DECLINO ARMATO, IL GRANDE FREDDO DELL'IMPERO
BENEDETTO VECCHI
Immanuel Wallerstein ha da sempre guardato il mondo - o meglio il sistema-mondo - dalla prospettiva della lunga durata, ovvero utilizzando quella metodologia di indagine storiografica inaugurata dallo storico francese Fernand Braudel poi proseguita attraverso l'esperienza degli Annales. A quella metodologia Wallerstein è rimasto fedele - dirige tra l'altro il Fernand Braudel Center assieme all'economista italiano Giovanni Arrighi - e la usa per continuare a giudicare e radiografare il mondo attuale, senza farsi distrarre da eventi e fenomeni che nel presente hanno una grande eco ma che, per usare le sue stesse parole, dopo un anno o due tutti hanno dimenticato.
Storico dell'economia divenuto famoso con la pubblicazione dei primi due volumi del monumentale Il sistema mondiale dell'economia moderna (Il Mulino), ha continuato la sua ricostruzione del Capitalismo storico (pubblicato in Italia da Einaudi, ma continuamente revisionato dallo stesso Wallerstein al punto da essere aggiornato già tre volte), incontrando sulla sua strada studiosi che lo hanno portato a guardare con interesse al ruolo svolto dai movimenti antisistema nella costituzione economica e politica del sistema-mondo.
Ed è infatti assieme a Giovanni Arrighi e Terence Hopkins che ha scritto il magistrale Antisystemic mouvement (manifestolibri, 1992) dove applica, nuovamente, la lunga durata alla costituzione dei movimenti sociali, al punto da individuare la genesi del Sessantotto - in quanto movimento mondiale - nelle rivoluzioni del 1848.
Intervistare Immanuel Wallerstein vuol dire spingersi fuori dai confini nazionali ed essere continuamente sollecitati a considerare il mondo nel suo insieme. Ma significa anche accettare, ad esempio, la tesi secondo cui il neoliberalismo non è entrato in crisi per l'azione del movimento dei movimenti né per l'attacco alle Twin Towers, ma che la sua crisi data già dai tempi di Ronald Reagan. Una tesi controcorrente che Wallerstein aveva sviluppato nel suo volume Dopo il liberalismo (Jaca Book). Questa volta - tuttavia - il nostro punto di avvio è la seconda edizione del forum sociale mondiale di Porto Alegre.
Da pochi giorni è iniziato il secondo forum sociale mondiale a Porto Alegre. Che cosa si auspica possa emergere da questo meeting?
Sono ottimista sulle potenzialità del forum sociale. Ovviamente, il problema immediato è come rivedere la tattica alla luce della "guerra al terrorismo". Ma il compito più importante è come dotare di una qualche struttura questa alleanza "a maglie larghe". Soprattutto, credo che il compito più importante che ancora ci attende sia quello di abbandonare le cosiddette azioni "difensive", quelle azioni che hanno costituito il collante principale del movimento anti-globalizzazione. Finora si è trattato di una strategia perfettamente giustificata anche perché le esigenze di difesa erano immediate. Concentrarsi su di esse ha contribuito a lanciare il movimento. Ma se il movimento dovesse ora restare immobile dal punto di vista intellettuale, il rischio sarebbe quello di un possibile crollo. Il movimento deve cominciare a esprimere il lato positivo dello spirito di Porto Alegre.
Eppure, i movimenti antisistema hanno comunque sempre ricoperto un ruolo importante, accelerando o modificando le tendenza di lunga durata. Dalla rivolta di Seattle in poi, sembra che abbiano rappresentato l'irruzione sulla scena mondiale di un "imprevisto" che la globalizzazione economica non aveva - appunto - previsto né tantomeno auspicato. Non le sembra che il movimento di critica alla globalizzazione possa avere accelerato la crisi del capitalismo neoliberista?
Il movimento anti-globalizzazione ha dimostrato di essere perfettamente in grado di opporsi con forza all'offensiva neo-liberista. Comunque considero questo movimento non un "imprevisto". Per me, questo movimento è figlio della rivoluzione mondiale del 1968, ne rappresenta la sua versione più matura. Questo è vero sotto molti aspetti.
A quali carettteristiche del movimento, in particolare, fa riferimento richiamando il Sessantotto?
L'attuale "movimento" - io lo chiamo lo spirito di Porto Alegre - non ha legami organici con la sinistra storica, intendo con i partiti comunisti o social-democratici o con i movimenti di liberazione nazionale. Il nuovo movimento, a differenza della sinistra storica, non crede nella creazione di una struttura centralizzata. Piuttosto, è una alleanza molto "a maglie larghe" di movimenti di tutti i tipi e di tutte le dimensioni, la maggior parte dei quali radicati in contesti locali, ma aventi in comune la percezione che bisognerebbe costruire qualcosa di diverso rispetto alla nostra world-economy capitalistica. E il nuovo movimento non è ideologico, né settario. Al contrario. un'arena di intelligenti discussioni su cui si innestano i percorsi più utili. E' un movimento costantemente in costruzione. Questa - che potrebbe apparire come una debolezza - può invece rivelarsi la maggiore forza del movimento.
La sua analisi del sistema mondiale ha sempre insistito sulla "lunga durata" dei processi sociali, economici e politici. L'attuale capitalismo sembra in una fase di transizione da un assetto geopolitico - lei ha scritto più volte di una geopolitica dello sviliuppo - ad un altro, di cui è difficile tracciare la mappa. Eppure si ha la sensazione che non ci sia più "lunga durata", quanto un mutamento continuo e incessante che non prevede punti di quilibrio. Non mi riferisco a un equilibrio dettato da leggi del mercato, ma di assetti sociali e politici che garantivano una cornice all'accumulazione capitalista. Quello che appare è invece una realtà che ridefinisce continuamente la geopolitica dello sviluppo, rimodellendo continuamente il patto sociale. E' d'accordo con questa lettura della realtà mondiale odierna?
Sì, concordo con lei che il modello dominante dell'economia-mondo capitalista abbia perso la sua forza propulsiva. Secondo lei, questo significa che la "lunga durata" è una categoria che non sembra applicabile a ciò che stiamo assistendo. E tuttavia, dovremmo tenere bene a mente che per analizzare tutti i sistemi storici è necessario partire da tre momenti diversi tra loro intrecciati: quando prende forma il sistema; quando si dispiegano le sue caratteristiche; quando, infine, si manifesta la sua crisi. La "lunga durata" coglie essenzialmente lo sviluppo delle forme di vita di un sistema storico, intendendo con questo le regole di funzionamento, i suoi andamenti ciclici, le tendenze secolari, le sue istituzioni, i suoi costanti sforzi di cercare un equilibrio ogni volta che lo perde. Per me, l'attuale sistema-mondo inizia attorno al XVI secolo e manifesta la sua crisi negli anni Settanta del Novecento. Ed è proprio in questi anni che inizia ciò che io ho definito "era di transizione", cioé un periodo inevitabilmente caotico.
Nella sua lettura del sistema mondo, ci sono sempre delle polarità che si confrontano. Nel volume che lei ha dedicato al liberalismo, parla espressamente delle triadi - Usa, Europa e Giappone - e della scissione binaria, ovvero dell'alleanza di due componenti della triade contro la terza. Sembra però che ciò cui andiamo incontro sia un regime imperiale che vede un governo centrato su Stati uniti, Nato, Wto, Fmi e Banca mondiale. E' questa, in sintesi, la tesi di un volume come "Empire" di Toni Negri e Michael Hardt. Lei cosa ne pensa, concorda con le tesi di Negri e Hardt?
Io non sono così convinto che gli Stati uniti siano capaci di costruire un "impero" che riesca a controllare il mondo. Per essere chiari: questo è ciò che pensano i ceti dominanti oltre a molti intellettuali e personalità della sinistra, non solamente Negri e Hardt. Al contraio, ritengo che gli Usa siano più deboli e più vulnerabili di quanto non sembri. Piuttosto, potrebbero essere descritti come un potere egemonico in declino. Se si va indietro un po' nel tempo, al periodo della vera egemonia americana (gli anni Cinquanta e Sessanta, per intenderci), è più facile vedere come gli Stati uniti possedessero - allora - tre "prerogative" grazie alle quali sono riusciti a modellare un ordine mondiale a loro immagine e somiglianza. In primo luogo, possedevano una indiscussa superiorità e abilità nel produrre merci per un mercato mondiale a prezzi così bassi da poter battere qualsiasi competitore, anche nella loro nazione. Inoltre, avevano stabilito una rete di alleanze (in primo luogo con l'Europa occidentale e il Giappone) all'interno della quale gli alleati potevano essere considerati come stati "clienti" degli Usa che dagli Usa prendevano ordini. Infine, avevano una chiara e indiscussa superiorità militare.
Prerogative che oggi, a suo parere, sono venute meno?
Nonostante il dissolvimento dell'Unione sovietica, il potere degli Stati uniti riposa oggi - nel 2002 - interamente sulla sua forza militare. L'Europa occidentale e il Giappone sono da almeno trent'anni "pari-grado" economici degli Stati uniti. Le fortune relative della Triade salgono e scendono, ma nessuno ha il controllo sull'arena della produzione mondiale. Inoltre mi aspetto che, nei prossimi dieci anni, l'economia Usa andrà meno bene rispetto a quella dell'Unione europea o del Giappone. E non è più vero che, dal punto di vista politico, l'Europa occidentale e il Giappone siano dei semplici burattini degli Stati uniti. A dire il vero, essi non hanno ancora rotto l'alleanza, ma hanno ridotto nei fatti la possibilità per gli Usa di dettare legge. Può sembrare che in Afghanistan le cose non siano andate così, ma fondamentalmente gli Usa in questa guerra hanno dato fondo a tutte le loro risorse e, politicamente, hanno giocato tutte le carte a loro disposizione. Tra cinque anni, gli potrebbero arrivare a pensare che sia stata una follia aver speso un così grande capitale politico, semplicemente per liberarsi dai Taliban.
Un impero militare, allora?
L'unica risorsa di cui gli Usa ancora dispongono è la loro forza militare. E i falchi statunitensi vanno sostenendo che usarla apertamente riscatterà la posizione degli Stati uniti come potenza egemonica. I falchi sono consapevoli del declino di cui ho parlato. Semplicemente, loro sostengono che tale declino possa essere invertito mediante un processo di intimidazione. Non so se i falchi riusciranno effettivamente a persuadere Bush ad abbracciare appieno la via degli incontri militari - in Iraq o in Iran, in Siria, in Corea del Nord o in Colombia per ciò che la riguarda. Sono piuttosto convinto che, se lo faranno, l'esito non sarà positivo per gli Stati uniti.
Tutti seguono i sondaggi e notano quanto la politica di Bush in Afghanistan sia popolare presso il pubblico americano. Ma va tenuto presente che il pubblico americano chiedeva una spettacolare vittoria militare a costo zero. L'ha ottenuta. Nel momento stesso in cui essa dovesse diventare qualcosa di meno che un successo, o se il costo salisse, il sostegno popolare statunitense a queste politiche scenderebbe molto rapidamente. Per non parlare della reazione che ci si può attendere in Europa occidentale o in Giappone. E per non parlare di come reagirebbero la Russia e la Cina. Lo spazio di manovra di Bush è nei fatti estremamente limitato. E io credo che l'esercito americano (se non tutti i politici) se ne rendano ben conto.
L'attacco alle Twin towers ha cambiato il corso della storia. Così molti analisti statunitensi e europei hanno commentato l'attentato dell'11 settembre. Condivide questa tesi o ritiene che l'11 settembre non abbia fatto altro che accelerare mutamenti di fondo del capitalismo mondiale?
Penso che noi esageriamo l'importanza dell'11 settembre. L'attentato non ha cambiato gli aspetti fondamentali della world-economy (e la sua crisi) o il sistema interstatale. L'unico grande cambiamento che è avvenuto è nella psicologia sociale del popolo americano, che per la prima volta in assoluto si è scoperto vulnerabile. Con il suo successo militare, l'amministrazione Bush ha sperato di cancellare questo senso di vulnerabilità. Ma poiché sono scettico nel considerare duraturi i successi militari, penso che gli americani dovranno vivere con questo nuovo senso di vulnerabilità.
Quale evoluzione prevede per il suo sistema-mondo?
Ancora una volta, dobbiamo centrare la prospettiva. Nei prossimi cinque anni, le tre questioni cruciali saranno: fino a che punto l'Europa sarà in grado di creare una struttura politica più praticabile; l'effetto dell'attuale (e mi aspetto che continui) deflazione mondiale sulla posizione comparata degli Stati uniti, dell'Unione europea, e del Giappone; il numero di sollevazioni semi-anarchiche, populiste nel resto del mondo. Gli Stati uniti non hanno il controllo su alcuna di queste tre questioni. Tutte e tre incideranno sul grado di "accelerazione" dei "mutamenti".
Ultima domanda. A cosa sta lavorando?
Sto lavorando a tre livelli. Scrivo sempre riguardo alla situazione contemporanea. Tengo un commento bimestrale sugli eventi mondiali sul web http://fbc.binghamton.edu/commentr.htm e attualmente sono impegnato in un progetto di ricerca che tenta di analizzare i limiti imposti alla capacità dei capitalisti di accumulare capitale dalla crescita inarrestabile dei costi della produzione. In secondo luogo, mi occupo della crisi epistemologica nel mondo della conoscenza, a volte credo di essere legato molto strettamente alla crisi dell'accumulazione. Credo che la questione sia come superare il cosiddetto divorzio tra filosofia e scienza, che è avvenuto proprio due secoli fa e che ha così distorto il nostro lavoro intellettuale. Dobbiamo cercare di superare le "due culture" e riunificare la conoscenza. Questo è un compito intellettuale, morale, e politico a un tempo. E, in terzo luogo, sto portando avanti il mio progetto di descrizione dell'itinerario storico del "moderno sistema-mondo". Ho scritto tre volumi di questo libro (ed esistono tutti in traduzione italiana). Ora sto lavorando al quarto volume, che riguarderà più o meno il "lungo" XIX secolo.
Fonte: Manifesto 3/2/2002