nome di colonia Augusta Taurinorum, che, secondo le leggende che circondano sempre la nascita delle città, sorse sull'insediamento di Taurasia, mitica capitale dei Tauri, incendiata da Annibale nella lunga marcia di avvicinamento a Roma.
La fondazione di Augusta Taurinorum rientræ nei piani romani di organizzazione amministrativa e logistica del Piemonte appena conquistato. La colonia, ai piedi dei principali valichi alpini e all'estremità occidentale della pianura Padana, doveva essere l'avamposto romano verso le Gallie e al centro delle principali vie di comunicazione dell'epoca verso il mondo transalpino. Alla città venne dato il tradizionale impianto ortogonale delle colonie romane, con isolati quadrati, percorsa da due arterie principali facenti capo alle porte ed una struttura muraria quasi quadrata. La planimetria - perfetta a parte l'angolo nord-est (corrispondente all'attuale corso San Maurizio, dietro il Palazzo Reale) smussata dall'irregolare conformazione del terreno.
La cittð era delimitata dalle attuali vie Giulio a nord, Consolata e corso Siccardi a ovest, Cernaia, Santa Teresa e Maria Vittoria a sud e Accademia delle Scienze, piazza Castello e i Giardini Reali a est. Inoltre era traversata dal decumano, ora via Garibaldi e perpendicolarmente ad essa dal cardo oggi via Porte Palatine.
Parallelamente ad essi si sviluppano i decumani e i cardines minores dando origine a settantadue insulae. |
I cardines e i documani non erano perfettamente orientali rispetto ai punti cardinali, forse a causa di costruzioni già esistenti o forse per la direzione dei fiumi.
La Colonia Julia Augusta Taurinorum era un centro direzionale dove personalità dell'alta società, funzionari pubblici, commercianti e artigiani, riuniti in collegio, risiedevano ed esercitavano le loro funzioni. I pubblici uffici erano situati presso il foro, centro della vita sociale, politica ed economica della cittð e dove erano anche concentrate basiliche, templi e piazze dei mercati (Boario del bestiame, Olitario delle erbe e Annonario del grano). L'ubicazione del foro nella Torino romana incerta.
Il recinto delle mura costituiva il diaframma tra il tessuto urbano e i rioni suburbani, ma questo non divideva in due categorie i cittadini anche perchè molti avevano proprietà sia all'esterno delle mura che all'interno. Entro le mura vi era il teatro mentre l'anfiteatro, oggi andato perduto, era all'esterno: esso era a pianta ellittica con una gradinata digradante verso un'area centrale in cui si svolgevano spettacoli di gladiatori, lotte di animali e a volte anche battaglie navali, disputate nella profonda fossa centrale, appositamente riempita d'acqua.
Anfiteatro Romano
L'unico
edificio pubblico di Augusta Taurinorum di cui si abbia pieno riscontro
archeologico è il teatro, mentre per gli altri sinora ci si è dovuti limitare
alla formulazione di ipotesi. I numerosi studi e ritrovamenti del passato,
sovente non supportati da metodologie scientifiche di indagine, oggi risultano
solo parzialmente utilizzabili. Per contro, le ricerche effettuate negli ultimi
decenni, alcune delle quali tuttora in corso, offrono contributi sempre più
rilevanti, soprattutto per quanto concerne l'articolazione e l'organizzazione
degli spazi interni o prossimi alla città, quali, ad esempio, la definizione
ipotetica del rapporto tra parte pubblica e privata di circa 1 a 10 su un totale
di 72 insulae. Ne sta emergendo un quadro sempre meno frammentario di
pianificazione e di sviluppo urbanistico, in prevalenza riferibile ai primi due
secoli dell'impero, che trova piena corrispondenza nella realtà storica,
politica ed economica del Piemonte romano del medesimo periodo.
L'ipotesi prevalente si riallaccia ad una consuetudine, quella di ubicare gli
anfiteatri romani in posizione marginale, al di fuori delle mura (sovente in
risposta ad una molteplicità di esigenze pratiche tra cui quella di evitare il
congestionamento della città in occasione degli spettacoli), ma di facile
accesso e, quindi, nelle vicinanze di una via di transito principale. In effetti
la documentazione cartografica sembrerebbe indicare quello torinese nell'area
extramuranea meridionale a sud-est della Porta Marmorea (riferimento,
quest'ultimo, comune a quasi tutte le fonti, in quanto la porta stessa è
attestata sino alla metà del XVII sec.), identificata con quella oggi compresa
tra piazza S. Carlo, via Roma, via dell'Arcivescovado e via XX Settembre. In
particolare, alcune raffigurazioni di Torino, dal periodo tardomedievale in poi,
evidenziano nell'area una struttura di forma circolare-ellittica, che, in un
caso (una pianta del XIX sec. che rappresenta la città e i borghi extraurbani
agli inizi del XV sec.), viene definita esplicitamente "anfiteatro
romano".
Per contro, l'unico indizio archeologico consiste nella presenza di un grande
collettore fognario tra via Roma, via Arcivescovado e via XX Settembre,
ipoteticamente atto allo scarico delle acque di un edificio pubblico di un certo
rilievo. Si hanno anche alcune testimonianze letterarie, concentrate soprattutto
nei secoli XVI e XVII: dal giurista Panciroli, che ne avrebbe visto le rovine,
allo storiografo Pingone che, a proposito della sua ubicazione, parla anche di
un lago circondato da piccole alture. Questa seconda notizia farebbe
presupporre, secondo il Grazzi, che "l'anfiteatro avesse sfruttato la
situazione originaria del terreno, a valloni, allagatisi in assenza di
manutenzione". Inoltre, due autori del XVI sec. ne ricordano la
distruzione: il Maccaneo, ad opera di Annibale ed il Pingone medesimo, nella cui
versione (generalmente ritenuta attendibile) viene imputata ai francesi per
ragioni difensive, dopo la conquista del 1536. Peraltro il fatto che compaia
ancora in buono stato nella veduta di Torino della fine del XVI sec. citata dal
Promis nel 1869, sarebbe motivato, ancora secondo il Grazzi, da "un intento
didascalico e non realistico".
Foro Romano
Gli
studiosi generalmente concordano nel collocare il foro ipoteticamente nell'area
attualmente occupata dalle piazze Palazzo di Città e Corpus Domini, vale a
dire, secondo i canoni urbanistici delle colonie romane, all'incrocio del
Decumanus Maximus (via Garibaldi) con il Cardo Maximus (via Porta Palatina, via
S. Tommaso). Si ritiene che non occupasse il centro esatto della pianta romana,
ma la metà del quadrante nord-occidentale rivolta verso il centro. Tale
collocazione sembrerebbe comprovata da una serie di indizi, a partire dalla
forma rettangolare e non quadrata (di ca. 73 x 80 m invece di 75 m per lato)
della prima fila di isolati immediatamente a nord del decumano massimo, tra via
S. Domenico, via IV Marzo, Piazza Palazzo di Città, via Garibaldi, via Porta
Palatina. Un'anomalia nella maglia regolare di questa zona del centro storico
che ha fatto pensare ad una "destinazione speciale" (Grazzi) di quelle
insulae, è riportata anche nelle più antiche testimonianze cartografiche,
quali le piante della città disegnate nel XVI e XVII sec. da Caracha e Borgonio.
Si è pertanto presupposto nell'area uno spazio di vaste dimensioni a
destinazione pubblica, corrispondente a 6-8 isolati circa, identificabile con un
foro sviluppato in senso est-ovest ed in stretto collegamento con il sistema
stradale, in particolare con il decumano massimo, proseguimento urbano della via
internazionale delle Gallie.
Quanto alla struttura, sembrerebbe trattarsi del tipico foro rettangolare
corredato di monumenti sui lati brevi, derivato dallo scenografico modello
vitruviano, proprio delle città italiche ma attestato anche nelle colonie
galliche.
Nella stessa zona si registra il rinvenimento di reperti archeologici sin dalla
metà dell'800, dal mosaico di via Berchet, oggi perduto, ai tratti di un muro
largo 97 cm in opus listatum all'interno del Cortile del Burro, dentro Palazzo
di Città, forse pertinente ad un edificio pubblico di rilievo, ai frammenti di
statue bronzee, ritenuti resti di un monumento equestre. Inoltre vi sono
probabili riferimenti alla presenza della pavimentazione romana: fino al XVI
sec. presso la chiesa di S. Silvestro (ora Corpus Domini e S. Spirito) e nella
stessa piazza Palazzo di Città definita, fin dal XIII sec., "forum solatum".
Ad ulteriore conferma dell'ubicazione del foro è stata evidenziata, seppure con
qualche riserva, la continuità d'uso della succitata area pubblica sino ad
oggi, sotto il profilo politico, amministrativo ed anche commerciale se si
considera che per secoli ha ospitato i maggiori mercati della città: quello
degli ortaggi (nella piazza delle Erbe, precedente nome della piazza Palazzo di
Città) e quello delle granaglie (nella piazza di S. Silvestro, detta proprio
del Grano, ora Corpus Domini), quello del burro, che ha dato il nome al cortile
già menzionato (nella piazza di S. Benigno, sul sagrato dell'omonima chiesa,
ormai scomparsa).
È stata altresì ipotizzata l'esistenza di fori minori: interessante, in
merito, un riferimento toponomastico, il titolo medievale "de Platea"
(oggi "di Piazza") attribuito alla chiesa di S. Maria, sita nella via
omonima, nel quale si può ravvisare la connessione con una vasta area
lastricata. A tale indizio si aggiunge il riscontro archeologico, vale a dire i
reperti ritrovati, in varie occasioni, tra le vie Bertola, S. Maria, Stampatori
e S. Dalmazzo, tra cui statue, un'ara votiva dedicata nel 300 d.C. da Marco
Valerio Lisimaco, un titolo onorario del 65 d.C. dedicato a Seneca e un
tesoretto formato da diversi tipi di monete, datate a partire dal 261 d.C.
Teatro Romano
I ruderi furono rinvenuti
nel 1899, in occasione dello scavo per la fondazione della Manica Lunga di
Palazzo Reale. Con l'intervento del D'Andrade i resti furono lasciati in vista,
in parte a cielo aperto ed in parte nelle cantine della nuova ala. Il teatro
occupava un'insula periferica di circa 76 m di lato, posta a ridosso del taglio
a petto dell'angolo nord-est delle mura ed affacciata sul declivio della Dora,
al limite dell'abitato. La scelta di una posizione marginale, in prossimità
delle mura e della Porta Palatina, si giustificherebbe da una parte con la
necessità di agevolare l'afflusso di spettatori provenienti anche dalle zone
rurali circostanti la città, dall'altra con la volontà di far risaltare
visivamente l'imponente mole del teatro, la cui altezza superava i 20 m, sul
profilo urbano, connettendola inoltre ad altri edifici dotati di valore
monumentale e simbolico, quali le torri della porta urbica.
L'impianto originario coincide con la prima edificazione della città (inizio I
sec. d.C.); è inizialmente provvisto di cavea lignea su sostruzioni in muratura
e, caso eccezionale nella tradizione architettonica romana ad esclusione di
auditoria ed odea, racchiuso entro un recinto quadrangolare, in modo da
consentirne l'inserimento nella maglia ortogonale urbana. Questa fase
costruttiva corrisponde alla prima delle tre principali, che risultano, dai dati
di scavo, intervallate da distruzioni a seguito di incendi. Gli avvenimenti
militari del 69 nell'ambito della guerra civile tra Otone e Vitellio, ed in
particolare dello scontro tra soldati romani ed ausiliari batavi di stanza a
Torino, sono stati messi in relazione con il primo di tali incendi.
È tra il II ed il III sec. d.C. che si completa l'evoluzione da una struttura
relativamente ridotta e semplice ad un'altra caratterizzata da ragguardevoli
dimensioni, complessità progettuale e ricercatezza tecnica: il teatro viene
integralmente trasformato: aumentata la capienza (per un totale di circa 3.500
spettatori) e potenziato l'apparato scenico, arriva a sconfinare sulle strade
limitrofe e a ridosso delle mura settentrionali, rendendo necessaria una
revisione globale del disegno urbano nel settore nordorientale della città. Gli
attuali resti evidenziano un edificio realizzato in pietra gneissica valsusina,
comune a Torino, e con una tecnica muraria simile a quella della cinta urbana, a
fasce di concreto separate da doppie cordonature laterizie.
Un ampio quadriportico post scaenam si estendeva dal teatro al lato
settentrionale della cinta ed un capiente ambulacro anulare, scandito da grandi
pilastri, definiva il perimetro esterno della cavea. Questa, del diametro di 70
m, aveva gradinate lapidee suddivise in quattro settori da scalette radiali; tre
parodoi ( due corridoi laterali ed uno centrale) collegavano l'orchestra, del
diametro di 28 m e pavimentata in marmo, con l'esterno. Lesene ornamentali in
marmo bianco rivestivano anche il pulpito, che era profondo 6 m, lungo 44 m e
provvisto di pozzetti a sezione quadrata per la manovra del sipario; la scaenae
frons rettilinea appariva movimentata da sei nicchie rettangolari e da porte,
tre delle quali fiancheggiate da colonne. Si ha inoltre testimonianza di pitture
parietali policrome, ormai perdute e di datazione controversa, relative alla
porticus post scaenam; sembra consistessero in uno zoccolo nero, con cesti di
fogliame verde scuro ed uccelli in volo, sormontato da una zona parietale a
fondo rosso; fasce divisorie verticali e decorazioni con anfore e candelabri
dovevano completare l'insieme. I costanti interventi volti a modificare ed
ampliare la struttura sono stati interpretati come una diretta prova del valore
architettonico del teatro in quanto veicolo di immagine per la città, ma anche
dell'importanza e della frequenza degli spettacoli teatrali, soprattutto nelle
popolari forme del mimo e della pantomima, e, conseguentemente, del livello di
prosperità raggiunto da Augusta Taurinorum in età imperiale.
Templi Romani
Le tracce più note sono
quelle provenienti dal Mastio della Cittadella, consistenti in un frammento
decorativo a palmette (conservato in un locale del Museo di Artiglieria) ed in
un'iscrizione votiva che sembrano attestare il culto di Iside in zona
extraurbana; sul suo tempio, secondo la tradizione, sarebbe sorta nel medioevo
la Basilica di S. Solutore, abbattuta dai francesi nel 1536; l'esistenza e
l'importanza di questo culto orientale è peraltro ben noto nel Piemonte romano
grazie al santuario isiaco di Industria (Monteu da Po).
Altri elementi derivano dalla tradizione ma senza riscontri archeologici: ad
esempio l'antica chiesa di S. Agnese, oggi della Ss. Trinità, nota sin dal XII
sec., si dice fondata sulle rovine di un tempio dedicato a Giunone, così come
la chiesa medievale di S. Silvestro (ora S. Spirito), in via Porta Palatina,
sarebbe sorta su un precedente tempio pagano dedicato a Diana, come ricorda
l'iscrizione frontale del XVII sec. In questo secondo caso si parla della
possibilità che la cripta sottostante all'attuale chiesa, trovandosi al livello
della strada romana, possa essere identificata con il sacello del tempio;
mancano però indagini approfondite in merito.
Negli anni '30 il Bendinelli identificava l'area del duomo, edificio
rinascimentale della fine del XV sec. intitolato a S. Giovanni Battista, con
l'antico campidoglio della città, evidenziando che la sua realizzazione comportò
l'abbattimento di tre antiche chiese preesistenti, a loro volta sorte sul luogo
di tre basiliche paleocristiane, affiancate ed intercomunicanti, dedicate a S.
Salvatore, S. Giovanni e S. Maria de Dompno (probabile corruzione di S. Maria de
Domino). Tale triplice denominazione cristiana richiamerebbe il culto romano
della triade capitolina (composta da Giove, Giunone e Minerva), facendo supporre
la presenza di un tempio tripartito anteriore all'affermarsi, nel IV sec., del
Cristianesimo a Torino e pertanto una scelta non casuale del sito su cui sono
sorte le chiese, ma determinata dalla volontà di continuare ad utilizzare il
maggior centro di culto cittadino. Valido elemento di confronto, in tal senso,
è stato considerato il duomo di Trieste (S. Giusto), sorto sul sito del foro
romano, per il quale si avrebbe l'analogo caso di una doppia trasformazione, da
tempio capitolino a gruppo di tre chiese, poi accorpate in una sola.
In realtà nemmeno i recenti scavi realizzati nell'area del duomo sembrano aver
rilevato elementi probanti in merito. Il Grazzi ha così sintetizzato la
situazione: "in realtà le ipotesi sull'ubicazione dei templi torinesi sono
infondate su dati oggettivi… ma la completa scomparsa dei templi pagani deve
far ritenere che, in considerazione del perimetro urbano limitato e degli alti
costi di edificazione e di pratica cultuale, il loro numero fosse limitato…
Dalle iscrizioni possiamo arguire l'esistenza di templi, aree sacre, edicole o
statue dedicate a Giove, Giunone, Minerva, Venere Ericina, Apollo, Diana,
Mercurio, Mitra, Iside, il Sole, Ercole, Silvano, Igea ed Esculapio, la Fortuna
e la Vittoria… (inoltre) vi furono flamini dei divi Augusto, Claudio,
Vespasiano, Tito, Drusilla, Faustina Minore".
Terme Romane
Diversi dati riferibili ai ritrovamenti di presunte strutture termali risalenti al periodo compreso tra la seconda metà del 1800 ed i primi anni del 1900 risultano, ormai, di difficile interpretazione; tra essi vanno segnalati un ipocausto ad occidente di piazza della Frutta (attuale piazza della Repubblica), alcuni mattoni rotondi per colonnine trovati in via S. Francesco d'Assisi durante i lavori di restauro dell'omonima chiesa ed altri resti in prossimità di piazza del Duomo. Una recente ipotesi, connessa all'evidenza archeologica di un edificio di grandi dimensioni nell'area compresa tra via Garibaldi, via Bellezia e via Corte d'Appello, definisce la collocazione delle terme nel quadrante nord-occidentale, a ridosso delle mura ed in prossimità del foro. Inoltre la stampa cittadina, nel mese di marzo del 2000, ha segnalato il rinvenimento dei resti di un ipocausto nel corso degli scavi effettuati nella cripta del Duomo; sulla destinazione pubblica o privata dell'impianto termale di pertinenza, gli archeologi della Soprintendenza si sono riservati di fornire risposte a studi ultimati. Risulta peraltro a destinazione privata l'impianto termale, di cui sono stati individuati più ambienti e l'ipocausto, scoperto in via Garibaldi a metà degli anni '90 e pertinente ad una domus probabilmente ristrutturata agli inizi del II sec.
Le Necropoli
I ritrovamenti, in gran parte già oggetto di studio tra la fine del 1800 e la prima metà del 1900, testimoniano che Augusta Taurinorum non derogò a norme e prassi in uso nella maggior parte delle città romane, prima delle quali l'obbligo di ubicare le aree funerarie fuori del perimetro urbano, lungo le strade principali di accesso alla città stessa. In effetti la segnalazione di tombe riguarda nella quasi totalità il perimetro esterno alla cinta muraria, ad eccezione dello sbocco verso il Po.
La necropoli (o forse l'insieme di necropoli) principale fiancheggiava esternamente il lato settentrionale delle mura, in una zona estesa tra la chiesa della Consolata e Porta Palazzo. La sua importanza e la sua plausibile monumentalità sembrano attestate dal rinvenimento di gran parte del materiale funerario noto, come quello epigrafico, a seguito della distruzione del bastione presso la chiesa della Consolata nel XVIII sec.; è in effetti probabile l'originaria pertinenza dei reperti ad edifici funerari romani ed il loro riutilizzo in epoche successive. Non si può escludere che alla suddetta necropoli appartenessero anche i resti rinvenuti tra via XX Settembre e corso S. Maurizio, nonché la tomba in muratura, non anteriore al III sec., rinvenuta presso la sponda destra della Dora (vecchia Officina del Gas), contenente una cassa di piombo a coperchio mobile. Inoltre, nel 1999 è stata data notizia del ritrovamento, nella medesima area extramuranea, di un sarcofago di granito grigio, di epoca imperiale, accanto a resti di sepolture tardoromane, emerso nel corso degli scavi del sottopasso di corso Regina Margherita, proprio davanti all'ingresso secondario del Museo di Antichità. Tombe isolate o a piccoli gruppi trovate più lontano dalla cinta muraria, in zona Regio Parco, via Frejus, Barriera di Nizza, Borgo S. Paolo, Lucento o nell'area collinare potrebbero essere ricollegate alla presenza di stazioni agricole ed insediamenti minori (pagi, villaggi) disseminati nelle campagne suburbane piuttosto che a necropoli cittadine. In particolare, per quanto riguarda la collina, si constata che, in assenza di resti di complessi residenziali o di strutture agricole, sono proprio le sepolture a costituire la quasi totalità delle testimonianze archeologiche di epoca romana.
Nella fascia
pedecollinare si segnalano la necropoli ad incinerazione associata a monete
imperiali di borgo Piacentino di Moncalieri, inoltre piccoli gruppi di tombe
rispettivamente a Testona (nei pressi della chiesa di S. Maria, insieme ad una
moneta di Costantino) ed in borgata Moriondo; nell'area propriamente collinare
si segnalano inoltre le sepolture di Ronchi di Cavoretto e di regione Fioccardo
ed inoltre la tomba del Bric della Maddalena, interessante per la presenza di
clavi trabales, oggetti rituali foggiati a forma di chiodo. Nel complesso le
testimonianze contribuiscono a confermare che l'insediamento sparso costituiva
la principale forma abitativa della collina; peraltro, laddove è stata trovata
una sia pur piccola necropoli, "data la frequente vicinanza tra il cimitero
e le strutture abitative, come per lo più si è riscontrato nel corso di scavi
archeologici in Italia settentrionale, si può presupporre che questi piccoli
gruppi di tombe siano indice della presenza di un insediamento di qualche genere
nelle immediate prossimità" (da La Rocca Hudson).
Tipologicamente, soprattutto a partire dal III sec., la quasi totalità dei
reperti è costituita da sepolture "a cappuccina", con tetto a capanna
e caratterizzate dalla povertà del corredo funebre e dal reimpiego di materiali
quali mattoni e tegole. Anche la zona ubicata lungo la via delle Gallie
presentava sepolture disposte in piccoli gruppi in relazione alle abitazioni di
cui era costellata: ad esempio un gruppo in corso Francia, forse non posteriore
al III sec., una piccola necropoli con monete di Tito, Geta e Nerone in borgata
Cenisia e, a sud dell'antica strada di Rivoli, un gruppo con cinque tombe di
cremati, allineate, di cui quattro laterizie ed una in muratura.
Nella zona di Porta Susa, scoperto proprio mentre si gettavano le fondamenta della stazione (1854-1855), si trovava un sepolcreto piuttosto esteso con alcune anfore cinerarie contenenti ceramica figulina, vetri, oggetti in bronzo, ferro ed avorio, monete imperiali. In base a tali ritrovamenti si riscontra un'altra prassi consueta nel mondo romano, la lunga coesistenza dei riti dell'inumazione e dell'incinerazione. Le strutture funerarie sono risultate, come già riscontrato per le zone collinari, per lo più modeste, in quanto evidentemente destinate ai meno abbienti, e limitate a semplici anfore segate o capannette murate di embrici, inclinati in corrispondenza dei due lati più lunghi e verticali in corrispondenza degli altri due, coperte di tettuccio a tegoloni, pavimentate di ammattonato o di calcestruzzo, e talora disposte sul nudo suolo, di poco dissimili dalle tombe e dalle capanne celto-liguri. Le altre sepolture consistevano in camere sotterranee, murate di cotto e di pietrame o disposte a cassoni di lastre di pietra, coperte di tegoloni o di lastra tombale su cui si leggeva l'iscrizione e corredate di oggetti funerari (anfore di terracotta, ampolle di vetro, lucernette fittili, balsamari, oggetti di bronzo quali patere ed, in qualche caso, strigili).
In effetti per
Torino non si hanno molte notizie di monumenti sepolcrali o, più in generale,
di tombe non sotterranee: già da tempo si ipotizza la pertinenza ad un
monumento funerario, probabilmente ubicato nell'area sepolcrale fuori Porta
Praetoria, del frammento di stele marmorea recuperato in piazza Castello nel
1925 ed attualmente conservato a Palazzo Madama; attribuito alla prima metà del
I sec., presenta sulla fronte un rilievo con la lupa che allatta i gemelli nel
contesto di un paesaggio roccioso. E' del resto plausibile che anche Torino,
analogamente alle altre città romane, vantasse almeno alcune strutture
funerarie, dedicate a personaggi e famiglie di spicco, ragguardevoli sia per
monumentalità che per valore artistico.
In particolare, studi recenti compiuti in relazione ad un restauro su reperti
conservati nel Museo di Antichità porterebbero all'individuazione di un
imponente monumento a pianta quadrata, collocato ipoteticamente nell'area
funeraria fuori Porta Palatina. Tali reperti sono noti già da lunghissimo tempo
nelle collezioni torinesi, forse già dalla fine del XV sec. se è vero, come è
stato ipotizzato, che gli stipiti del Duomo decorati con fregi d'armi ne
rappresentano un'imitazione, e consistono in un gruppo di blocchi
parallelepipedi, forse provenienti dall'area di Porta Palazzo, in marmo bianco
di Carrara ed alti in media 45 cm, decorati su una faccia da un ricco repertorio
di armi romane e "galliche". In effetti già nel XIX sec. i blocchi
erano stati riconosciuti come resti di un monumento funerario, il cui
destinatario si identificherebbe con Q. Glizio Agricola, illustre personaggio
torinese, peraltro vissuto in un'epoca vicina a quella corrispondente alla
probabile datazione dei fregi (prima metà del II sec.). Si tratterebbe, invece,
secondo una suggestiva interpretazione risalente agli anni '30 dello scorso
secolo, di un monumento celebrativo posto extra moenia, assimilabile alla
tipologia dell'arco di trionfo in base ad elementi tecnici ed iconografici nonché
di confronto con vari archi onorari, tra cui quello di Aosta.
Di interesse anche il rilievo recuperato in via Parma che, come evidenziato
dalla Mercando, "presenta eccezionalmente i busti dei due defunti nudi…di
solito, invece, i busti dei defunti sono più o meno riccamente panneggiati,
come si può osservare in un altro rilievo torinese, coevo: i personaggi
maschili indossano la toga, quelli femminili la tunica a palla".
Di particolare interesse storico, infine, un gruppo di epigrafi commemorative
dei caduti nella battaglia che nel 312 vede affrontarsi proprio a Torino
Costantino e Massenzio.
Porta Palatina
Era la "porta principalis destra" della cinta romana: ne usciva una strada importante (allo sbocco del cardo massimo, nella direzione Nord-Sud), di cui restano tracce, che portava a Laumellum (Lomello) ed a Ticinum (Pavia) passando a N delle colline. Nel medioevo, quando prese il nome di Palatium, divenne forse dimora dei duchi longobardi e dei conti franchi. In questo periodo le porte assunsero il ruolo di vere e proprie case-forti fortificate sia verso l'esterno che verso la città. E' di questo periodo la denominazione di Ducalis o Palatii data alla Porta in riferimento alla sua funzione di residenza dei duchi longobardi. Minacciata di demolizione al tempo di Vittorio Amedeo II, venne salvata dall'intervento di Antonio Bertola, ma non si sottrasse a profonde manomissioni.
Nel 1724 la costruzione, ulteriormente alterata, fu adibita a carcere del Vicariato e con la stessa destinazione venne utilizzata nel secolo scorso. Tra il 1860 ed il 1871 si provvide ad un progressivo isolamento dell'edificio monumentale e successivamente se ne tentò il restauro che costituì una vera e propria ricostruzione. Nel corso dei lavori furono anche distrutte alcune sovrastrutture medievali, come i merli a coda di rondine, che servivano forse a dare qualche indicazione sull'altezza originaria delle torri. |
Ai primi del '900, in seguito agli scavi di Carlo Promis, vennero iniziati restauri compiuti poi da più recenti lavori di isolamento che hanno eliminato le aggiunte inopportune.
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