LE PROVOCAZIONI DI MONSIEUR LATOUCHE.

Utili a un movimento un po' lento

"BISOGNA USCIRE non solo dalla mondializzazione ma anche dallo sviluppo, rompendo il giogo della dittatura dell'economia". Ecco un'affermazione che fa rizzare i capelli in testa ad ogni testa di sinistra che sia rimasta ancorata all'equazione che dice: sviluppo uguale progresso. Diciamo la verità: il "movimento dei movimenti", in Italia, soffre a causa di una crescita disarmonica: il suo "corpo" è grande e grosso, la sua "testa" poco esercitata e molto tradizionale. E con "corpo" e "testa" non si vuole alludere, come da tradizione, alla "base" e al "vertice", che sono problemi del passato, ma alla capacità di elaborazione e innovazione culturale, al guardare oltre gli schemi mentali del secolo scorso [si tratti di "marxismo" o di altro], alle opportunità di evadere da "agende", "scadenze", "documenti politici" d'occasione e discorsi da assemblea. Il che significa, anche, che i molti studiosi, docenti, intellettuali, artisti, gente delle professioni che si sente attratta dai forum sociali o altri luoghi del movimento, non trova posto, nel turbinio di assemblee e manifestazioni. È un bel problema.

Serge Latouche è un tipo bizzarro, all'apparenza. Intanto, quando ti incontra ti bacia tre volte, come i russi, anche se le sue frequentazioni e i suoi studi sono prevalentemente africani. Ma, soprattutto, Latouche, come si può facilmente ricavare dall'intervista di Jason Nardi [di Unimondo] che pubblichiamo qui a fianco, è uno che non conosce la diplomazia. E che, per colmo, scrive e dice cose molto scandalose, come la frase che citavamo all'inizio. Nei suoi libri [il celebre "I naufraghi dello sviluppo", edito in Italia da Bollati Boringhieri e che ogni "portoalegrino" dovrebbe leggere] e nelle conferenze che tiene instancabilmente in giro per la Francia e l'Italia. A proposito dell'abbandonare gli schemi mentali novecenteschi, Latouche è un campione.

Tutta la sua opera è, forse, riassumibile in questo: che l'attitudine occidentale, che considera la natura, gli animali e la stessa umanità come uno "strumento" da utilizzare per produrre qualcosa, per esempio un profitto, e che ha trovato il suo compimento nel capitalismo, e tanto più nella sua forma liberista attuale, è un vicolo cieco. E che, al contrario, è indispensabile e urgente "decolonizzare l'immaginario", cioè cancellare questa attitudine utilitaristica, a favore di un modo della vita sociale in cui l'economia sia ridotta al suo grado zero: quello della riproduzione della vita. Ciò che significa, letteralmente, mettersi in grado di ri-produrla anche nel futuro più lontano. E che, dunque, il Mercato si riduca, abbandonando la sua autonomia dogmatica, al mercato, cioè a una relazione di scambio non necessariamente mediata dal denaro. Perciò Latouche è uno tra i maggiori conoscitori dell'"economia informale" africana, nonché studioso di quelle forme di scambio che in Italia si chiamano "banche del tempo" e, in Francia, Sel [Systèmes d'exchange libres].

Ed è da questo punto di vista che Latouche guarda, come nell'intervista, al Forum sociale mondiale di Porto Alegre, lamentandone l'eccessiva "occidentalità" ["L'occidentalizzazione del mondo" è un altro dei suoi libri]. Perché, sostiene, non ci sarà uscita dal liberismo, o dal capitalismo, senza rifiuto di quello sviluppo che, invece che progresso civile, provoca irrimediabile distruzione dell'ambiente naturale e umano.

Si può aderire a questo modo di vedere le cose, si può criticarlo. Ma non si può, come buona parte del movimento, nel suo dibattito, fa, ignorarlo. E infatti una parte almeno non lo ignora affatto. All'importante "colloquio internazionale" che Latouche ha promosso, a Parigi, a fine febbraio, partecipano, tra persone di molte nazionalità, gli italiani Tonino Perna, Francesco Gesualdi, Maurizio Meloni: persone variamente legate, non per caso, alle reti del commercio equo e di Lilliput.

[Pierluigi Sullo]

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Anche il Forum sociale mondiale va "de-occidentalizzato", perché, se si vuole essere contro la globalizzazione liberista, bisogna anche essere contro la sua radice: lo sviluppo

intervista a Serge Latouche raccolta da Jason Nardi

INCONTRIAMO SERGE LATOUCHE il giorno prima della chiusura del Forum di Porto Alegre. Sorriso sornione, bastone e basco francese, cammina a braccetto con Wolfgang Sachs, studioso ambientalista tedesco, tra la folla coloratissima che gira in tutte le direzioni all'interno della Puc, la Pontificia Università Cattolica. Il rumore è assordante [ci sono anche gli "arancioni" buddisti che cantano sulla musica di sottofondo e le grida di manifestanti assortiti che occupano l'intera scalinata di accesso], per cui ci rifugiamo in una saletta vetrata vicino al centro stampa. Mentre Latouche parla, fuori c'è il "movimento".

Il secondo Forum sociale mondiale di Porto Alegre ha mostrato l'esplodere di presenze e iniziative oltre ogni ottimistica previsione. È segno della maturazione dei movimenti mondiali? Quali sono le tue impressioni?

L'esplosione è evidente e molto soddisfacente, perché questo vuol dire che molte persone hanno deciso di contestare la mondializzazione liberale. L'obiettivo di questo Forum è quello di fare delle proposte costruttive, dunque si tratta di fare un programma.

Ma ci sono due questioni. La prima è che credo sia difficile fare un programma in 50 mila persone, con 700 laboratori e decine di seminari e conferenze. È evidente che gli organizzatori hanno già steso un programma e deciso prima del Forum che cosa debba venir fuori, e questo è un forte limite. Abbiamo anche parlato di sviluppo e sottosviluppo, c'è un consenso contro la mondializzazione liberale, c'è una crescente coscienza delle ineguaglianze, della povertà, della distruzione ambientale, ecc. causate dalla globalizzazione, ma nelle discussioni sembra che pochi ricordino che anche prima della globalizzazione, che è un processo recente, lo "sviluppo" ha causato gravi ineguaglianze e povertà diffusa. Dunque, si pensa che la soluzione per battere la globalizzazione sia di tornare allo sviluppo dei paesi impoveriti, quando invece dovremmo fare una severa analisi critica del concetto stesso di sviluppo, e anche di quello che chiamano "sviluppo sostenibile", per rimettere in questione le ragioni profonde della mondializzazione liberale e non per sostituirla con una globalizzazione un po' meno selvaggia.

La seconda questione è la rappresentanza a questo Forum: ci sono degli occidentali d'Occidente, più un numero di invitati da altri paesi, come qualche africano occidentalizzato per rappresentare l'Africa. E poi abbiamo visto alcuni indigeni vestiti come indiani con le piume, e sembra che siano qui semplicemente per "fare l'indigeno".

Dunque, secondo te, il problema della rappresentanza non è stato risolto e l'effetto moltiplicatore è limitato ai movimenti "occidentalizzati".

È normale - in fondo si tratta di una critica occidentale al sistema occidentale. Ma, in un certo senso, i "veri" contestatori sono i fondamentalisti islamici, che non sono qui e non hanno qui nessun rappresentante, un miliardo di persone che non sono rappresentate… e non è un loro problema, ma un nostro problema. Questa naturalmente non è una critica ma, sottolineo un limite; o meglio, è una critica perché bisogna essere coscienti che non stiamo rappresentando tutto il mondo, ma gli occidentali in America, Europa, e qualche altro paese.

Ci sono però dei movimenti sudamericani molto avanzati e non europei, come i Sem Terra, che hanno fatto un'analisi politica molto precisa e tracciato delle linee d'azione che coinvolgono direttamente le comunità di base.

Si è vero, e sono particolarmente vivaci e propositivi. Ma ci sono anche i vecchi movimenti comunisti come i trotskisti, i maosti, i guevaristi, che sono una caratteristica molto latinoamericana. Questo fenomeno non esiste quasi più in Europa, ma qui è ancora vivo e non aiuta il nuovo movimento.

Naomi Klein, nel suo intervento, ha affermato che bisogna smettere di usare la parola "società civile" e utilizzare invece "disobbedienza civile", segnalando con ciò una chiamata all'azione e la fine della "pazienza" dei movimenti sociali: questa sarebbe la novità. Sei d'accordo?

Sì, sono d'accordo, e metterei comunque sempre "società civile" tra virgolette, e ancor più "società civile mondiale". Spesso gli avversari, ossia i rappresentanti della Banca mondiale, del Fmi, della Wto, ecc., dicono: "Queste persone o questi gruppi pretendono di rappresentare la società civile ma non rappresentano nessuno, non sono stati eletti". Noi non pretendiamo niente di tutto ciò, e una cosa è certa: non abbiamo il potere. Se si è potuto dire che siamo la "società civile" è nella misura in cui, di fronte al potere mondiale rappresentato dalle istituzioni finanziarie, ci sono dei movimenti che sono l'emanazione della società civile, delle organizzazioni non governative. Chi contesta il potere non ha necessariamente bisogno di legittimazione. Chi detiene il potere, sì.

Davanti alla dittatura del mercato, al totalitarismo di questo sistema economico mondiale, occorre trovare forme di contestazione che possiamo chiamare disobbedienza civile.

Queste forme di contestazione possono essere non violente e legali, e allo stesso tempo considerate "disobbedienza"?

Alcune volte bisogna uscire fuori dalla legalità, quando questa è profondamente ingiusta e illegittima, perché una cosa è la legalità, un'altra la legittimità. Per esempio, il comportamento di José Bové durante il Forum dello scorso anno, quando ha distrutto parte di una coltivazione geneticamente modificata, è illegale, ma le piante transgeniche ci sono imposte in maniera illegittima, e dunque si trattava di contestare la loro legalità. È vero che non bisogna fare giustizia per conto proprio [ed è stato condannato per questo], ma penso che Bovè abbia avuto ragione di farlo perché è stato violentemente non violento… Bisogna andare fino al limite estremo della contestazione, perché una contestazione troppo rispettosa finisce per non essere una contestazione… bisogna dimostrare una certa forza nella resistenza. Quindi quest'idea di disobbedienza civile è valida ma bisogna capire esattamente e concretamente cosa si può fare e con quali mezzi.

Fonte Carta

28 febbraio 2002