INTERVISTE A CHOMSKY

Come mai hai deciso di partecipare al WSF? Che ne pensi esattamente?

Due avvenimenti si stanno svolgendo praticamente nello stesso tempo. Uno è l’incontro di Davos dei "signori dell’universo", per usare un termine coniato dalla maggiore pubblicazione finanziaria del mondo, il Financial Times di Londra, in occasione del meeting dell’anno passato.

Il termine era usato presumibilmente con un pizzico di ironia, ma è piuttosto accurato. Il secondo è il World Social Forum (WSF) di Porto Alegre, che congiunge rappresentanti delle organizzazioni popolari di tutto il mondo la cui concezione di cosa il mondo necessiti è abbastanza differente da quella dei signori.

Nessuno dei due gruppi, ovviamente è eletto dal popolo – un’accusa avanzata di continuo dai signori e dai loro accoliti contro il WSF, ma, ovviamente, di gran lunga più adatta al gruppo di Davos. Di fatto, sarebbe un bel malinteso dire che su questi temi possano anche solo esistere "governi eletti". La ragione è che essi sono tenuti lontani dalla popolazione finanche nelle società più libere e democratiche, per esempio gli Stati Uniti.

Sondaggi d’opinione pubblica rivelano che la popolazione generale è piuttosto interessata a questi temi e ampiamente contraria alle politiche dei signori, che sono sostenute alla quasi unanimità dal settore delle multinazionali, dai governi e dalle istituzioni ideologiche. I media sono ben consapevoli dell’opposizione della popolazione. Il Wall Street Journal, per esempio, ha osservato mestamente che gli oppositori dei malintesi accordi sul libero scambio hanno "un’arma definitiva": la popolazione generale, che deve per questo essere mantenuta all’oscuro. Per questa stessa ragione, le questioni non sono sollevate in campo politico. Ma è una ipotesi abbastanza ragionevole pensare che il WSF rappresenti un vasto campionamento di quelle parti della popolazione mondiale che si sono informate attraverso le organizzazioni popolari, i sindacati, le organizzazioni contadine, i media indipendenti e con altri mezzi.

Perciò rispondendo alla tua domanda, sono felicissimo di avere l’opportunità di partecipare.

E per quanto riguarda ciò che ne penso, secondo me, le speranze di avere un futuro migliore giacciono nelle mani di coloro che si raccoglieranno a Porto Alegre e di altri come loro.

Il Forum di Porto Alegre ama definirsi evento anti-Davos. Non credi che il problema sia proprio questa polarizzazione? È davvero l’unica maniera di combattere quella di opporre ad un cosiddetto "pensiero unico" un "pensiero opposto e contrario"? Credi davvero che le richieste di Porto Alegre – remissione del debito, minor protezionismo culturale ecc. – siano sufficienti per metter fine al sottosviluppo?

Sostenere che il Forum di Porto Alegre sia "anti-Davos" significa presupporre che in qualche modo Davos sia a prima vista legittimo e che l’opposizione popolare a ciò che rappresenta richieda una qualche giustificazione speciale. Se si sceglie di inquadrare la questione in questi termini – e io non lo faccio – sarebbe molto più ragionevole dire che Davos è una "anti-Porto Alegre", e chiedersi perché il meeting di Davos ha finanche il diritto di realizzarsi.

Davos è un incontro tra coloro che la stampa economica internazionale, con solo un pizzico di ironia, chiama "i signori dell’universo".

Porto Alegre è un incontro di organizzazioni popolari di tutto il mondo la cui immagine di come la nostra società dovrebbe essere organizzata differisce da quella dei signori.

Queste contrapposizioni sono tra i temi principali della storia. E fortunatamente, le forze popolari hanno riportato molte vittorie nel corso dei secoli, superando concentrazioni di potere illegittime e smisurate, come quelle che si raccolgono a Davos. Naturalmente fingono di rappresentare governi eletti democraticamente, ma ciò è un’assurdità così evidente che presumo che non occorra sprecarvi il tempo, in particolare rispetto alla globalizzazione neoliberale.

Se i programmi di coloro che si riuniscono a Porto Alegre riusciranno a penetrare nei seri problemi della società globale – di cui il "sottosviluppo" è solo un esempio – dipende da ciò che si considera dietro quell’"ecc." della domanda. Di sicuro dovrebbe andare ben oltre i due esempi menzionati, per quanto importanti.

Consideri questo movimento come una sorta di "Internazionale" delle forze di sinistra, liberali e progressiste della società mondiale? In questo senso, dovrebbe darsi un programma?

L’obiettivo tradizionale della sinistra sin dalle sue origine moderne è stato quello di condurre ad una forma di globalizzazione radicata nella partecipazione della grande massa della popolazione mondiale, e che di conseguenza risponda agli interessi e preoccupazioni di questa – diverse, complesse, spesso non chiare, da esplorare con spirito creativo e sperimentale: una "internazionale", detto brevemente. I primi tentativi ebbero luogo già nel XIX sec., soppressi o distorti dal brutale potere statale o da altri agenti.

Il WSF contiene la promessa di diventare la prima manifestazione di questa globalizzazione dal basso veramente significativa, una prospettiva molto positiva, portatrice di una promessa enorme. Per quanto concerne il programma, esistono un intendimento ed una prospettiva comuni. I programmi sono stati formulati in meetings precedenti ed hanno condotto ad un’azione cooperativa. Domandarsi quanto un programma possa essere specifico, ci riporta alla questione precedente

Perché la potenza egemone dovrebbe preoccuparsi per il WSF e questo tipo di movimento? Possiede davvero un possibilità reale di mettere in pericolo la potenza finanziaria e sovranazionale delle corporations?

La potenza egemone, come in generale i "signori dell’universo", sono fortemente preoccupati dal WSF e dalle forze che rappresenta e da ciò che chiamano "movimenti anti-globalizzazione", un termine propagandistico che dovremmo evitare. È questa la ragione per cui esiste un costante flusso di articoli che li condannano. È anche la ragione per cui gli accordi economici internazionali sono prevalentemente negoziati in segreto e solo raramente descritti ad un qualunque livello di dettaglio.

Prendiamo ad esempio il Summit delle Americhe dell’aprile scorso, che avrebbe dovuto ratificare il "Free Trade Area of the Americas" (FTAA, accordo sul libero scambio nelle Americhe, ndt). Sappiamo dai sondaggi che simili questioni suscitano grande attenzione nel pubblico, ma esse, come il prossimo summit e l’FTAA in generale, sono state mantenute con grande cura lontane dall’arena elettorale del novembre 2000. Né ricevettero prima alcuna attenzione da parte dei media.

Durante il summit stesso la cronaca fu per lo più insignificante. Si interessò principalmente dei disturbi, accanto all’elogio per la squillante adesione alla democrazia e alla "trasparenza" da parte dei leaders che si raccolsero in Quebec. Però la loro vera adesione a questi ideali fu smascherata non solo dalla soppressione di tutte le questioni reali, ma anche dal blackout sugli studi compiuti dalle maggiori organizzazioni di analisi economica e dei diritti umani sugli effetti del NAFTA, acclamato come il modello del nuovo FTAA. Questi ultimi erano tutti programmati per uscire in corrispondenza del summit ed erano a disposizione in ogni redazione giornalistica del paese. È un utile esperimento per misurare la copertura di questi temi da parte dei media (nessun timore, è stato fatto e questa era prossima allo zero). Il silenzio e la segretezza hanno il loro senso. Il sistema di potere concentrato è fragile, e lo sa, e deve ricorrere a qualsiasi mezzo per assicurarsi che "l’arma finale" non sia sguainata.

Che tipo di contributo può dare il WSF a questa speranza di un mondo pacifico?

I servizi segreti USA hanno pubblicato recentemente le loro proiezioni per gli anni a venire. Predicono l’avanzamento della "globalizzazione" – intendendo con ciò quella particolare forma di integrazione economica di stampo neoliberale favorita dai centri del potere – con aumento della disuguaglianza e della volatilità finanziaria (e da qui una crescita più lenta e un pericoloso disordine). Cinque anni fa, il Comando Spaziale USA, che è responsabile dei programmi per la militarizzazione dello spazio (inclusa la "difesa missilistica" come loro piccolo componente), presentò la sua giustificazione pubblica per essi. Una preoccupazione primaria è il gap crescente tra "coloro che hanno" e "coloro che non hanno" che anch’essi anticipano come conseguenza della globalizzazione nella sua versione a favore dei diritti degli investitori. Si aspettano, ragionevolmente, che il risultato sarà il tumulto tra numeri crescenti di persone impoverite in tutto il mondo, che dovranno essere poste sotto controllo con la forza. Da qui la necessità di militarizzare lo spazio, dotando gli USA di armi immensamente distruttive che possano essere lanciate dallo spazio, probabilmente nucleari. A parte le conseguenze terribili per le vittime, questa è anche una ricetta sicura per il disastro globale.

Su questo sfondo, il contributo potenziale del WSF ad un mondo pacifico diventa piuttosto chiaro.

Il WSF è un assembramento di persone di tutto il mondo che sono impegnate per invertire questa tendenze pericolosa ed estremamente minacciosa, concentrandosi sul problema centrale – segnatamente quel processo di globalizzazione neoliberale dal quale i suoi stessi progettisti si aspettano questi ed altri effetti infausti. I partecipanti del WSF concordano in principio con le valutazioni dei servizi segreti e degli strateghi militari, ma essi rappresentano la popolazione, non i poteri concentrati, e perciò hanno interessi diversi: una sopravvivenza decente per gli esseri umani, non la concentrazione maggiore di potere e profitti con tutto ciò che questo implica, come i progettisti stessi del sistema prevedono.

Tornando alla domanda, il contributo del WSF è essenziale e può essere decisivo.

È possibile organizzare lo scenario complesso ed eterogeneo delle forze antiglobalizzazione (nei miei articoli, preferisco dipingerli non in lotta con la globalizzazione, ma contro la globalizzazione neoliberale)?

È corretto chiamarli oppositori della "globalizzazione neoliberale", cioè di quella particolare forma di integrazione economica internazionale che i "signori dell’universo" hanno ideato per i loro stessi interessi, lasciando quelli delle popolazioni come cosa secondaria. Non è una grossa sorpresa. Sarebbe sorprendente, e un taglio netto con la storia e la logica, se fosse altrimenti.

Nessuno si oppone alla "globalizzazione" in senso generale. Per esempio, i partecipanti al WSF non sono contro il fatto che esista e che essi stessi prendano parte ad un esempio costruttivo di globalizzazione.

È anche corretto il riferimento allo "scenario complesso ed eterogeneo". È come dovrebbe essere. Molti interessi sono rappresentati, come dovrebbe essere quando persone del nord e del sud, provenienti da fattorie e da fabbriche, da tutti i percorsi della vita, giovani e vecchi... si riuniscono per considerare questioni complesse che sono molto importanti ma spesso anche mal comprese – da chiunque. Quanta organizzazione dovrebbe esserci è questione aperta: non dovrebbe superare il livello di ciò che costituisce lo scopo e l’accordo comune. Quanto ce ne sarà spettta ai partecipanti determinarlo.

 

Qual è la differenza tra anti-americanismo e lotta contro la globalizzazione? È possibile che gli Stati Uniti se ne servano per dare impulso ad una nuova polarizzazione come quella derivante dalla guerra fradda? C’è un modo di identificare e fermare il terrorismo nelle reazioni anti-americane?

È sempre importante osservare attentamente il modo in cui le questioni sono formulate, sia in campo scientifico che in quello delle scienze umane. Spesso si ritrovano assunzioni che dovrebbero essere portate alla luce, analizzate criticamente e spesso rifiutate. Quando questo primo compito sia stato intrapreso, quello che scopriamo è che le domande non possono trovare risposta e devono essere riformulate.

Credo che ciò sia vero in questo caso. Prendiamo il concetto di "anti-americanismo". È un concetto piuttosto curioso, di quelli che sono usati tipicamente solo negli stati totalitari o nelle dittature militari. Così "anti-sovietismo" era un crimine gravissimo negli ambienti del Cremlino dei vecchi tempi, e suppongo che i generali brasiliani e i loro sostenitori accusassero i loro nemici interni di essere "anti-brasiliani".

Nei paesi che hanno un po’ di rispetto per la loro libertà, il concetto sarebbe rigettato con scherno. Immaginiamo le reazioni nelle strade di Milano o Roma ad un libro intitolato "anti-italianismo". E poi osserviamo le reazioni reali negli USA ed in gran Bretagna ad un libro intitolato "anti-americanismo" di un autore rispettabile – uno studioso specializzato nell’Unione Sovietica e che quindi comprende particolarmente bene il modello che segue. Nessuno sarebbe sorpreso dallo scoprire che il libro è un’invettiva disonesta contro coloro che mancano di venerare con sufficiente ardore il Santo Stato e che per questa ragione è riscuote un elevato apprezzamento in recensioni pacate nel New York Times ed altrove.

Quelli che criticano i crimini del Cremlino o dei generali brasiliani sicuramente non erano "anti-russi" o "anti-brasiliani". E allo stesso modo coloro che si oppongono ai crimini del maggior stato del mondo non sono anti-americani; di fatto, quei crimini sono spesso osteggiati da una maggioranza considerevole della popolazione. Il termine dovrebbe essere abbandonato, come nel caso dei suoi ignobili modelli.

Cosideriamo poi la "lotta alla globalizzazione". A me non risulta di alcuna siffatta lotta.

Coloro che partecipano al World Social Forum di Porto Alegre, per esempio, non si oppongono al fatto che essi stessi siano in grado di parteciparvi, grazie proprio all’integrazione internazionale e cioè alla globalizzazione. La Prima Internazionale non si opponeva alla globalizzazoine: quello era il suo obiettivo più elevato, come il nome stesso ci dice. La globalizzazione stessa non è sostenuta né osteggiata da alcuno. La questione è: che tipo di globalizzazione? Come in altri casi, il termine "globalizzazione" è stato preso in ostaggio dai potenti come arma ideologica. Lo usano per indicare una specifica forma di integrazione economica internazionale, definita nell’interesse degli investitori e delle istituzioni finanziarie. Poi possono condannare i critici del loro progetto come "anti-globalizzatori", primitivi che vogliono tornare all’età della pietra. Nessuno dovrebbe tollerare queste pratiche ingannatrici.

Tornando alla domanda, non può essere formulata e quindi non può trovare risposta, perchè è espressa in termini convenzionali, che sono fatti ad arte per assicurare che solo risposte inappropriate possano essere date.

Traducendo la domanda in termini più appropriati, dovrebbe essere chiaro che le lotte popolari contro questa forma particolare di integrazione internazionale non possono essere intese come "anti-americane", laddove l’aggettivo "americano" si riferisca al popolo degli Stati Uniti. Una semplice ragione è che essa è avversata dalla maggioranza della popolazione amerciana, che è la ragione per cui i negoziati sono stati portati avanti a porte chiuse, per cui non se ne parla in sede elettorale ed i media ed i giornali devono mantenere un "velo di segreto" su ciò che sanno.

Per quanto concerne la polarizzazione, i centri di potere negli USA e nei loro alleati non la vogliono: piuttosto vogliono la sottomissione. Ma se coloro che gli si oppongono non si sottomettono allora cercano di umiliare e punirli, e ciò conduce alla polarizzazione. Non c’è niente di nuovo o sorprendente in tutto ciò.

La prevenzione del terrorismo è un compito importante, che sia il terrorismo del debole o del forte, che, senza sorprese, è di gran lunga più letale e distruttivo. Naturalmente, i potenti cercheranno sempre di restringere il concetto in modo che si applichi solo al terrore contro di essi, escludendo il terrorismo ben peggiore che essi mettono in atto contro gli altri. Se ci pieghiamo ai loro sforzi, ci chiederemo solo come il terrore diretto contro i ricchi ed i potenti possa essere identificato e fermato. Ma saremmo caduti nella loro trappola al primo passo.

Alcuni mesi dopo la prima edizione del World Social Forum, l’anno passato, il presidente Fernando Henrique Cardoso ha difeso la creazione di una tassa sulle transazioni finanziarie di tutto il mondo. Questa era in origine una proposta di Attac, una delle ONG che organizza il World Social Forum. Sempre l’anno passato, un parlamentare francese si congratulò con Fernando Henrique per il Social Forum, anche se egli non aveva nulla a che vedere con l’evento. Credi che le discussioni all’interno del Forum possano far cambiare idea alle persone che detengono il potere o per lo meno influenzarne gli atti?

La proposta è vecchia di molti anni e di fatto conosce molte varianti. Le proposte di questo tipo meglio conosciute sono quelle del premio Nobel James Tobin, di circa trent’anni fa, benché John Maynard Keynes avesse fatto proposte simili molto prima. La questione divenne di grande importanza con lo smantellamento del sistema di Bretton Woods negli anni 70, ciò che condusse ad un incremento astronomico delle transazioni finanziarie a brevissimo termine, un’evoluzione che molti economisti considerano una ragione fondamentale per il generale deterioramento dell’economia globale durante il periodo "neoliberale" dei 25 anni passati. Per fare un esempio, John Eatwell e Lance Taylor in un libro recente.

Per quanto concerne il WSF, è uno sviluppo di molti anni di resistenza popolare a quella forma particolare di "globalizzazione" a favore dei diritti degli investitori che è stata imposta a gran parte del mondo nei decenni passati. La protesta e la resistenza si sono localizzate per lo più nel sud, e prominentemente in Brasile. Negli ultimi anni si sono estese anche ai paesi industrializzati e importanti alleanze internazionali si sono costituite – un’evoluzione molto positiva.

Sicuramente c’è stata un’influenza sulla retorica dei centri di potere dominante, e in una certa misura, sulle loro pratiche. Anche i regimi totalitari e le dittature militari devono rispondere, in qualche misura, all’umore popolare. Ciò è a maggior ragione vero per sistemi più liberi e democratici. Ma l’obiettivo non dovrebbe essere solo indurre i poteri ad essere meno crudeli. Piuttosto, dovrebbe essere lo smantellamento delle concentrazioni di potere illegale. Quest è stato un tema centrale della storia per molti secoli, fortunatamente, e il suo corso non è affatto completato.

Hai affermato che le idee delle persone sono controllate dai media. Non credi che gli eventi del Social Forum e di Seattle, con la mobilitazione di migliaia di persone, siano una prova che le persone sono capaci di farsi delle idee in maniera indipendente?

Non ho mai detto, e non lo credo, che le idee delle persone sono controllate dai media. Al contrario, ho discusso spesso questioni di importanza centrale su cui il pubblico è contrario alle politiche cui è dato un supporto quasi unanimo dai media di proprietà industriale e dallo stato. Naturalmente, questi media, ed altri istituzioni dottrinarie, cercano di "controllare la mente del pubblico", per prendere le loro stesse parole in prestito. Ciò non è affatto in discussione, per lo meno tra le persone serie. Ma spesso falliscono, di fatto in maniera piuttosto drammatica. In questi casi, le politiche devono essere attuate segretamente, cosa piuttosto comune. E i sistemi di potere sono spesso piuttosto franchi in quanto a ciò.

Consideriamo per esempio gli accordi economici internazionali che sono chiamati in maniera fuorviante "accordi per il libero commercio". Essi ricevono un sostegno quasi unanime, ma come lamentava il Wall Street Journal, gli oppositori hanno un’"arma finale": il pubblico resta contrario. Perciò devono essere condotti in gran parte segretamente, e la questione non compare nei dibattiti elettorali. Chiunque abbia esaminato documenti del governo sottratti al segreto di stato sa che gran parte di ciò che è mantenuto segreto, di fatto la sua gran parte, non ha niente a che vedere con la sicurezza nazionale. L’obiettivo non è quello di impedire ai nemici di venire a conoscenza di ciò che vi è detto; piuttosto è tenerlo lontano dalla popolazione del paese, che ben difficilmente tollererebbe ciò che è fatto in suo nome, se solo lo sapesse. Lo stesso vale per le "operazioni clandestine", come lo straordinario "network clandestino di terrore internazionale" che l’amministrazione Reagan creò per combattere la sua "guerra contro il terrorismo". All’inizio l’amministrazione cercò di seguire il modello dell’amministrazione Kennedy, conducendo la sua guerra in America Centrale in maniera piuttosto scoperta, come Kennedy aveva condotto la sua nel Vietnam del Sud. Ma si resero presto conto che non avrebbe funzionato. Il paese era cambiato troppo. La protesta popolare si diffuse immediatamente, e l’amministrazione cambiò tattica, rivolgendosi al terrorismo clandestino.

Ma chiediamoci chi lo sapesse e chi no... Di sicuro le vittime lo sapevano. Altrettanto l’impressionante schiera di stati terroristi che vi presero parte. Anche i media sapevano, ma decisero di nascondere i fatti più importanti. I soli che dovevano essere tenuti all’oscuro erano i cittadini USA. Di fatto, attraverso altri canali – gruppi di solidarietà, organizzazioni collegate alla chiesa, media indipendenti ecc. – un gran numero di persone venne a conoscenza di ciò che veniva nascosto, e un’opposizione popolare si sviluppò ad un livello ben superiore a quello delle guerre in Indocina, e in maniera senza precedenti storici. Ma il bersaglio della segretezza era il solito: la popolazione interna.

La convinzione che le istituzioni controllino l’opinione pubblica è semplicemente sbagliata. Di sicuro cercano di farlo, e talvolta con successo, ma altre falliscono, a volte in maniera spettacolare

Quando ti sei recato in Brasile nel 1996, hai criticato il neoliberalismo, ciò che infastidì il presidente Cardoso. Egli affermò: "Chomsky si intende di linguistica. Io non esprimo opinioni in campo linguistico". Come linguista, le tue idee riscuotono un consenso quasi unanime. Ma le tue opinioni politiche sono classificate da molti critici come anti-americane e dominate da teorie cospiratorie. Che ne pensi?

È molto semplice calunniare, ed è uno spreco di tempo replicare o rispndere. Se vi fossero degli argomenti sarei lieto di ascoltarli.

Il commento relativo alla linguistica, se mai fosse stato fatto, sarebbe semplicemente infantile, non meritando risposta. Per la cronaca, alcuni dei migliori lavori nella linguistica contemporanea sono opera di persone che non hanno una preparazione formale specifica nel campo. Di fatto, come ogni linguista di professione sa, la mia stessa preparazione in questo campo è molto insolita e manchevole. Nessuno si occupa di simili cose in discipline serie. Ciò che conta non è un’autorità formale, ma la qualità del lavoro. Dovrebbe essere una cosa elementare, e infatti lo è, in discipline che si prendono sul serio, benché gli ideologhi faranno chiaramente ricorso ad argomentazioni stupide come quella che citi per cercare di impedire che la discussione si allontani dalla loro dottrina.

Ho già commentato il concetto disgraziato di "anti-americano".

Per quanto concerne le "teorie di cospirazione", il termine viene usato da apologhi del potere come controparte intellettuale di un mondo sventurato. Se si è troppo stupidi o ignoranti per rispondere ad un commento critico, allora si grida alla "teoria cospiratoria". Questi sono giochi stupidi che non meritano attenzione né commenti.

Nel 1996, hai sostenuto la sospensione del pagamento del debito estero brasiliano. Qual è la tua posizione oggi riguardo al Brasile?

Ciò non è esatto. Non raccomandai alcuna politica specifica, e non avrei l’audacia di farlo. Molti fattori sono coinvolti nel decidere se il Brasile ed altri paesi debbano pagare il loro cosiddetto "debito", una decisione che non può essere presa con leggerezza.

Piuttosto, quello che sottolineai fu che il debito è in gran parte una costruzione ideologica, non un semplice fatto economico. Sostanzialmente, il debito del terzo mondo potrebbe essere alleggerito, in molti casi eliminato, ricorrendo al principio capitalistico che coloro che prestano il denaro si assumono il rischio e che l’onere della restituzione ricade su coloro che presero il denaro in prestito – che in Brasile non sono gli abitanti della favelas, o i lavoratori senza terra, o di fatto la vasta maggioranza della popolazione. Naturalmente, i ricchi e potenti rigettano questo principio capitalistico con orrore. I creditori vogliono ottenere lauti guadagni ma preferiscono che il rischio sia socializzato, trasferito ai contribuenti del nord. Una delle funzioni dell’IMF è fornire ciò che costituisce una "assicurazione sul rischio gratuita" per prestiti ed investimenti ad alto profitto. E nel paese che contrae il prestito, i debitori preferiscono la fuga di capitali, l’evasione fiscale, le importazioni di lusso, i progetti per rafforzare la loro grandeur ecc. Qualora il debito diventi insostenibile, preferiscono che i costi vengano socializzati, trasferiti alla grande massa della popolazione che non ha niente da fare con il prestito in senso stretto, attraverso programmi di aggiustamento strutturale e altri mezzi per potenziare le esportazioni (con beneficio dei creditori), schiacciando allo stesso tempo la popolazione. Questa è stata una funzione complementare dell’IMF.

Fare ricorso all’impensabile principio capitalista farebbe molto per la restituzione del debito, qualora il debito esistesse realmente, ciò che non è del tutto ovvio. La ragione è che secondo i principi della legge internazionale stabiliti dagli USA ed impiegati quando era conveniente, il debito potrebbe ricadere nella categoria del "debito odioso", cosicché non sarebbe affatto necessario pagarlo. Ciò fu messo in luce anni fa da Karen Lissakers, direttrice esecutiva dell’IMF, che scrisse che il principio del debito odioso, "se applicato oggi, cancellerebbe una larga parte dell’indebitamento del terzo mondo".

In alcuni casi esistono meccanismi finanche più conservatori: aderire ai pronunciamenti della Corte Mondiale. Questo semplice strumento libererebbe il Nicaragua dal suo debito.

In America Latina, la fuga di capitali ha spesso quasi eguagliato il debito, suggerendo un ulteriore metodo per ripagare il debito, qualora davvero esistesse.

Ma la questione se i paesi debbano perseguire una soluzione del problema del debito con mezzi conservatori e legali è una cosa separata. Ha a che fare con il potere, non con la legge o la morale. In questo mondo, non in un mondo prodotto da fantasie dottrinali, occorre prendere decisioni, e questo mondo è governato dalla legge della forza. Accade solo nelle favole e nelle pagine dei giornali di opinione di stampo intellettualistico che la giustizia e la legge siano i principi guida dell’ordine mondiale.

Quest’anno avremo le elezioni presidenziali in Brasile. Il candidato della sinistra, Luiz Inacio Lula da Silva, guida le preferenze degli elettori, con grosse speranze di essere eletto. Si teme, cionondimeno, che a causa del suo orientamento politico, egli possa avere problemi ad affrontare la relazione con l’Europa e il Nord America. Credi che il governo dei paesi ricchi renderebbe le cose difficili per un governo di sinistra in Brasile?

Se la storia insegna qualcosa, questa è una certezza, praticamente, a meno che non sentano di poter constrastare l’operato di un governo di orientamento popolare con altri mezzi. Le tattiche possibili a questo riguardo sono diverse. Vi sono interessanti precedenti storici, proprio in America Latina, ma la conclusione generale è una evidente lezione di storia. È anche coerente con i documenti dell’amministrazione interna lungo molti anni. Sarebbe notevole se le istituzioni dominanti, lo stato e i privati, dovessero reagire in qualunque altro modo – a meno non vi siano costretti dalla loro popolazione, che è sempre l’elemento cruciale.

Qual è l’intervento neoliberale nelle politiche sociali del mondo? In che misura ciò sta scoraggiando le persone dal partecipare a questo processo politico?

Una delle maggiori critiche al neoliberalismo è quella di mettere in pericolo la democrazia. Si è ritenuto per almeno 60 anni che la liberalizzazione finanziaria mettesse in discussione la possibilità di scelta democratiaca, creando un "parlamento virtuale" di creditori e investitori che hanno un "potere di veto" sulle decisioni del governo (per citare gli economisti più in voga). Questa è una delle ragioni principali per cui il sistema di Bretton Woods (che è stato smantellato alla nascita del neoliberalismo) era basato sul controllo dei capitali e su tassi di scambio controllati. Quelle condizioni rendevano possibile ai governi istituire misure di democrazia sociale, e lo smantellamento del sistema di Bretton Woods, con la nascita del neoliberalismo, ha avuto l’effetto prevedibile di mettere in forse tutti questi accordi.

Lo stesso è vero per altre componenti del neoliberalismo che, fondamentalmentem cerca di ridurre l’arena pubblica della scelta democratica, trasferendo le decisioni nelle mani di tiranni privati non controllabili. L’Accordo Generale sul Commercio nei Servizi (GATS), che ora viene negoziato essenzialmente in segreto, non ha praticamente nulla a che vedere con il commercio, ma molto con la riduzione del quadro di partecipazione e scelta democratica.

Il punto è ben compreso nei circoli elitari, benché venga descritto in termini un po’ meno caustici per un pubblico vasto. Per esempio, da David Rockefeller, nel Newsweek, discutendo le tendenze, che egli sostiene fortemente, verso "la riduzione del ruolo del governo". Ciò, continuava, è "qualcosa che le persone tendono a favorire; ma l’altro lato della medaglia è che qualcun altro deve prendere il ruolo del governo e le imprese mi sembrano l’entità astratta adatta a ciò. Penso che troppi uomini d’affari semplicemente non hanno considerato questo o hanno detto "è responsabilità di qualcun altro; non mia". Ovviamente non responsabilità delle persone, sarebbe impensabile.

Le globalizzazione neoliberale viene accusata da molti di molti disastri in tutto il mondo, dall’Afganistan all’Argentina. Ma i partiti politici quali il Partito dei Lavoratori in Brasile credono che l’alternativa è ciò che chiamano "socialismo democratico". Sei d’accordo? Cosa significa per te "socialismo democratico"? È mai esistito un paese allo stesso tempo socialista e democratico?

Non credo che qualcuno creda che una particolare forma di organizzazione sociale sia LA soluzione ai "disastri nazionali in tutto il mondo". Questi ultimi sono molti e molteplici, le cause diverse ed esistono molte strade che dovrebbero essere esplorate nel tentativo di correggerle o superarle.

"Socialismo democratico" non è un concetto semplice, né lo è una delle sue componenti, la "democrazia". Nella forma più semplice una società è democratica nella misura in cui la sua popolazione può prendere decisioni significative su questioni che la riguardano. Si è compreso da molto tempo che le forme democratiche hanno una sostanza molto limitata quando le decisioni sugli aspetti fondamentali della vita sono nelle mani di concentrazioni incontrollate di poteri privati, e la società è dominata dagli "affari in funzione del profitto privato attraverso il controllo privato delle banche, dell’agricoltura, dell’industria, rafforzati attraverso il controllo della stampa, delle agenzie stampa e di altri mezzi di pubblicità e propaganda".

Non sto citando il Partito dei Lavoratori, ma John Dewey, forse il filosofo politico occidentale più in vista e rispettato del XX secolo, la cui preoccupazione principale era la teoria democratica, e che era "americano come il sidro di mela", secondo il modo di dire. Di fatto, la sua diagnosi delle serie deficienze della democrazia contemporanea e i consigli per superarle richiamavano idee (e scelte) che risalgono all’origine dei movimenti operai negli USA e altrove e furono, incidentalmente, sviluppate senza l’apporto dubbio degli intellettuali radicali, in gran parte.

Adottando questi punti di vista, Dewey argomentava che se le forme della democrazia dovevano avere una sostanza reale, l’industria doveva essere portata da "un ordine sociale feudale ad uno democratico" basato sul controllo dei lavoratori e sull’associazione libera, la nozione centrale del socialismo. A meno che ciò non avvenga, come pure osservò, la politica resterà "l’ombra proiettata sulla società dai grandi centri di interessi economici e l’attenuazione dell’ombra non cambierà la sostanza". Cito Dewey solo per sottolineare che queste nozioni sono, o dovrebbero essere, come una seconda natura per coloro che prestano la minima attenzione al principio della democrazia, e come ho detto, sono state un luogo comune tra gli operai e i movimenti popolari in genere per lungo tempo. Quindi è del tutto appropriato che siano raccolte dal Partito dei Lavoratori e adattate a ciò che si considerano i problemi e le condizioni specifiche del Brasile.

Molte cose sono cambiate nel corso degli ultimi mesi dopo l’11 settembre. In dicembre hai affermato che, se le tendenze attuali persistessero, "non sarebbe esagerato dire che la sopravvivenza della specie è a rischio". Potresti indicare le tendenze principali che sono già in corso e spiegare perché siamo a rischio?

La domanda sulle principali tendenze in corso è troppo ampia perché possa tentare di rispondere in maniera completa. Due di esse sono i due modelli di "globalizzazione" radicalmente diversi che sono raffigurati nelle due conferenze quasi simultanee di Davos e Porto Alegre. Al di là di ciò che altri possano pensare, la versione di Davos minaccia seriamente la sopravvivenza della specie. Una ragione è che il suo principio basilare, qualora fosse preso sul sio, condurrebbe alla conclusione che distruggere il nostro ambiente per i nostri nipoti sarebbe del tutto ragionevole se nel farlo agissimo da "massimizzatori razionali della ricchezza" nel senso esaltato dall’ideologia contemporanea. È sorprendente che Bush venga criticato per il suo rifiuto del protocollo di Kyoto. Dovrebbe essere lodato – come di fatto è da parte, per esempio, dei redattori del Wall Street Journal; fanatici pericolosi senza dubbio ma almeno abbastanza onesti da accettare le dottrine che predicano.

Un’altra ragione è fornita dalle previsioni sulla base delle quali gli strateghi operano. I servizi segreti USA, per esempio, predicono che la "globalizzazione" – intendendo la versione di Davos – condurrà ad una divisione crescente tra "coloro che hanno" e "coloro che non hanno". E gli strateghi militari, adottando le stesse proiezioni, argomentano in maniera plausibile che per conservare la ricchezza ed il potere di "coloro che hanno" sarà necessario disporre di enormi mezzi di distruzione per controllare la turbolenza degli esclusi. Questa è la ragione per cui il bilancio militare USA deve superare quello combinato di 15 paesi, già prima dell’11 settembre, quando la paura e l’angoscia della popolazione fu sfruttata in maniera abbastanza cruda e disgustosa per innescare un incremento gigantesco della spesa militare: del tutto irrilevante per il terrorismo ma utile ad altri scopi.

Queste proiezioni rientrano nelle giustificazioni ufficiali dei programmi di militarizzazione dello spazio, con effetti che potrebbero distruggerci tutti. Le conseguenze probabili sono comprese e descritte in maniera abbastanza accurata dagli analisti dentro e fuori dal governo. Ma la maggior parte di essi e degli strateghi del governo e delle corporations non considerano questa possibilità molto importante in confronto con il bisogno trascendente di massimizzare la ricchezza ed il potere a breve termine.

Per chiarire, non sto parlando dell’ala conservatore – loro sono molto più estremi. Mi sto riferendo a documenti e piani dell’era Clinton, tutti piuttosto pubblici, incidentalmente. Uno può scegliere di chiudere gli occhi di fronte a tutto ciò piuttosto che sbatterlo nelle prime pagine, laddove sarebbe il suo posto. Questa è una scelta, non una necessità, e non una per la quale riceveremo il ringraziamento delle generazioni future.

Gli attacchi dell’11 settembre sono stati seguiti da una cronaca molto emotiva da parte della stampa nordamericana, riprodotta dalla stampa di tutto il mondo. I nomi e i volti delle vittime e la sofferenza delle loro famiglie sono state mostrate fino al punto da spossarli. Lo stesso non accade con le guerre in Africa, Iraq e finanche in Afganistan. Pensi che questi contrasti possano essere stati in parte responsabili per il supporto che l’opinione pubblica mondiale ha offerto agli Stati Uniti in questo frangente?

Molto pertinente è l’osservazione che lo stesso non accada nel caso delle operazioni di terrorismo internazionale condotte o sponsorizzate dagli USA e dai suoi alleati, che – dolorosamente – hanno spesso avuto un prezzo molto maggiore che l’11 settembre, come tutti i latinoamericani sicuramente sanno molto bene, e non sono certo i soli. Le atrocità dell’11 settembre sono state un fatto unico nella storia, ma non per la loro scala, sfortunatamente; piuttosto per l’obiettivo. Queste sono le tipiche atrocità che l’Europa e i suoi discendenti conducono contro altri; per la prima volta, i fucili sono stati puntati nell’altra direzione.

Ma la questione che sollevi non può trovare risposta così come l’hai formulata, perché si basa su ipotesi non precise. Prima di tutto, l’opinione pubblica negli USA è molto più varia e sfumata di quello che appaia attraverso i titoli di giornale e le pubblicazioni intellettuali. Questo fatto è stato anche riferito dalla stampa nazionale, in alcune occasioni in cui si è tentato di esplorare l’opinione pubblica, New York City compresa. Inoltre, l’opinione pubblica mondiale era piuttosto contraria ad un’azione militare che nuocesse ai civili – cioè quella che è stata pianificata e realizzata. Ciò era chiaro dall’inizio, finanche nei sondaggi internazionali. L’opinione pubblica sosteneva un’azione per trovare e punire i colpevoli, ma questa era cosa piuttosto diversa. E in generale era abbastanza consapevole, e spesso in maniera sincera, del fatto che le vittime tradizionali delle atrocità dei potenti sono trattate in maniera diversa, anche nel caso di crimini che ecccedano di gran lunga quelli dell’11 settembre – i quali sfortunatamente sono troppo facili da elencare, giacché la gran parte delle persone li conosce bene, sicuramente in America Latina.

Dopo l’11 settembre , gli USA ha cambiato atteggiamento verso certi paesi. Quali sono gli effetti principali di questa strategia?

Dopo l’11 settembre, gli stati più criminali e repressivi del mondo si sono resi conto che potevano guadagnarsi l’autorizzazione per i loro crimini da parte degli USA semplicemente unendosi alla "coalizione contro il terrore". E ciò è esattamente quello che hanno fatto: la Russia, la Cina, l’Uzbekistan, la Turchia, Israele... una lista piuttosto lunga. Lo stesso vale per USA, Gran Bretagna ed altri, laddove gli elementi più duri e repressivi stanno sfruttando l’opportunità di estendere il potere statale per controllare i cittadini, con lo stesso pretesto. Quanto questi effetti potranno essere forti nessuno può dirlo. Come sempre, sono questioni in cui bisogna agire, non lasciarsi andare alle speculazioni.

Una conseguenza, comunque, è piuttosto chiara: gli USA stanno usando quest’opportunità per stabilire una presenza militare in Asia Centrale, formando alleanze con stati che sono a stento riconoscibili dai talebani, con l’intenzione di ottenere un controllo più forte sull’energia e altre risorse della regione, come pure alleanze strategiche. La Russia e la Cina sono ben poco compiaciute da questa cosa, per non parlare di attori minori come l’Iran.

Come sono cambiate le relazioni internazioni dopo l’11 settembre?

L’11 settembre è stato un evento storico, non per la dimensione dell’atrocità, che purtroppo è tutt’altro che insolita. Piuttosto per la direzione in cui i cannoni sono stati puntati. È la prima volta nella storia USA da quando gli inglesi rasero al suolo Washington nel 1814 che il territorio nazionale – non le colonie, ma il territorio nazionale – è stato posto sotto attacco, o finanche minaccia. Non devo certo ricordare ciò che è stato fatto ad altri nel corso di quasi due secoli.

Per la "patria", l’Europa, il cambio è finanche più drammatico. L’Europa non ha conquistato ed occupato gran parte del mondo distribuendo caramelle ai bambini. Ma l’India non ha mai attaccato l’Inghilterra né l’Algeria la Francia, né il Congo il Belgio... Il terrorismo è la nostra maniera di trattarLI; non si pensa che possa essere rivolto contro di noi.

Lo shock riverberatosi dopo l’11 settembre è del tutto comprensibile, come la mancanza di interesse o anche attenzione quando l’ammiraglio Sir Michael Boyce, capo della difesa britannica, annunciò la politica ufficiale angloamericana, riportata in maniera evidente in un articolo di paertura del maggior quotidiano al mondo: minacciò gli afgani che sarebbero stati bombardati in maniera devastante "fino a che la loro leadership non fosse cambiata", un quadro da manuale del terrorismo internazionale come è definito dalla legge USA.

Similmente, si capisce che non ci sia preoccupazione, forse un lieve rincrescimento, di fronte alla realizzazione di quella politica con la chiara consapevolezza che che avrebbe posto numeri elevatissimi di persone a rischio di morte d’inedia, milioni secondo i loro calcoli. In entrambi i casi – l’11 settembre e quanto vi è seguito – le reazioni sono naturali, sulla base dell’assunzione che la storia debba seguire il suo corso normale: NOI conduciamo atrocità inenarrabili contro di LORO, mentre la classe intellettuale loda se stessa ed i suoi leaders per la loro nobiltà d’animo. Questa è una bella fetta di storia, nel mondo reale.

Dopo l’11 settembre, gli USA hanno ridichiarato "guerra al terrorismo", adottando la stessa retorica dell’amministrazione Reagan venti anni prima, quando prese i suoi uffici dichiarando che il nucleo della politica estera americana sarebbe stata la "guerra al terrorismo", in particolare nella sua forma più virulenta, il terrorismo internazionale sostenuto dallo stato. Gli USA combatterono questa guerra costruendo una rete terrorista internazionale senza precedenti, e usandola con effetti letali in America Latina, Africa, Asia Occidentale e altrove, ciò che portò finanche alla condanna degli USA da parte della Corte Mondiale per terrorismo internazionale, condanna sostenuta da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, sottoposta a veto da parte USA, che invocava tutti i paesi ad osservare il diritto internazionale.

Per quanto riguarda il Sud America, si trattò solo di una continuazione dell’ondata di terrorismo internazionale spalleggiato dagli USA che fu avviata da John F. Kennedy nel 1962, quando spostò la missione militare in America Latina dalla "difesa dell’emisfero" alla "sicurezza interna"; non dovrebbe essere necessario sviluppare ulteriormente il significato di quel termine, e di come sia stato tradotto in pratica, sicuramente non in Brasile.

I leaders della prima guerra contro il terrorismo hanno un ruolo preminente nella sua reincarnazione odierna: per esempio, John Negroponte, che guida la diplomazia in seno all’ONU e ha acquisito esperienza di terrorismo quando vent’anni fa era vice-console in Honduras, dirigendo la guerra terroristica contro il Nicaragua per la quale il suo governo è stato condannato dalla più alte autorità internazionali; o Donald Rumsfeld, che dirige la componente militare della guerra per "schiacciare il terrorismo", come egli stesso la mette, e che apprese il fatto suo come inviato speciale di Reagan nel Medio Oriente, dove l’amministrazione Reagan ed il suo alleato israeliano vinsero facilmente il premio per il terrorismo in quegli anni.

 

È cambiato il mondo dopo l’11 settembre? In bene o in male, secondo te? E perché?

L’11 settembre è stato un evento storico. Per centinaia di anni, l’Europa e i suoi discendenti hanno condotto politiche di terrore su larga scala e compiuto atrocità in tutto il mondo. Per la prima volta sono stati il bersaglio di atrocità orrende, non l’agente. In maniera non sorprendente, la reazione è stata molto violenta, principalmente da parte USA e dal suo partner minore la Gran Bretagna, entrambe con grande esperienza nel trattare con le razze inferiori.

Ci vuole una buona dose di disciplina perché gli intellettuali occidentali "non notino" che la cosiddetta guerra al terrore è condotta da uno degli stati al mondo che è stato condannato per terrorismo internazionale dalle più alte autorità internazionali, la Corte Mondiale e il Consiglio di Sicurezza ONU (in una risoluzione sottoposta a veto dagli USA su cui la Gran Bretagna si è astenuta); e che esattamente le stesse persone che sono state condannate per questi atti terroristici, benché si siano impegnate in altri finanche peggiori, abbiano ruoli guida nella seconda "guerra al terrore": La prima fu dichiarata venti anni fa dall’amministrazione Reagan con buona parte di questa stessa retorica. E non c’è alcun bisogno di prendersi il tempo di descrivere il modo in cui fu condotta, sicuramente non in America Latina.

Questa non è affatto diversa. L’attacco contro i civili afgani è stato selvaggio e distruttivo, ma passa senza particolare considerazione perché è semplicemente la norma storica. E come nel caso della prima guerra al terrore, la seconda è abbracciata da stati che cercano autorizzazione per le loro atrocità. La Russia, per esempio, è un partner entusiasta perché vuole che gli USA ne supportino il terrore in Cecenia, ed altri elementi crudeli e repressivi in tutto il mondo intravedono una "finestra di opportunità" per dare impulso ai loro crimini o imporre programmi reazionari.

Il fenomeno è planetario, e prende diverse forme. È stato duramente condannato dalle organizzazioni per i diritti umani e c’è una resistenza sostanziale da parte delle popolazioni. Ma in generale è difficile negare che il mondo è cambiato in peggio, almeno temporaneamente, come risultato delle atrocità terroristiche dell’11 settembre. I responsabili non solo hanno commesso crimini orribili, ma, come si comprese immediatamente, hanno inferto un colpo molto serio contro i poveri ed i sofferenti di tutto il mondo, e contro la democrazia ed i diritti umani.

Vi sono nuove forze per opporsi all’egemonia degli USA nel mondo e per ricostruire un quadro simile a quello di anni fa con l’URSS?

Prima del crollo sovietico, c’erano due dominatori mondiali, gli USA, di gran lunga più potenti, e l’URSS in funzione più o meno di partner secondario nel controllo planetario. Le guerre di quel periodo non erano guerre tra le superpotenze. Piuttosto ciascuno usava la minaccia dell’altro come pretesto per ricorrere al terrore e alla violenza per il controllo dei loro imperi. Ciò è rivelato in maniera limpida dagli archivi interni e anche dagli avvenimenti storici. Per l’occidente, la guerra fredda fu una continuazione di ciò che a volte si chiama conflitto Nord-Sud, che di solito andava sotto il nome di "imperialismo europeo".

In questo modo, le politiche sopravvivono alla guerra fredda senza troppi cambiamenti, esattamente come erano impostate prima. Di fatto il conflitto oriente-occidente aveva alle sue radici molte delle caratteristiche dei conflitti nord-sud. È vero che ciascuna superpotenza sfruttava cinicamente i conflitti nel campo altri ma questo è un fatto secondario. Un aspetto di questo cinismo è diventato di fatto la caratteristica più prominente degli affari mondiali negli ultimi mesi. Solo gli intenzionalmente ciechi non conoscono le radici dell’islamismo radicale (compresi i nemici attuali): chi lo ha alimentato e allevato, e perché.

Nessuno vorrebbe vedere un sistema di quel tipo ricostruito e non c’è fortunatamente alcun segno che ciò stia accadendo. Ciò che si è andato sviluppando per molti anni – piuttosto chiaramente nel corso dei decenni passati – è un ordine mondiale che è economicamente tripolare e militarmente unipolare.

L’Europa e l’Asia sono approssimativamente sullo stesso piano degli USA economicamente e da altri punti di vista, ma gli USA sono sempre più soli come potenza militare. La scuola dominante di relazioni internazionali – chiamata "realista" – prevede la formazione di coalizioni che si contrappongano a quello status di unicità. Ciò è senz’altro possibile. Il mio punto di vista, comunque, è che le costruzioni teoriche sono così deboli e l’evidenza empirica così ambigua che le predizioni sono spesso difficilmente attendibili; e che altri fattori, non considerati in questi approcci basati sugli stati, sono molto più significativi: per esempio quelli che si stanno coagulando a Davos e a Porto Alegre.

Ciò che ragionevolmente si può sperare, penso, è un sistema mondiale di tipo completamente diverso. Sulle questioni di importanza centrale – per esempio la "globalizzazione" – la maggioranza della popolazione USA si oppone alla "egemonia USA". Questa è la ragione per cui la loro organizzazione e realizzazione devono essere condotte in segreto – cioè di nascosto rispetto alla popolazione generale; i ricchi ed i potenti ne sono al corrente e vi sono drettamente implicati. I fronti di confronto principali non vedono la contrapposizione tra USA e resto del mondo. Sono trasversali rispetto agli stati. Ciò è vero sia a Davos che a Porto Alegre, che rappresentano elementi diversi del sistema globale.

Hai citato Tucidide dicendo "le nazioni maggiori fanno quello che vogliono, mentre le piccole accettano quello che devono". Quali sono le conseguenze di lungo periodo della situazione attuale per i vari continenti e paesi? Quale potrebbe essere l’effetto per il Sud America, per il Brasile e perché?

La massima di Tucidide non si applica più con la forza che aveva in passato, grazie ai progressi della civilizzazione, che hanno condotto a porre dei limiti da parte della popolazione alla violenza degli stati – molto meno di quanto vorremmo ma in maniera molto chiara ed evidente nell’arco della generazione passata. La maggior parte della popolazione mondiale ha molto da guadagnare estendendo questi vincoli e riducendo il potere statale e le concentrazioni di potere privato che vi sono strettamente connesse; dal mio punto di vista smantellarle. Più ciò si verifica, meno la massima ha valore.

La globalizzazione, nella versione di Porto Alegre, può essere un fattore rilevante nel proteggere le nazioni minori, così come le loro popolazioni, grandi e piccole. A parte questo fattore cruciale, la cooperazione sud-sud può essere un fattore indipendente che fornisca un mezzo di difesa per le "nazioni minori" – non minori in quanto a popolazione, voglio dire, ma nel controllo delle ricchezze e nei mezzi violenti.

Sostieni che gli Stati Uniti sono uno stato terrorista di primo piano. Senti che gli USA stiano ora guardando ad una politica estera diversa? Vedi la possibilità di cambiamenti positivi?

È fuorviante affermare che sono io a fare quelle affermazioni. Mi limito a ripetere il giudizio della Corte Mondiale e del Consiglio di Sicurezza e ad applicare la definizione ufficiale di "terrorismo" alle azioni del governo USA, che sono ben difficilmente di interpretazione controversa.

In questo modo sostengo ciò che ogni persona informata sa, anche quando preferiscono non dirlo.

Possono esserci cambiamenti positivi? Certo. Di fatto ce ne sono stati. Nessun presidente USA potrebbe oggigiorno intraprendere l’aggressione che John F. Kennedy lanciò 40 anni fa, senza sollevare alcuna protesta visibile o il minimo interesse. Il paese è diventato molto più civile, una conseguenza dell’attivismo degli anni 60, e anche di più negli anni successivi. Non c’è ragione per cui quelle tendenze non debbano persistere, come hanno fatto durante buona parte della storia – fortunatamente, per quelli di noi che vivono oggi.

Il governo americano ha chiamato la guerra in Afganistan "guerra contro il terrorismo". Credi che questo tipo di azione militare sarà efficace contro il terrorismo?

Alcuni fatti elementari mi sembrano di rilievo. La "guerra contro il terrorismo" è stata dichiarata – di fatto ridichiarata – proprio dallo stato al mondo che è stato condannato per terrorismo internazionale dalla Corte Internazionale di Giustizia e che ha posto il veto ad una risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU che chiedeva ad ogni stato di osservare il diritto internazionale, tenendo a mente la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia.

Tra i partecipanti più entusiasti a questa guerra vi sono alcuni stati con un passato scioccante di atrocità terroristiche. La Russia, per esempio, è ben felice di unirsi, ben prevedendo che la superpotenza regnante autorizzerà la sua guerra perversa in Cecenia; la Cina segue per ragioni simili. La Turchia è stata il primo paese ad offrire delle truppe. Il suo Primo Ministro ha spiegato che la Turchia lo faceva per gratitudine verso Washington per l’aiuto decisivo nella sua guerra micidiale contro la popolazione curda, una delle peggiori pulizie etniche e atrocità simili degli anni 90, facendo affidamento su un flusso immenso di armi da parte dell’amministrazione Clinton. E così via, scorrendo la lista.

Ho detto "ridichiarato" perché la prima guerra contro il terrorismo fu dichiarata dall’amministrazione Reagan quando prese i suoi uffici vent’anni fa, con una retorica molto simile a quella odierna e una continuità di personale considerevole. L’inviato speciale di Reagan in Medio Oriente, dove l’amministrazione era uno sponsor principale di massicce atrocità terroristiche, è ora in carica della componente militare della guerra rinnovata. La sua componente diplomatica è guidata in sede ONU dall’uomo che fu "viceconsole" in Honduras, incaricato di organizzare la guerra terroristica contro il Nicaragua per la quale gli USA sono stati condannati dalle più alte autorità internazionali – senza effetto, chiaramente. Altre figure leader della "guerra al terrorismo" reganiana hanno pure un ruolo preminente in questi giorni. Negli annni 80 combattevano quello che il presidente chiamava "il flagello maligno del terrorismo" costruendo una rete terrorista internazionale di dimensione inaudita, con un costo in termini di vite umane che non è necessario riconsiderare, così come non è necessario considerare di nuovo le prodezze del passato in America Latina e altrove. La storia continua con pochi cambiamenti. È sufficiente comparare i destinatari principali delle armi e dell’addestramento USA con i rapporti sui diritti umani delle maggiori organizzazioni internazionali, finanche il Dipartimento di Stato. Né gli USA sono gli unici, a parte la scala.

Questa rinnovata campagna deve essere valutata nel merito. Ma qualunque cosa sia, non può essere chiamata seriamente "guerra contro il terrorismo". George Orwell si rivolterebbe nella tomba a questo pensiero.

Esiste una definizione ufficiale di terrorismo, per esempio nel diritto statunitense e nei manuali dell’esercito. È una definizione giusta, ma non può essere usata, perché se lo fosse condurrebbe a conclusioni intollerabili, come quelle appena citate. Perciò il termine "terrorismo", in pratica, si riferisce al terrorismo che LORO conducono contro di NOI, chiunque NOI siamo. Questo è probabilmente un universale storico. Finanche i peggiori killer adottano questa pratica. I nazisti, per esempio, si dipingevano e senza dubbio si percepivano come difensori della popolazione e dei governi legittimi dai "partigiani terroristi guidati dall’estero". Non è necessario menzionare esempi recenti nella parte meridionale dell’America Latina.

Con questa idea in mente, l’azione militare contro il "terrorismo" può essere certamente efficace. Il "contro-terrorismo" nazista fu efficace. Esistono esempi drammatici.

 

Cosa è cambiato nella maniera in cui gli USA conducono i loro conflitti negli ultimi anni?

Chiaramente ci sono stati dei cambiamenti con il crollo della seconda (e molto più debole) superpotenza. Ciò ha portato a degli aggiustamenti della tattica, ma non a cambi radicali, come fu immediatamente evidente. Subito dopo la caduta del muro di Berlino, gli USA invasero Panama, uccidendo probabilmente migliaia di persone, ponendo il veto a due risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU ed installando un regime fantoccio di banchieri e narcotrafficanti (il narcotraffico conobbe un incremento fortissimo, come fu rivelato da rapporti al Congresso e di altro tipo).

L’obiettivo era sequestrare un delinquente diventato all’improvviso disobbediente. Era stato condannato in Florida per crimini commessi quando era sul libro paga della CIA ed era oggetto di encomio da parte dell’amministrazione Reagan per l’onestà delle elezioni che aveva rubato con la frode e la violenza.

Tutto ciò era così usuale da essere appena una nota a piè di pagina della storia, ma con due differenze. Primo, i pretesti erano diversi. L’invasione non era "per difendersi da un avanposto dell’impero sovietico, che cercasse di conquistare l’emisfero e distruggerci". Piuttosto, era per difendere i narcotrafficanti ispanici. E come osservò immediatamente Elliot Abrams, ex funzionario di Reagan, era la prima volta che gli USA potessero far uso di forza senza preoccuparsi di una eventuale reazione sovietica da qualche parte nel mondo.

La stessa cosa si può dire dell’esercizio di forza successivo, contro un gangster ancora più brutale che gli USA e la Gran Bretagna avevano allegramente sostenuto nelle peggiori atrocità, ma che doveva essere punito per il suo primo crimine serio: la disobbedienza. La guerra in Iraq non fu presentata come difesa dai Russi, e gli USA e la Gran Bretagna non avrebbero mai osato dispiegare forze di terra ingenti se fosse esistito un qualsiasi deterrente. La stessa cosa vale al giorno d’oggi.

Altri cambi hanno riguardato la posizione strategica generale, con l’ammissione di per sé interessante della falsità dei pretesti tradizionali e il riconoscimento aperto che il vero nemico era il nazionalismo indipendentista del Sud. Ciò era chiaro da documenti interni da anni, ma si cominciò allora a riconoscerlo apertamente, essendo scomparso il pretesto sovietico. Le strategie nucleari cambiarono ugualmente, con un’enfasi maggiore sulle armi mirate al Sud "ricco di obiettivi" piuttosto che all’Unione Sovietica "ricca di armi", nel linguaggio del Pentagono.

Ho trattato tutto ciò in dettaglio altrove, sia la ricca documentazione negli archivi che gli eventi stessi, e non posso fare lo stesso qui.

Come dovrebbe reagire il mondo al terrorismo internazionale?

Il terrorismo internazionale è un crimine, spesso terribile. La risposta appropriata sono le indagini per scoprire i responsabili, che dovrebbero essere rintracciati per essere sottoposti ad un giusto processo. Ciò è vero che si tratti di rapina o dei crimini dell’11 settembre. Oppure dei crimini del terrorismo internazionale sui cui agenti non c’è mai stato alcun dubbio. Esiste una lunghissima lista.

Per nominarne giusto alcuni: il bombardamento del quartiere El Chorillo di Panama da parte di Bush padre, che ha ucciso probabilmente migliaia di persone. Il bombardamento da parte di Clinton di un impianto per la produzione di farmaci in Sudan, che ha condotto a decine di migliaia di morti secondo le sparute analisi compiute (l’ambasciata tedesca in Sudan, il direttore regionale della rispettata Fondazione Medio Oriente); la guerra terroristica contro il Nicaragua che lasciò decine di migliaia di morti ed un paese devastato, forse in maniera irrecuperabile, un caso privo di controversie alla luce del giudizio pronunciato dalle più alte autorità internazionali; o crimini molto peggiori dei terrorismi sostenuti dagli stati che vengono facilmente alla mente. Non dovrebbe essere necessario entrare in dettagli sul Brasile, il primo obiettivo del terrorismo di stato sostenuto dagli USA dopo l’inversione di ruolo dei militari in America Latina e le azioni della sua amministrazione per porre le basi del colpo di stato militare del 1964, che fu salutato dall’ambasciatore Lincoln Gordon come una "ribellione democratica" che fu "la vittoria singola della libertà maggiormente decisiva alla metà del XX sec.", ben dopo che le sue tristi conseguenze erano divenute note.

In nessuno di questi casi le vittime hanno avuto un qualunque diritto morale o legale di ricorrere alla violenza per punire i sospetti terroristi, o finanche coloro la cui colpevolezza è certa al di là di dubbio. E certamente non esiste il diritto di punire delle popolazioni civili per costringerle a consegnare i sospetti criminali, in accordo con l’appoggio fornito da USA e GB al terrorismo internazionale. Cuba per esempio non ha alcun diritto di portare bombardamenti o il bioterrore in USA, anche se si è trattato forse dello stato fatto maggiormente bersaglio del terrorismo sostenuto dallo stato americano dal 1959. Né Haiti ha il diritto di fare lo stesso, anche se gli USA si rifiutano di estradare un criminale condannato che capeggiò le forze paramilitari che assassinarono brutalmente migliaia di persone durante un regime imposto attraverso un golpe che ricevette il tacito supporto da parte dell’amministrazione del primo Bush e di Clinton. Né ciò sarebbe legittimo in casi finanche peggiori.

Quando l’occidente è all’origine del terrorismo internazionale, siffatte reazioni sarebbero considerate oltraggiose e deprecabili e abbastanza giustamente. È la tautologia morale più elementare il fatto che se alcune misure sono considerate legittime quando applicate ad un nemico, dobbiamo accettare che questi le applichino a noi stessi. Quando i poveri ed i privilegiati saranno capaci di accedere a questo livello minimo di integrità morale sarà possibile discutere il problema seriamente. Fino a che un simile cambiamento rivoluzionario non abbia avuto luogo continueremo a vivere nel mondo descritto migliaia di anni fa da Tucidide, un mondo in cui i grandi e potenti fanno quello che vogliono ed i deboli soffrono poiché devono, mentre un clero laico guida il coro di elogio per i leaders, esaltando la "nobile epoca" dei loro sforzi esteri e la sua "aurea santa", per prendere in prestito una parte della fraseologia di commentatori rispettati dai maggiori quotidiani al mondo.

Uno dei trionfi più significativi dell’imponente sistema di propaganda occidentale è che è finanche credibile quando afferma queste tautologie fattuali e morali. Uno si potrebbe aspettare che esse debbano essere comprese automaticamente, senza il bisogno di un commento qualunque, in particolare tra le vittime tradizionali. Sfortunatamente non è così e, per di più, non è così strano. La schiavitù, l’oppressione delle donne e della classe lavoratrice ed altre gravi violazioni dei diritti umani sono state capaci di resistere in parte perché le vittime hanno interiorizzato i valori degli oppressori, in molti modi. Per questo "risvegliare la ragione" è spesso il primo passo verso la liberazione.

Quali interessi economici si celano dietro la campagna antiterrorista americana?

Bisogna ricordare che la "guerra al terrorismo" fu dichiarata 20 anni fa, dall’amministrazione Reagan, pressappoco negli stessi termini del suo revival del settembre 2001 e con buona parte degli stessi attori principali. Esistono interessi economici, come in ogni questione politica di rilievo, ma servono prevalentemente come una maschera per altri obiettivi, come già la "minaccia comunista" quando era ancora possibile invocarla senza cadere nel ridicolo.

La prima "guerra contro il terrorismo" fu usata come pretesto per una ampia campagna di terrorismo internazionale, principalmente in America Centrale, ma anche in Medio Oriente, Repubblica Sudafricana ed Asia. E la "guerra" attuale viene usata per scopi simili ma anche per stabilire una forte presenza militare americana in Asia Centrale, importante per le sue risorse energetiche e la posizione strategica.

Questo non significa negare che l’esistenza del terrorismo è una minaccia. È molto reale. Per centiania di anni l’Europa e le sue propaggini hanno goduto di un monopolio virtuale della violenza internazionale in cui erano coinvolte: l’India non attaccava l’Inghilterra, né il Congo il Belgio, né le Filippine gli Stati Uniti e così via. Ciò è cambiato ora, pur se solo in forma limitata. L’Europa e le sue propaggini possono ora essere il bersaglio, per la prima volta. In questo senso, l’11 settembre è stato un evento storico: non per la dimensione delle atrocità ma per la direzione in cui la pistola è stata puntata.

Che tipo di influenza pensi che abbia oggi l’industria delle armi nordamericana sulla politica del presidente Bush? Concordi con l’opinione che le azioni guerresche degli USA continueranno a causa delle relazioni tra Bush e questo settore industriale?

Bisognerebbe considerare che "l’industria delle armi" è di fatto un’industria di alta tecnologia. La famosa "nuova economia" si è sviluppata in parte sotto l’ombrello della spesa militare: ciò comprende i computers e l’elettronica in generale, le telecomunicazioni e le tecnologie dell’informazione (inclusa internet), l’automazione, i laser, l’aviazione civile (da cui l’immensa industria del turismo), il trasporto in container e molto altro. Finanche l’ampio progetto di ingegneria sociale centrato sull’urbanizzazione è stato condotto in larga parte con il pretesto della "difesa". Questa è la ragione principale per cui gli USA insistono sulle "esenzioni di sicurezza nazionale" nel mal denominato "accordo sul libero commercio": queste esenzioni permettono al vasto sistema di misure di intervento statale sull’economia di continuare ad esistere senza l’impedimento dovuto ai principi neoliberali – che, nella forma tradizionale avuta nel corso di più secoli, sono in larga parte un’arma puntata contro i poveri.

Naturalmente, il sistema del Pentagono ha altri scopi, e li si dichiara piuttosto francamente. Il Comando Spaziale USA, per esempio, giustifica il suo programma per la militarizzazione dello spazio come necessario per proteggere gli interessi commerciali e gli investimenti USA, evidenziando – correttamente – che nel passato gli eserciti e le flotte furono sviluppati per le stesse ragioni. Le relazioni dell’amministrazione Bush con questo settore sono in qualche modo diverse da quelle di altri presidenti, ma non molto. Tutti sono impegnati per gli stessi obiettivi di controllo globale e di conservazione della condizione dinamica di questo settore dell’economia per socializzare i costi ed il rischio allo stesso tempo privatizzando il profitto ed il potere – "il capitalismo esistente nella realtà".

Il presidente Bush è l’uomo giusto al momento giusto, come dicono recenti sondaggi popolari?

La domanda presuppone che ciò che sta facendo sia corretto e ciò può essere accettato solo da coloro che sono a favore del terrorismo, della violenza e di atrocità su larga scala. Per quanto concerne i sondaggi, suggerirei cautela. Quando le persone sono interrogate sul loro supporto all’uso della forza contro i responsabili delle azioni terroriste dell’11 settembre, in proporzione schiacciante mostrano sostegno. Quando gli si domanda se sostengono l’uso della forza contro civili innocenti, i numeri diminuiscono drasticamente.

Per di più, sono i lettori più attenti della stampa, che si affidano anche a fonti differenti, sono coscienti del fatto che USA e GB hanno intrapreso le loro azioni pur nella previsione che avrebbero condotto numeri elevetissimi di persone al limite della morte di fame, o oltre. Quattro mesi dopo, la distribuzione di cibo e di altri aiuti che si necessitavano in maniera disperata è a stento cominciata, nonostante ampie quantità fossero disponibili per mesi. E finanche i media più diffusi riferiscono che il paese sta tornando sotto il controllo degli stessi signori della guerra che commisero crimini talmente orrendi agli inizi degli anni 90 che gran parte della popolazione accolse con favore i talebani.

Non sapremo mai se le terribili previsioni degli strateghi della guerra si siano rivelate accurate. Questi sono crimini occidentali, e perciò non presi in considerazione. L’opinione pubblica occidentale sa o si interessa di sapere quante persone sono state vittima della prima guerra contro il terrore guidata dagli USA? O di quanti furono uccisi nel solo bombardamento del quartiere El Chorillo, per menzionare giusto un dettaglio? Sono migliaia di persone come i panamensi hanno sostenuto? Importa?

Ma il conto è sicuramente alto e le sole stime qualificano queste azioni come crimini scioccanti. Diamo una valutazione di un’azione e dei commenti su di essa sulla base delle previsioni nel momento in cui fu intrapresa. È una tautologia morale. Si spera per il meglio naturalmente ed esistono alcune ragioni di ottimismo, ma queste speranze poggiano su pressioni popolari ed un impegno attivo significativi, prevalentemente nei paesi più ricchi e potenti.

Come vedi "l’onda di democratizzazione"? Cos’è la democrazia? Dove ci sta portando?

La vedo più o meno come la vede il pubblico in USA e in America Latina. I sondaggi mostrano un desiderio di democrazia, ma la riduzione costante della fiducia in ciò che si chiama "democrazia". Ciò è vero in America Latina da quando "l’onda di democratizzazione" è cominciata, e con buone ragioni.

Come mise in evidenza il politologo argentino Atilio Boron anni fa, la "democratizzazione" coincideva con il neoliberalismo, che mette in forse la democrazia. Lo stesso è vero per gli USA da quando sono stati soggetti alla propria forma di "neoliberalismo" degli ultimi venti anni. Dopo l’assunzione del potere da parte di Reagan, il numero di coloro che credono che il governo favorisca "pochi interessi specifici", non il "popolo", salì immediatamente dal 50% all’80% circa.

Alla vigilia delle elezioni presidenziali del novembre 2000, circa il 75% della popolazione non le prendeva sul serio, rigettandole come cosa di ricchi finanziatori, boss di partito e dell’industria delle relazioni pubbliche, che plasma candidati in grado di produrre parole prive di senso che possano attrarre elettori. Ma devono tenersi alla larga dalla questioni serie, perché attorno ad esse l’opione pubblica tende ad allontanarsi piuttosto nettamente dalla posizione unanime di entrambe le fazioni del partito degli affari. Il pubblico generale sembra esserne ben conscio, in tutto l’emisfero, a giudicare da studi sull’opinione pubblica ed altri fenomeni.

Non c’è ragione perché questo debba continuare, naturalmente. È solo una fase in una lotta che sta continuando da centinaia di anni ed il pubblico generale ha riportato molte vittorie, accanto a sconfitte. Il ciclo comunque va in generale nella direzione della crescita, credo, sul lungo periodo.

L’Argentina ha seguito l’insegnamento liberale e oggi si trova di fronte al fallimento di quel modello. Il popolo ha reagito invadendo le strade. Ma il sollevamento sociale continua. Nelle mani di chi è il denaro che ha lasciato l’Argentina? Quale può essere l’esito di questa storia; e cosa potrebbe accadere ai paesi vicini, come il Brasile?

Per quanto concerne il denaro, la domanda merita di sicuro indagini e credo che si possa fare una congettura giustificata per rispondere. Come ho ripetuto nel corso degli anni, la fuga di capitali dall’America Latina è stata spesso dello stesso ordine di grandezza del debito. Molto del denaro che ha abbandonato l’Argentina è il rimborso del debito, perciò è nelle mani dei creditori: banche, istituzioni finanziarie ecc. Un’indagine del congresso l’anno scorso scoprì che le maggiori banche internazionali statunitensi stanno facendo da ponte per un flusso monetario immenso di provenienza illecita, tra queste banche profondamente coinvolte nelle vicende dell’America Latina, e suggerì che la stessa cosa valga per il sistema bancario internazionale. Ciò indica strade alternative da seguire.

In generale, l’idea implicita nella domanda è giusta: è una buona idea seguire le tracce del denaro e scoprire cosa gli sia accaduto e poi trarre le debite conclusioni, e non solo in Argentina. In confronto con altre regioni, in particolare l’estremo oriente, l’America Latina ha sofferto terribilmente per il fatto che i ricchi essenzialmente non abbiano obblighi. Ciò si vede dall’evasione fiscale, dalla fuga di capitali, dalle importazioni di beni di lusso piuttosto che beni di prima necessità e molti altri indicatori. Il risultato sarà sempre disastroso per la maggior parte della popolazione. Per quanto concerne il Brasile, il risultato dipende da se il popolo brasiliano saprà assumersi la responsabilità del proprio destino, in cooperazione con altri, altrove, che fronteggiano problemi simili. Cioè, dipenderà da se la popolazione mondiale sarà capace di porre in essere il tipo di globalizzazione che è più conveniente per i suoi interessi.

Potresti fornire un giudizio sugli stati che hanno relazioni di dipendenza con gli USA più strette, come il Messico? Potrebbero sperimentare un sollevamento popolare come quello argentino? Considerando il diritto di veto americano, esiste oggi una qualche alternativa percorribile o una possibilità che le economia in lotta diventino indipendenti?

Sul Messico non c’è bisogno di fidarsi del mio giudizio. Una valutazione esperta è stata fornita dall’Economic Policy Institute, un istituto di ricerca altamente rispettato di Washington, in un studio sugli effetti del NAFTA sulla classe lavoratrice. Lo studio fu pubblicato in occasione dell’apertura del Summit delle Americhe nel Quebec l’aprile scorso, assieme ad uno studio sull’effetto del NAFTA sui diritti dei lavoratori, prodotto da Human Rights Watch. Entrambi gli studi trovarono il NAFTA uno di quegli accordi che riescono a danneggiare la maggior parte della popolazione in tutte le nazioni che lo sottoscrivono. Ma questa era la storia sbagliata: la conclusione necessaria, pronunciata con orgoglio dai vari leaders (e quindi dalla stampa), fu che il NAFTA era stato un grande successo, che doveva fornire il modello per il pianificato FTAA (Free Trade Area of the Americas - Libero Scambio delle Americhe). Perciò i due studi principali furono soppressi, con la solita e strabiliante ubbidienza ed unanimità. Lo studio dell’EPI riscontrò che l’effetto sui messicani era il più severo, senza sorpresa. I salari erano diminuiti costantemente a partire dall’imposizione delle riforme neoliberali nel corso degli anni 80. Ciò continuò con il NAFTA, con un 25% di diminuizione nel reddito dei lavoratori e del 40% dei lavoratori autonomi, un effetto amplificato dal rapido aumento dei lavoratori senza salario. Effetti simili furono trovati in tutta l’economia, compresa la diminuzione dell’investimento complessivo (nonostante un largo aumento dell’investimento all’estero). Un settore ridotto divenne estremamente ricco e gli investitori stranieri prosperarono. Ufficialmente lo scambio aumentò ma si trattò solo di una decisione a tavolino, che considera gli scambi interni ad una stessa multinazionale a cavallo dei confini come "scambio", un’idea che i liberali classici avrebbero trovato scandalosa. I dettagli sono rivelatori ma non posso esaminarli qui. Sono confermati da altri studi indipendenti e di fatto riportati abbastanza accuratamente dalla stampa economica.

Ci sono già stati sollevamenti popolari in Messico. Gli zapatisti sono i più noti. In scala, il sollevamento più estremo, di gran lunga, è l’immensa fuga della popolazione al di là del confine, dove quelli che ce la fanno – molti no – lavorano per salari di miseria in condizioni illegali, facendo diminuire i costi dei beni per i consumatori e producendo profitti per l’economia agricola. Che il massiccio risentimento popolare possa incanalarsi e sfociare in un cambio sociale costruttivo è, come al solito, una questione di scelte e non di analisi.

Riferirsi al "potere di veto americano" è, ancora, altamente fuorviante. Qui "America" significa potere ideologico-politico-economico concentrato, che è contrastato dalla gran parte della popolazione interna attorno alle questioni che stiamo discutendo. Così il "potere di veto" è anche esercitato contro la popolazione degli Stati Uniti. Torniamo allo stesso problema. Nessuna risposta sensata può essere data a meno che non sfuggiamo alla presa dell’ideologia convenzionale e formuliamo le domande in termini corretti, non quelli dello scontro sociale ideologico. Quando ci riusciamo, raggiungiamo risposte piuttosto semplici ed importanti, penso, con molte conseguenze per la riflessione e l’azione.

Fonte: zmag.org/italy

Traduzione: De Simone

01/2002