Sisinnio Guido Milani
Nelle nostre analisi abbiamo registrato come la globalizzazione neoliberista abbia determinato profondi cambiamenti nel mondo nel corso degli ultimi anni.
La rivoluzione capitalistica restauratrice, per usare un ossimoro efficace, ha connotati differenti rispetto a fasi precedenti ed impone in forme più pervicaci, acute, violente, guerreggianti il dominio del capitale nel mondo intero.
Fino ad oggi (questa rivoluzione capitalista), ha creato uno spostamento dei rapporti di forza a favore del capitale e a discapito del lavoro. Sono ormai evidenti le profonde disuguaglianze e le ingiustizie, le enormi differenze sociali e le sproporzioni tra paesi ricchi e poveri, la concentrazione di potere e l’allontanamento delle masse dallo stesso, l’impoverimento decisionale dello stato nazione e l’ingerenza globale degli organismi a- democratici.
La fase presente della globalizzazione neoliberista appare con delle prime crepe. Qualcuno ha ricominciato a scrivere il "Libro della Storia" chiuso precocemente più di due lustri fa.
Dal 99 in poi milioni di persone nel mondo hanno ricominciato ad essere dei protagonisti sociali, occupandosi del presente e del futuro dell’umanità: parlo del "Popolo no-global", il movimento dei movimenti.
Alla spoliazione di civiltà, diritti, saperi e ricchezze da parte di organismi come il WTO, BM, G8, FMI, NATO, OCSE qualcuno si è opposto.
Questi organismi a-democratici impongono ricette "miracolose" ai paesi poveri, tagli al welfare dei paesi occidentali, patti di stabilità economica come quello europeo, privatizzazioni selvagge, fino ad arrivare al tentativo di cancellazione di sanità, previdenza e istruzione pubblica, infine, dettano ai ministri i vari Documenti di Programmazione Economica e Finanziaria. Organismi che determinano dall’alto l’esistenza umana nella quotidianità.
L’altro attacco alla civiltà perviene dal "basso". I Principi del mondo hanno capito che per avere un forte controllo sociale e un consenso diffuso, dovevano frammentare: il lavoro, il territorio, la società, i gruppi agenti all’interno delle stesse.
La frammentazione del lavoro è accompagnata dai processi di federalismo e di devoluzione, essi provocano gravi squilibri anche nei paesi sviluppati come il nostro.
Infatti, il nesso fra i nord ed i sud non è più sufficiente e completa base d’analisi; ad esso si deve aggiungere quello tra centri e periferie.
Nella società frammentata aumenta di conseguenza l’elemento della passivizzazione politica. E’ chiaro il distacco sempre più profondo tra società e mondo politico; un distacco che non si registra solo nel momento elettorale, ma anche nell’accettazione diffusa dei processi politici e istituzionali che peggiorano le condizioni di vita stesse del soggetto.
E’ del tutto evidente che la torsione bipolarista di stampo nordamericano presente anche nel nostro Paese non fa che acuire i processi di riduzione altissima di partecipazione e personalizzazione crescente non solo a livello nazionale, ma anche locale. Oltre a scelte bipartisan sui temi quali la guerra globale e permanente. Elementi che aumentano nella società civile un senso d’allontanamento e di credibilità nella politica.
Tutto questo è condito da una sempre più marcata forma di democrazia autoritaria, altro curioso ossimoro, che descrive efficacemente la tendenza in atto.
Il processo dello "stato minimo" ha la sua genesi nel "rapporto sulla governabilità" della Commissione Trilaterale redatto circa 20 anni fa, ma raccoglie proseliti dopo il crollo dell’URSS, e dopo una tendenziale diminuzione del c.d. "stato di benessere" nei Paesi Occidentali.
Uno degli obiettivi reali di questo progetto è di distruggere le conquiste dei lavoratori, infatti; in molti paesi è stata cancellata la Scala Mobile o istituti simili, si sta perdendo la sicurezza del e sul lavoro, la flessibilità è sempre più imperante, si svuotano di senso i diritti sociali, l’assistenza pubblica gravita sempre più sugli utenti. Oltre ai processi di privatizzazioni, sanità e istruzione sono le prede più ambite; feroce è altresì l’attacco alle pensioni maturate dai lavoratori.
Sotto un altro profilo si attaccano, qui e altrove secondo le circostanze e le possibilità, le organizzazioni di classe e quelle sacche antagoniste presenti nel globo.
Un problema complesso, per gli altri, in questa fase è proprio la governabilità, come coniugare il modello neoliberista, sempre più ineguale, alle istituzioni democratiche. Per assicurarsi che le maggioranze non prendano altre strade, (come per esempio era successo in Cile ai tempi di Allende), gli organismi a-democratici svuotano di potere i Parlamenti, come abbiamo visto nei campi economico, della sicurezza nazionale e del controllo dei mezzi di comunicazione.
Proprio i mezzi di comunicazione negli ultimi anni hanno assunto un ruolo fondamentale per la costruzione del consenso, e per la governabilità nei paesi a regimi economici neoliberisti. I media sempre più canalizzano il pensiero e gli atteggiamenti della gente, per usare una citazione di Chomsky "addomesticano il gregge perplesso", e sempre secondo Chomsky "la pubblicità sta alla democrazia come il bastone allo stato totalitario". Si è, infatti, costatato che il ‘catechismo’ politico più efficace è quello impartito al di fuori del campo e del linguaggio politici.
Il processo è visibile non solo attraverso l’acriticità dei media; concorrono al fenomeno anche le espressioni brutali di repressione da parte delle forze di Pubblica Sicurezza, usate con un nucleo di comando internazionale, come è avvenuto, per esempio a Ventimiglia, Napoli e Genova, e ovunque nel mondo ci siano state contestazioni agli organismi sopraccitati.
Dato il processo in atto la funzione dell’ente locale può assumere un ruolo ancora più decisivo nel nostro rapporto con la società, perché rappresenta anche il primo tramite tra istituzioni e cittadino.
La municipalità può e deve diventare un altro punto di riscossa; il riuscire ad immettere anche nelle decisioni amministrative punti di criticità e di scelta segnata da appariscenti elementi d’alterità, può ricreare una cultura politica e sociale egemone nel proprio territorio.
Nel contesto descritto abbiamo alle spalle un vuoto programmatico dell’intera sinistra mondiale. Non c’è stato totale immobilismo, dato che formulazioni e pratiche alternative esistevano ed esistono, ma non si sono materializzate in un progetto totalmente perfezionato e convincente; solo adesso assistiamo ad un disgelo politico, e a primi tentativi di ricostruzione di una base programmatica alternativa a quella neoliberista.
Già Gramsci criticava "il troppo realismo politico" perché, afferma "il realismo politico porta spesso ad affermare che l’uomo di Stato deve operare solo nell’ambito della ‘realtà effettuale’ , e che non deve interessarsi al ‘dover essere’, ma unicamente ‘all'essere’, il che implica che questi politici non sono capaci di vedere oltre la lunghezza del proprio naso". Noi, invece, dobbiamo dedicarci sempre come ha scritto Gramsci: "alla creazione di un nuovo equilibrio di forze", movendoci sempre nel terreno "della realtà effettuale, ma per dominarla e superarla (o contribuire a ciò)".
Nel corso degli ultimi anni la figura istituzionale della municipalità ha assunto un carattere sempre più evidente, non solo in Europa, ma anche in altri continenti, il caso più significativo è quello dell’america latina, anche se l’esperimento veneziano è un punto avanzato su questo.
Spesso i governi locali riescono a creare un progetto politico di coalizione che concede loro una fisionomia propria; altre volte i contenuti si annacquano, altre volte spariscono nella percezione delle persone.
Tra i nostri ruoli, come più volte ci siamo detti, c’è anche quello d’implementare la partecipazione alla politica ed alle sue scelte. Lo strumento delle municipalità può scardinare la concezione contraria oggi egemone.
Conosco le posizioni contrarie anche alla mia su questo, sulla trascendenza del lavoro nei governi locali, nel nostro Partito. Ho sentito anche settori più radicali, scettici sul possibile ruolo delle ente locale soprattutto nell’aggregazione di forze del cambiamento sociale, sostenendo che questi governi sono solo il paraurti alle politiche neoliberiste, io ritengo che affermazioni come queste siano in realtà dettate dalla situazione politica generale e dalla percezione della stessa.
Infatti, c’è chi pensa che si possa abbattere lo stato borghese nell’orizzonte immediato, e di conseguenza tende a sottovalutare il ruolo degli enti locali. Chi, come noi, pensa, invece, che viviamo in un periodo di rivoluzione restauratrice del capitale, che oggi abbiamo un grande svantaggio nel rapporto di forze a livello mondiale e locale, crede che si tratti di accumulare esperienza politica e organizzativa all’interno anche di relazioni in ambiti istituzionali locali al fine di preparare le condizioni per un cambiamento ulteriore.
Pertanto, valuto positivamente l’accesso del nostro partito all’amministrazione di un governo locale, considerandolo uno spazio che permette di creare condizioni culturali e politiche per progredire nell’organizzazione sociale.
E’, però, del tutto evidente, che i governi della sinistra devono rappresentare una reale alternativa.
E’ altrettanto evidente che i governi di destra mostrano tradizionalmente un profilo molto antidemocratico, ignorando totalmente i veri bisogni della propria popolazione oltre ad abusi e favori di potere. Noi dobbiamo, altresì, esercitare il potere a livello locale che vada nella direzione opposta; vale a dire ridare protagonismo alla gente, pensando proprio di "delegare" il potere alla popolazione.
Per creare questo però dobbiamo costruire una politica delle alleanze oculata, supportata da una proposta politica di governo per la città che interpreta i reali interessi e bisogni della stragrande maggioranza della popolazione. Bisogna capire che questo si può fare, oggi, solo in operazione d’alleanze, perché il nostro pensiero non è maggioranza, negando però ogni tipo di subalternità ad altri partiti o partitini.
Anche perché, io ritengo, non solo per gli enti locali, che il grado di egemonia non si misura esclusivamente dalla quantità di persone cui l’organizzazione politica dispone, bensì dalla quantità di persone che si sentono rappresentate dal progetto politico di quell’organizzazione.
E’, altresì, chiaro che non si chiude il tutto con la scelta del sindaco, ma bisogna anche ottenere un risultato più che soddisfacente sul terreno elettorale.
Un altro problema che ci ritroviamo sovente ad affrontare è la mancanza di relazione e coordinamento tra gli amministratori ed il Partito; l’esperienza porta a concludere che è necessario un organo di dialogo forte e continuo nei livelli provinciali, regionali e nazionale, per risolvere le inevitabili divergenze tra direzione partitica ed amministrativa. Questo organo, a mio avviso, deve anche pensare alle grandi linee di lavoro, facendo valutazioni e monitoraggi continui sul lavoro nelle amministrazioni, per correggere la rotta nel caso qualcuno perda la bussola, o se compaiono nuove situazioni che esigono virate di rotta non pianificate.
Questo sebbene si abbia una visione del governo locale e dei gruppi consiliari del partito di relativa autonomia, relativa autonomia che appunto non può essere assoluta o esercitata su questioni di principio, giacché si comprometterebbe l’agire del partito tutto.
Non si tratta di sottoporre a continua discussione tutte le decisioni, perché il ritmo delle Giunte comunali è molto più dinamico rispetto quello del partito, ma bisogna discutere collettivamente le grandi linee di lavoro, anche per non regalare la percezione ai nostri amministratori di essere avulsi dalle scelte e dalla discussione interna.
L’altro problema da analizzare è l’eredità che i nostri amministratori si trovano nel loro mandato. Le scelte ed i tagli imposte dal governo centrale, il personale insufficiente ed a volte demotivato o contrario all’amministrazione, casi di risse perpetue con parti della giunta, rendono evidente che non basta cambiare il guidatore perché lo stesso veicolo riesca a passare per le strade più impervie della partecipazione popolare; diviene imprescindibile cambiare anche il veicolo.
E’ necessario anche mutare il ruolo all’interno delle amministrazioni. Non è più sufficiente amministrare in maniera attenta e oculata, oppure fare un’opposizione severa, puntuale e battagliera, bisogna uscire dal concetto di resistenza dei fenomeni in via d’estinzione per passare all’offensiva. Un amministratore deve anche dispiegare conflitto e ricercare il consenso nel proprio territorio; l’alfabeto dei bisogni e dello stesso conflitto è cambiato, anche per noi s’impone un cambiamento per non difendere dei simulacri. Il percorso risulterà utile anche nella costruzione della sinistra d’alternativa. Costruzione che può arrivare solo dal basso per garantire alla sinistra d’alternativa di rappresentare un agente reale del cambiamento.
Questa è un operazione complessa, articolata ma vale la pena raccogliere la sfida.
Il neoliberismo impone alle amministrazioni locali la privatizzazione dei servizi pubblici, la razionalizzazione del personale, -già insufficiente in molti casi-, una diminuzione tendenziale delle risorse; a questo si aggiunge una nuova e feroce ondata di speculazione che aggredisce quotidianamente le amministrazioni con proposte devastanti. A tutto ciò quale può essere la risposta se non l’aumento della partecipazione politica e amministrativa?
Per vedere questo nuovo modo di amministrare dobbiamo innanzi tutto conoscere alcune esperienze avanzate presenti nel continente che il Che Guevara ci ha insegnato ad amare, -a me alla follia-: l’America Latina. La situazione generale esistente è molto più complessa e disgregata rispetto a quella europea; tuttavia oggi queste esperienze di "utopia realizzata" possono per noi rappresentare un modello imitabile e perseguibile.Tenendo presente che bisognerà approntare inevitabili differenziazioni date dalle diverse formazioni sociali sul piano sociale, economico, culturale e politico e sapendo (come ho saputo io andando a Porto Alegre) che la sinistra marxista latinoamericana nella sua pressoché interezza si è sviluppata in modo differente da quella europea negli ultimi 10 anni.
Inoltre, nel valutare queste esperienze, concordo con quanto afferma Allegretti, cioè: "senza limitarsi a leggerle e valutarle in termini di ‘modelli assoluti di governance’ e solo in base all’impatto avuto in termini economici, ma saperne esaminare benefici e limiti attraverso un’analisi a largo spettro di settori diversi dello sviluppo urbano ed in rapporto alle peculiarità dei contesti e dei momenti storici in cui prendono forma".
Questo ambizioso progetto nasce con l’intento di portare alla politica la popolazione partendo dal locale, e ridare protagonismo sociale soprattutto alle fasce deboli.
Il primo problema di queste giunte municipali era appunto quello di essere coerenti con la formulazione sopraccitata, cercando la forma esatta affinché il popolo potesse partecipare alla gestione amministrativa. Discutendo, in prima istanza, le misure da adottare, definendo le priorità d’intervento e criticando l’azione del governo e delle sue diverse direzioni amministrative. Il nodo più difficile da sciogliere era quello di riuscire a coniugare la creazione di nuovi spazi istituzionali per la partecipazione popolare, con il forte contributo che dovevano dare per lo sviluppo dell’organizzazione autonoma popolare, unica reale garanzia affinché il progetto strategico di una società socialista sia percorribile nel futuro. Questo non è stato compito facile.
Considerando che questi governi popolari quando trionfarono, si trovarono di fronte non solo a grande scetticismo e apatia della gente, ma nel frattempo a movimenti deboli, frammentati, non enormemente politicizzati, oltre a gente abituata al populismo, al clientelismo, a non ragionare politicamente, a chiedere.
Nelle prime assemblee popolari la lista di petizioni sorpassava altamente la capacità di risposte praticabili dei comuni. Capirono che non tutte le assemblee erano sinonimo di democrazia, non erano produttive, la gente non aveva l’informazione adeguata, insomma era spoliticizzata. La politicizzazione divenne il problema principale.
Infatti l’ex sindaco di Caracas Istùriz, afferma: "il problema fu come arrivare alla gente, come rendere fattibile la politicizzazione per tutti solo così si poteva acquisire la capacità di prendere decisioni. Per raggiungere l’obiettivo dovevamo informare tutti: la democrazia esiste solo quando la gente è ugualmente informata".
Un altro problema serio era che alle assemblee partecipavano per lo più gli attivisti e personaggi imbevuti di populismo e "caciaquismo", ma non altri, come potevano interessare gli strati della popolazione?
Col passare del tempo questi governi locali hanno capito quanto era fondamentale partire dalle necessità immediate della gente, e non da quelle che essi credevano fossero le necessità della gente, tenendo presente che spesso l’iniziativa creatrice del popolo ha dato soluzioni non pensate dall’amministrazione e risultate più convenienti.
La chiave di volta per arrivare alla base e motivare la partecipazione della gente al governo della città è stata la convocazione della popolazione per discutere e decidere sulle opere pubbliche che la giunta, d’accordo con le risorse, doveva realizzare con priorità.
Nelle elezioni comunali del 1988 vinse "l’Amministrazione Popolare", coalizione guidata dal Partido dos Trabalhadores (PT), riconfermata poi per la quarta volta di seguito nelle elezioni del autunno 2000 e dal 98 è alla guida anche della Stato del Rio Grande do Sul col suo uomo forte Olivio Dutra, che fu il sindaco della rottura a Porto Alegre.
La prima giunta si ritrovò con un apparato burocratico ereditato da 20 anni di dittatura, e da un’asfittica capacità di rappresentanza politica della classe dirigente. Investirono inizialmente non su un processo di rinnovamento urbano, ma di democratizzazione e di formazione della coscienza civica.
Porto Alegre si trova all’estremo Sud del Brasile, in un’area di confine con altri 3 Paesi della Comunità Economica del Mercosul, ed è una delle 9 metropoli del Paese con i suoi 1,3 milioni di abitanti che arrivano quasi a 3 nell’area metropolitana. E’ la capitale dello Stato cosiddetto ‘gaucho’ del Rio Grande do Sul, il terzo in ricchezza per contributi al PIL del Brasile, anche se solo 24° nella redistribuzione dei fondi di investimento attuata dal governo centrale. La struttura economica del Rio Grande do Sul ha visto crescere nel tempo fra le sue principali voci di produzione di reddito sia il commercio transfrontaliero di beni prodotti in altre aree del Brasile, sia il settore terziario avanzato e l’agricoltura. La stessa Porto Alegre – il cui prodotto interno è metà di quello della sua area metropolitana e oltre 1/6 di quello dello Stato – è fra le poche capitali brasiliane (e l’unica nel Sud) a possedere una produzione agricola del 5% all’interno dei confini comunali e – addirittura - il quartiere di Vila Nova è il principale produttore di pesche da tavola dell’intero Brasile. Oltre a ciò è un centro terziario di grande importanza, settore passato a rappresentare (dal 49% negli anni ’80) oltre il 64% del reddito cittadino, in parallelo alla forte crescita delle microimprese anche nel settore del commercio (sia all’ingrosso che al dettaglio), ambito di attività in cui la città eccelle su scala statale fin dal 1850.
Il principale strumento di questa operazione di ‘ricostruzione di senso’ della politica è stato il ‘Bilancio Partecipativo’ (in portoghese Orçamento Partecipativo o O.P., come per semplicità lo chiamerò nel seguito del testo), che è un processo di cogestione della città attraverso il suo Bilancio con il quale – per mezzo di livelli diversi di assemblee pubbliche in cui i più alti rappresentanti del potere locale sono costantemente e personalmente impegnati accanto ai cittadini comuni - mira a scoprire in forme collettive i diritti e i doveri di ogni abitante nella costruzione dei propri ambiti di vita, e tenta di ridare importanza al conflitto sociale e comunitario spesso da tempo ridotto a mero conflitto individuale.
Proprio su questo ‘progetto’ che ormai cresce e si trasforma da 12 anni, vorrei qui proporre alcune riflessioni, tentando dapprima di spiegarne brevemente il funzionamento, e poi esaminandone alcuni aspetti di solito poco rilevati.
Definire il Bilancio Partecipativo un ‘meccanismo di gestione cittadina’ è a rigore semplicistico, ed è forse l’errore che appiattisce molte descrizioni fatte di questo strumento a livello internazionale da istituzioni che – nel tentativo di appropriarsene intellettualmente – ne riducono il senso a quello di un ‘efficiente strumento di governabilità urbana’ decontestualizzato e meccanicamente riproducibile in altri contesti. Per questo nel seguito preferirò chiamarlo ‘percorso’ o ‘progetto’. Il Bilancio Partecipativo è, infatti, un percorso fatto di dibattiti successivi e aperti a tutti i cittadini che si applica alla costruzione degli indirizzi di spesa della porzione di Bilancio dell’Amministrazione Comunale definibile come ‘spese di capitale’, che comprende in pratica i fondi destinati agli investimenti in strutture e servizi in ambito cittadino.
A essere precisi, esistono due percorsi principali e paralleli di discussione e decisione allargata che compongono l’O.P: le Assemblee Regionali, organizzate sulla base di una suddivisione della città per ambiti territoriali, e quelle Tematiche, sulla base di 5 ambiti di dibattito a tema. A Porto Alegre vi sono attualmente 16 regioni in cui risultano aggregati oltre 80 quartieri; e queste a loro volta sono aggregate in 8 macroregioni per la pianificazione urbanistica e il dialogo sul bilancio con i livelli superiori a quello comunale, cioè metropolitano e statale.
L’anno solare è per entrambe articolato in due sessioni (rodadas), in cui si alternano momenti di partecipazione assembleare diretta e discussioni fra cittadini eletti in rappresentanza delle 16 regioni (o dei delegati di quartiere) in cui è diviso il territorio cittadino.
È utile sottolineare che le nomine dei delegati popolari avvengono in numero proporzionale alla partecipazione dei singoli quartieri (bairros) all’interno delle assemblee pubbliche di ogni regione. Per ogni 10 suoi cittadini presenti, cioè, un quartiere ha diritto ad 1 delegato che lo rappresenti: in tal modo viene premiato in sede regionale l’interessamento degli abitanti nei confronti del loro territorio di residenza. In un forum i delegati di quartiere (a cui spetta di mantenere il costante contatto con i territori di appartenenza) dialogano poi con i consiglieri di bilancio di ogni regione, che sono 2 per ognuna, in via equitativa (più dieci tematici), per non penalizzarne nessuna nella distribuzione dei fondi di investimento comunali.
Sono questi consiglieri (con i loro eventuali sostituti e alcuni membri di ONG cittadine) che discutono fra loro le priorità di bilancio presentate dalla popolazione durante le assemblee aperte all’intervento di tutti i cittadini., singoli o organizzati. E sono loro a presentare la proposta di programma di investimento all’amministrazione che lo fa proprio a seguito di vivaci discussioni tese a passare ai cittadini e ai loro rappresentanti tutte le informazioni tecniche e finanziarie necessarie per una seria valutazione del da farsi, anche attraverso appositi corsi di formazione sui meccanismi istituzionali previsti dalle Leggi Brasiliane per il governo ‘formale’ del territorio.
È nel momento di discussione e presentazione di quello che potremmo definire come il ‘Piano Popolare di investimento’ che meglio si legge l’integrazione dell’O.P. su ‘Base regionale’ con quello ‘Tematico’ (nato solo nel 1994), che serve a determinare i temi prioritari su cui convogliare quell’anno i principali interventi pubblici, anche attraverso la proclamazione di annate ‘a tema’ (dedicate al trasporto, alla pavimentazione o alla regolarizzazione fondiaria, ecc.) in cui l’obiettivo principale del comune è dare un taglio netto all’emergenza in precisi settori della vita cittadina.
Il processo - come si può facilmente verificare seguendo le decine di riunioni dei due turni semestrali (purtroppo il Forum Sociale Mondiale si svolgerà durante il periodo morto delle vacanze estive) - è aperto e trasparente in ogni fase della discussione, decentrata sul territorio e attenta ad una costante prossimità con i suoi abitanti. Esso consiste in una ‘piramide di ascolto differenziato’ tesa a garantire una voce a chiunque dimostri senso civico, ma anche a catturare sempre nuovi partecipanti desiderosi di impegnarsi nella costruzione della loro città, attraverso una capillare informazione e strategie di cooptazione di cui sia l’amministrazione che i movimenti urbani (tematici o areali) si incaricano in partenariato.
La coerenza con cui le politiche urbane tendono a riportare ogni intervento nella città al dibattito con e fra i suoi beneficiari ha permesso al contempo la scomparsa delle tradizionali politiche clientelari (che legavano anche molte favelas ai loro protettori politici con meccanismi di ‘do ut des’) e la crescita dell’O.P. sia in termini di diffusione territoriale che di intensità e maturazione dei processi. La ‘sana competizione’ fra quartieri per la captazione dei fondi comunali ha mostrato un’importante funzione pedagogica nella creazione di senso civico diffuso e di educazione ai tempi e ai modi di un dialogo costruttivo, aperto a tutti e quindi realmente democratico. I cittadini (come dimostrano i numerosi studi di valutazione del processo portati avanti in questi 11 anni) sono portati a cercare di comprendere la complessità dell’amministrare - al di là delle facili demagogie e delle attribuzioni unilaterali di responsabilità ai politici - e questi ultimi sono forzati costantemente a prendere visione diretta della complessità dei bisogni dei loro amministrati, evitando schematismi e riduzionismi astratti o mediati.
Lungi dal generare - soprattutto fra i più poveri - una ‘concorrenza’ esasperata e senza regole per la conquista di benefici nei loro ambiti di vita, l’O.P. ha rilevato con insperata concretezza la potenzialità di farsi luogo di comprensione complessa dei bisogni della città e di apprendimento della reciproca solidarietà, nel momento in cui la gerarchizzazione delle priorità rende necessario il confronto dei problemi, della loro gravità e del grado di urgenza della loro risoluzione. Non sono stati rari in questi anni i casi di comunità marginali poco coese o così piccole da avere poco peso numerico per la rivendicazione dei propri bisogni, che hanno trovato insperate alleate esterne in comunità consimili - o anche molto diverse ma aperte alla comprensione dei problemi altrui - per ottenere decisivi benefici risolutori.
La capacità di autorganizzazione e mobilitazione spontanea dei cittadini - pur importante - non esaurisce, infatti, i criteri decisionali usati nel processo di Bilancio Partecipativo. Essa ha trovato col tempo alcuni meccanismi riequilibratori delle possibili ingiustizie che cela ogni meccanismo che può tendere a legittimare i ‘poteri forti’ (di qualunque natura essi siano) e a ridurre la forza di quanti si trovino - per varie ragioni - ‘ai margini’ della società. Per convincere all’approvazione di questi meccanismi l’Amministrazione e i tecnici di Porto Alegre hanno dovuto lottare non poco. La tendenza dei partecipanti – infatti – era quella di rifarsi ad una sorta di ‘etica del lavoro’ per cui chi più attivamente partecipa più riesce a conquistare per la sua area di residenza. Arrivare a comprendere che proprio i più emarginati avevano difficoltà culturali e materiali a prendere parte al dibattito e quindi a difendere i propri diritti negati, è stata una ‘conquista’ lenta e faticosa avvenuta in anni di discussioni.
Questo prova quanto il Bilancio Partecipativo non costituisca un luogo di ‘delega di responsabilità’ dell’Amministrazione ai cittadini – così come spesso la società civile tende a leggere vari meccanismi formali di ‘partecipazione’ calati dall’alto o solo presenti nelle dichiarazioni d’intenti di molte Istituzioni locali o internazionali. Per come è strutturato, al contrario, esso costituisce un riequilibrio delle responsabilità nella gestione della città, ma tutt’altro che un luogo di riduzione delle stesse per il mondo politico, costretto ad un costante confronto con i suoi elettori, forzato a dimettere certi vantaggi unilaterali del governare, e responsabile esso stesso di come e quanto la partecipazione si sviluppa. Perché è evidente come la partecipazione non si autoalimenti; può – anzi - perdere forza e interesse se le conquiste che propone la società civile non trovano una concretizzazione ‘visibile’ nella gestione urbana e negli investimenti di fatto poi realizzati dall’Amministrazione. Questo impegno a Porto Alegre sembra essere stato il primo del Comune fino dal 1990, quando - con la Riforma dei Tributi Locali – l’Amministrazione Popolare ha triplicato le entrate del municipio, mettendo in atto una politica dei suoli molto dura contro le forme di speculazione che avevano lasciato il 41% della città un ‘vuoto urbano inutilizzato’. Attraverso questo impegno alla coerenza delle proprie politiche (ad esempio di quella fondiaria e abitativa, che di solito in Brasile sono sempre troppo scisse per dare risultati significativi per la popolazione in difficoltà) si è potuto dare risposte concrete ai solleciti di volta in volta presentati nel Bilancio Partecipativo dai ciitadini, e portare oggi a oltre 40.000 i partecipanti annuali dell’O.P.
Il Bilancio Partecipativo, che lavora – senza sostituirsi a loro - in parallelo alle Istituzioni che la Legge nazionale Brasiliana prevede come responsabili dei processi di definizione e approvazione del Bilancio (Giunta Municipale e Consiglio Comunale eletto), è un processo ‘vulnerabile’ nel suo radicamento formale nelle istituzioni, per la voluta assenza di una legge che ne tuteli il ruolo di processo prioritario per la gestione cittadina. Esso è concepito come un meccanismo che si autoregola attraverso uno Statuto annualmente arricchito e modificato dai rappresentanti popolari in collaborazione col Comune e le ONG cittadine, e mira alla costruzione di una vera democrazia e al rafforzamento della comprensione del binomio diritti/doveri caratteristico di una piena ‘cittadinanza’.
È nella prassi della gestione urbana che il Bilancio Partecipativo acquisisce una forza grandissima. In tal modo si è finora dimostrato capace di imporre la sua volontà ai rappresentanti ufficialmente eletti (compresa l’opposizione politica) anche attraverso tecniche di massiccia mobilitazione, controllo e partecipazione ai lavori del Consiglio Comunale. Con queste armi già 4 volte i rappresentanti popolari e la coalizione al governo non solo sono riusciti - supportati da riconoscimenti della magistratura – a superare tentativi di dimostrare l’irregolarità di questo meccanismo quasi ‘informale’ (in realtà con minima copertura legale nello Statuto Municipale del 1990, art. 85) ma, soprattutto, ad evitare che esso venisse codificato in una Legge o Regolamento Comunale come più volte proposto da consiglieri sia della maggioranza che dell’opposizione. La sua attuale mancanza di ‘codificazione’ corrisponde del resto ad una scelta ben ponderata dell’Amministrazione Popolare, quella cioè di puntare il massimo su uno strumento in grado di evolversi parallelamente al crescere della coscienza politica e dell’impegno mostrato dalla cittadinanza, senza restare impastoiato in vincolismi burocratici. La struttura ‘aperta’ e ‘flessibile’ scelta per l’O.P. corrisponde esattamente a questo imperativo; e nel tempo ha permesso quei miglioramenti e quelle necessarie ‘correzioni di tiro’ che ancora oggi fanno del Bilancio Partecipativo un processo adatto alle esigenze e alle peculiarità della città a cui si lega. Ma soprattutto ha reso possibile quel continuo lavorare su piani e livelli di azione diversi, e quel continuo re-incorporamento di istanze - in origine volutamente lasciate in disparte per favorire un più agevole attecchimento dell’O.P. - che oggi stanno facendo passare la democrazia portoalegrense dalla ricerca della sostenibilità economica e sociale ad un concetto più vasto di sostenibilità, che riaccoglie le peculiarità del territorio come nuove risorse per impostare un rapporto diverso non solo con i cittadini, ma anche con gli spazi fisici ed i modelli insediativi in essi radicati
Una delle ragioni che rendono il Bilancio Partecipativo particolarmente interessante e lo lasciano immaginare come costruzione solida e duratura per la città che l’ha accolto, è che esso - così come si è sviluppato a Porto Alegre - non è frutto di una creazione astratta, di un’imposizione calata su un territorio senza coordinate così come in altre delle oltre 70 località che hanno tentato di seguirne le tracce. A Porto Alegre l’O.P. ha avuto, infatti, il coraggio di scegliere una soluzione radicale che dà fiducia pressoché totale ai suoi cittadini nella definizione dei criteri di discussione e di scelta delle priorità di bilancio; ma per far questo ha affondato le radici della sua struttura nella tradizione democratica e nella vocazione all’impegno autorganizzato che ha contraddistinto fin dall’inizio del secolo i movimenti urbani cittadini, in particolar modo nella fase che dall’instaurarsi del regime militare del 1964 va fino alla creazione - nel 1983 - della UAMPA, l’Unione delle Associazioni di Vicinato dei vari quartieri. Questa ‘umbrella organisation’ si è posta, infatti, come coordinatrice delle principali istanze di partecipazione politica, organizzando non solo le varie Articolazioni Regionali al suo interno, ma anche una serie di congressi da cui sono emerse le direttrici principali che nel 1988 il Partito dos Trabalhadores ha in parte trasformato nella sua bandiera elettorale e ha poi tradotto in programma di governo. In un certo senso, quindi, il processo come lo vediamo ora si è originato dalla Società Civile, anche se l’intreccio di questa con i movimenti politici di centro-sinistra (che dopo la Dittatura hanno spesso avuto filiazione diretta dai movimenti urbani e si sono avvalsi in larga parte degli stessi uomini) è difficilmente districabile.
Porto Alegre è una delle poche città brasiliane (insieme a Curitiba) ad aver avuto il privilegio in questo secolo di poter elaborare autonomamente dal ‘centro’ il suo statuto comunale, ed ha quindi una lunga tradizione di attenzione alle specificità della città. In tal modo, il processo che ha conosciuto negli ultimi 45 anni - a partire dall’istituzione del Consiglio Popolare di Piano Regolatore - è stato quello di un riempimento progressivo di senso di ‘luoghi della partecipazione’, spesso creati per mera facciata da governatori e da sindaci-caudillos di epoca populista e sopravvissuti persino nel periodo militare, seppur svuotati della loro reale rappresentatività popolare.
Molte di queste timide istanze di democrazia diretta (come i Consigli settoriali dove spesso le componenti istituzionali partecipavano in proporzione doppia alle categorie professionali e queste in proporzione doppia ai rappresentanti della società civile) hanno subito una lenta trasformazione; un’interessante risemantizzazione che da rappresentanti in scala minore delle disparità sociali presenti nella città reale ne ha fatto il terreno privilegiato della lotta degli esclusi. Il Bilancio Partecipativo è così divenuto alla sua nascita il luogo dove convogliare quelle vitali pressioni al potere costituito prima canalizzate secondo criteri paternalistico-clientelari che trovavano la loro massima espressione (e creavano le loro massime aspettative puntualmente deluse) nelle campagne elettorali per le vie delle favelas.
Per questo – come osservavo prima - definire l’OP un ‘meccanismo di gestione cittadina’ è semplicistico; nel suo DNA è infatti scritta la storia di un’opzione che ha avuto e ha una sua vita indipendente dal potere costituito, a partire dall’autodefinizione dei confini delle 16 regioni di bilancio in cui i cittadini - sulla base del riconoscimento di diverse identità locali e senza nessun intervento dell’Amministrazione - hanno diviso Porto Alegre, con riaggiustamenti durati fino al 1995. Così in questa città, che in realtà è un aggregato di molteplici città diverse spesso fisicamente distanti l’una dall’altra, il Bilancio Partecipativo si è potuto radicare verticalmente nella storia del territorio e principalmente in quella del suo vissuto sociale fatto di movimenti urbani succedutisi nell’ultimo secolo, a partire dalle Amministrazioni positiviste (le uniche nel Brasile liberista) dei primi trenta anni del Novecento. E se oggi a Porto Alegre - a differenza che in altre città - questa istanza di democrazia diretta funziona sostanzialmente bene e riesce a coinvolgere attivamente tanti cittadini nella costruzione di indirizzi e nell’indicazione di specifiche per la gestione urbana, certo lo si deve anche a questa sua organicità con il territorio, almeno nella sua componente di evoluzione storica della coscienza politica e della capacità di autorganizzazione della popolazione.
Più volte mi è capitato - in questi anni di studi su Porto Alegre e di incontri con le varie reti europee che lavorano per una ‘traduzione ragionata’ del Bilancio Partecipativo nei nostri contesti - che qualcuno dell’uditorio si lamentasse di sentir sempre descrivere questa esperienza nei suoi termini positivi piuttosto che in quelli problematici. Ho una sola risposta a questa critica. L’esperienza mostra il suo maggior valore proprio in quanto paradigma di un incontro positivo possibile e a mezza strada tra società civile e istituzioni, come ‘prova’ di un cammino percorribile che – infatti – viene di solito sbandierata con simmetrico ottimismo sia da gruppi e movimenti urbani di ‘base’ che da Istituzioni a diversi livelli, non esclusa la Banca Mondiale che proprio a Porto Alegre nel ’99 ha organizzato il suo congresso mondiale di studi sulla Democrazia Partecipativa. La natura problematica dell’esperienza è implicita ed immanente in questa saldatura fra democrazia diretta e rappresentativa, ed è evidente che proporrà sfide e questioni differenti in ogni contesto locale, che non riescono comunque ad oscurarne l’apporto costruttivo positivo. Premesso questo mio punto di vista, non mi sottrarrò ulteriormente ad un confronto su aspetti problematici ed eventuali limiti del Bilancio Partecipativo, e – prima di passare ad elencare brevemente alcune nuove sfide che l’O.P sta di recente fronteggiando - cercherò di evidenziarne alcuni emersi nella specifica esperienza decennale di Porto Alegre.
La possibilità che l’O.P. diffonda opportunità ineguali di accesso al potere decisionale che nella pratica attribuisce alla popolazione partecipante (fatto che, se estremizzato, potrebbe rischiare di rendere le decisioni partecipative meno ‘democratiche’ addirittura di quelle prese nei consessi eletti per via rappresentativa) è sicuramente il punto su cui nel tempo si è appuntata maggiormente la critica al Bilancio Partecipativo, soprattutto quella degli stessi movimenti urbani. Fin da subito è, infatti, risultato evidente che di per sé l’O.P. non è in grado di garantire che le decisioni vadano a vantaggio veramente dei cittadini più bisognosi; anche perché i diversi ‘costi’ della partecipazione (che è gratuita anche per i rappresentanti eletti nelle assemblee ai vari livelli) risultano più alti per le famiglie che non hanno possibilità che un loro membro si dedichi con impegno alle attività di discussione, controllo, approvazione o correzione dell’operato istituzionale (funzione spesso svolta dalle donne più mature di ogni nucleo familiare), così come per coloro che possiedono una minore istruzione ed in conseguenza meno fiducia in sé e nella propria capacità di imporsi nel confronto di opinioni.
L’Amministrazione ha dislocato l’O.P. e i suoi dibattiti sui molteplici territori locali ‘vicini’ agli abitanti. Per di più accetta le registrazioni dei votanti alle Assemblee ‘sulla fiducia’ (confidando nel ‘controllo sociale’ attuato dalle comunità locali), è aperto al voto e all’intervento dei singoli e non necessariamente dei gruppi organizzati, mette spesso a disposizione mezzi di trasporto speciali per facilitare la partecipazione alle riunioni dei cittadini nelle più isolate, appronta servizi di intrattenimento per i bambini per non penalizzare le famiglie, fa un lavoro capillare di informazione battente in occasione di ogni assemblea pubblica, acquista spazi di comunicazione persino sui media ‘ostili’ a divulgare la conoscenza dell’O.P. Ha quindi messo in atto molteplici strategie per costruire un reale ‘diritto alla partecipazione’ per tutti. Nello stesso tempo ha agito per rendere questo diritto ‘sostantivo’ attraverso opere concrete ed interventi ‘esemplari’ volti a richiamare l’attenzione e l’impegno di tutti; non solo facendo leva sui ‘doveri della cittadinanza’ ma anche sullo stimolo offerto all’orgoglio di quartiere, alla necessità e persino all’egoismo, contando sulle potenzialità del processo di correggere in corso di svolgimento approcci iniziali scorretti e autocentrati. Nonostante questo, il pericolo che i Forum dell'Orçamento Participativo sottostimino la componente e la voce di chi ha più necessità da esprimere resta un problema reale:
In genere, così, restano i più organizzati quelli che potenzialmente possono trarre vantaggi maggiori dal processo, nonostante i meccanismi di riequilibrio oggi attivati per rendere il più possibile ‘distributiva’ la socializzazione dei fondi municipali. Finora dei rischi di ‘corporativismo’ hanno beneficiato sempre le classi inferiori, davanti alla scarsa partecipazione di classi medie e medio-alte che non hanno in tal modo mostrato disapprovazione per l’operato dell’Amministrazione Popolare, ma – anzi - si sono implicitamente dichiarate soddisfatte dei servizi forniti dal Comune nei loro quartieri e dell’attenzione da questo posta nel destinare annualmente una importante fetta del bilancio per mantenere attivi e migliorare tutti gli investimenti fatti in precedenza. Ma non è detto che i più poveri – che lottano spesso appena per la sopravvivenza nelle zone più instabili e pericolose della città - siano in grado autonomamente di far sentire la loro voce come hanno saputo fare – quando hanno voluto – alcuni quartieri benestanti. In casi come quello della popolazione delle Isole – bloccati in ogni loro richiesta da una Legge Statale di protezione naturale dell’arcipelago della Laguna - l’impossibilità di veder realizzate in tempi brevi misure urgenti sollecitate nell’O.P può far perdere ai più deboli l’entusiasmo e la volontà di continuare a lottare nelle assemblee.
Oltretutto, i cittadini più istruiti di Porto Alegre hanno trovato un luogo privilegiato di espressione delle loro richieste nelle Assemblee Tematiche create nel 1994 (anche se vi è stata di recente una crescita della partecipazione di strati inferiori della popolazione): lo dimostra un’inchiesta CIDADE-FASE/RS che rileva come il 51% dei partecipanti ad esse abbia reddito superiore a 500 US$ mensili (contro il 32% dei partecipanti alle Assemblee su base Regionale), mentre il 29% ha una scolarità superiore (contro l’11% dei partecipanti alle Regionali).
Inoltre, l’influenza esercitata dai gruppi più organizzati non si fa solo notare direttamente al momento del voto sulle priorità di bilancio, ma incide anche sui criteri utilizzati dai diversi livelli assembleari dell'O.P per effettuare la ripartizione dei fondi e l’accoglimento stesso delle priorità, visto che sono i rappresentanti eletti (ed eletti proporzionalmente alla partecipazione dei vari quartieri) a decidere e approvare ogni variazione del Regolamento Interno. Il cosiddetto ‘effetto dimostrazione’ non è - in tale quadro – sufficiente a garantire ai più deboli una voce nell’O.P., il cui sistema di elezione proporzionale dei delegati ha spesso finito per incentivare una rotazione significativa delle associazioni di quartiere nelle posizioni dominanti del processo di bilancio. In tal senso, all’Amministrazione va la responsabilità non secondaria di farsi garante di un costante controllo sul processo, per garantire che si faccia promotore di forme di ‘solidarietà negoziata’ (Abers, 1998). In ultima analisi, pertanto, restano forti le dipendenze del Bilancio Partecipativo da una volontà politica decisa a portare avanti e migliorare continuamente il processo, come già rilevato a proposito del suo statuto di ‘informalità’ giuridica non formalizzato in nessuna Legge o Regolamento comunale.
Problema analogo è implicito anche nella tempistica di approvazione dei progetti indicati dalla popolazione. Due-tre anni sono il minimo necessario ad un quartiere per organizzarsi, fare approvare l’opera che si necessita nel Piano di Investimento dell’anno successivo e vederla realizzata (questo presupponendo, inoltre, che si sia contrattualmente forti, o così numerosi o bisognosi da ottenere l’approvazione alla prima richiesta). Un altro capitolo problematico è legato alle lentezze dei meccanismi di licitazione e alla risoluzione dei problemi tecnici e dei contenziosi fra Comune e imprese che spesso ritardano l’esecuzione. Sovente, i ritardi che causano fanno desistere molti dalla partecipazione, riportando nei cittadini una cronica sfiducia nelle istituzioni a dispetto dell’impegno politico che dovrebbe prioritariamente concretizzarsi in una radicale riforma burocratico-amministrativa che purtroppo non può essere di spettanza della singola amministrazione locale.
Il tema della ‘democraticità sostantiva’ e la schizofrenia fra i tempi lunghi delle realizzazioni e la politica delle emergenze che caratterizza l’azione di ogni amministrazione (specie se nel suo territorio ospita un 20-30% di abitanti delle baraccopoli come Porto Alegre) rientrano – come il problema della ‘giustizia distributiva’ - fra i ‘limiti strutturali’ del meccanismo di Bilancio Partecipativo, pertanto difficilmente correggibili con una trasformazione interna proprio perché attinenti alla sua natura di strumento negoziale e periferico.
Altri due limiti fortemente avvertiti dall’Amministrazione come dagli stessi partecipanti dell’O.P sono:
Specialmente se l’opera è finanziata da enti esterni (Unione, Stato, BID, World Bank o programmi di cooperazione internazionale) è, infatti, spesso necessario agire per concretizzare l’opera in tempi brevi per non perdere il finanziamento stesso superando i termini di realizzazione previsti. Per non vanificare la fatica della popolazione e del Comune in anni di battaglie, si affrettano quindi i processi proprio in fase progettuale. Ovvero resta poco tempo per una progettazione veramente ‘partecipata’ secondo le linee che teoricamente sarebbero più coerenti con il programma di governo dell’Amministrazione Popolare e con la stessa ‘moltiplicazione del dialogo’ prevista dall’O.P. Soprattutto, l’aspetto progettuale è spesso sacrificato a ‘ragioni ulteriori’, cioè al superamento dei vincoli burocratici, legali e finanziari che si presentano in corso d’opera sotto forma di contrattempi. La vicenda della ricostruzione della favela Vila Planetario (un’area informale in una zona di forte valorizzazione fondiaria, che il Comune ha fortemente voluto che fosse ricostruita in loco per rivendicare il ‘diritto dei poveri al centro cittadino’) è emblematica. La popolazione ha atteso dal 1989 al 1992 che l’opera venisse decisa, mentre il progetto è stato realizzato in pochi mesi e la costruzione è stata interrotta due volte dal tribunale su richiesta dell’opposizione politica. Poi è stata completata di fretta nell’imminenza delle elezioni per cui serviva da ‘biglietto da visita’ dell’Amministrazione; infine le parti comuni sono state abbandonate a se stesse dal Municipio che doveva mantenerle, e non si è realizzata nessuna valutazione post-occupazione dell’insediamento (richiesta dallo stesso progettista nel programma iniziale dei lavori) e neppure una valutazione successiva della riuscita di quello che doveva essere un esperimento-pilota nell’uso innovativo dello strumento della Concessione di Diritto Reale di Uso di Suoli Pubblici nell’ambito del Programma di Regolarizzazione Fondiaria. Oggi, simili errori si replicano sull’onda delle emergenze senza che le esperienze passate (tanto più se all’epoca definite ‘pilota’) servano di lezione. Una sorta di meccanismo legato alla mancanza di ‘costruzione di archivi delle memorie degli interventi urbani’ genera una schizofrenia nell’operato dell’Amministrazione, che prende le forme non solo di uno ‘scarto’ fra una politica flessibile, concreta e rapida nel rispondere alle molte emergenze, e la possibilità di elaborare una riflessione teorico-metodologica di supporto all’azione, ma anche di ‘scarto’ fra le modalità di conduzione dell’O.P. (ritenuto spesso di per sé garanzia sufficiente di recupero della dignità degli abitanti della città informale) e gli interventi urbanistico-architettonici proposti al suo interno. Le modalità di attuazione di molti di essi hanno, infatti, veicolato un’errata identificazione fra società e città informale, dando per scontato che il ri-accoglimento della prima nella città di diritto significasse automaticamente il miglioramento delle condizioni dell’altra. Questioni di ‘linguaggio’ e comunicazione, hanno così indebolito il dialogo mirato alla messa in opera di progetti condivisi dai beneficiari, ed hanno ridimensionato l’impeto posto sulla ‘progettazione partecipata’, facendo optare sovente per una progettazione solo ‘accompagnata’ (e con scarso ausilio di strumenti metodologici affinati). E questo – nel corso degli anni - ha lasciato in alcuni cittadini l’idea che l’O.P. fosse un sistema non del tutto coerente, incapace di trarre tutte le conseguenze dai propri presupposti ideali e metodologici.
Limiti strutturali del genere non sono forse eliminabili dal processo di O.P. ma sono almeno parzialmente ‘correggibili’. La proposta che molti tecnici avanzano e iniziano ad attuare oggi è quella di affiancare all’O.P. forme di pre-pianificazione o pre-progettazione almeno di alcune aree più carenti o ‘strategiche’ della città, per evitare che gli interventi siano scelti dai cittadini e progettati come isole fuori da piani generali, ma favorendo invece una discussione più stretta e decantata fra abitanti e tecnici sulla base di forme di progettazione preventiva che non sarebbero uno spreco, ma anzi un’ottimizzazione di energie, capaci di suggerire interventi e ipotesi da incrociare, e di offrire ai cittadini – cui peraltro resterebbe l’ultima parola sulle decisioni nell’O.P - elementi di giudizio in più nel discutere e approvare le proprie priorità. Parallelamente, il Comune cerca di contrattare con alcune istituzioni finanziatrici ‘esterne’ i termini dei contratti e dei prestiti, discutendo le clausole più vincolanti degli stessi con la popolazione, come è già avvenuto in due casi con la Banca Interamericana di Sviluppo (BID). Il tentativo è quello di far accettare il proprio punto di vista sulla città e di far comprendere a tutte le parti in causa che il rispetto dello stile, dei tempi e dell’organizzazione dei processi – in una parola della ‘via peculiare’ - che Porto Alegre ha seguito nell’ultimo decennio è il presupposto indispensabile perché l’azione politica mantenga la coerenza, l’efficacia e l’efficienza finora dimostrate, e verso cui tanto apprezzamento hanno dichiarato persino le grandi Istituzioni Internazionali come l’ONU e la Banca Mondiale.
Più difficilmente percorribile di questa via, che oggi si inizia a battere, pare invece la proposta di mettere da parte dei fondi di investimento da riservare alle emergenze, alle situazioni disperate, alle eventualità che la crescita degli abitanti e il mancato arrestarsi dei fenomeni migratori possono comportare. Al momento la stessa popolazione – attraverso i suoi rappresentanti – si è ripetutamente opposta a sottrarre quote di investimento al controllo dell’O.P. come avviene in altre città dove al vaglio del Bilancio Partecipativo sono sottoposte solo percentuali dal 50 all’80% della quota delle spese di capitale del Comune. Lo dimostra la tendenza della popolazione ad influire sempre di più persino sull’allocazione delle quote di spesa destinate al personale e alla gestione ordinaria di spettanza del Comune; ma soprattutto lo mostra la recente levata di scudi contro la Proposta del Consigliere Comunale Isaac Ainhorn (affossata nell’aprile 1999) di formalizzare in Legge l’O.P. sottraendogli però il controllo sul 50% degli investimenti. Lasciare libertà di movimento ampia al Comune e al Legislativo Municipale appare alla popolazione un ritorno all’indietro, alla discrezionalità di molte scelte su base politica (Baierle, 1999i); in conclusione i cittadini – dopo undici anni di partecipazione attiva alle scelte democratiche - lo considererebbero un appiglio offerto al riaffacciarsi di clientelismi e paternalismi, come anche a piccole furbizie tentate in passato quando – sicuri di poter contare su fondi di emergenza consistenti ed esterni al meccanismo di selezione dell’O.P. - singoli cittadini o intere comunità si gettavano artificiosamente in situazioni di emergenza estrema scavalcando le forme di decisione democratica e di ‘etica dell’impegno’ (con incendi dolosi di baracche e simili).
La difficoltà a cancellare questi limiti strutturali non significa però che essi vengano ignorati; anzi, proprio perché diffusamente avvertiti, essi hanno avuto nel tempo l’accompagnamento di strategie di ‘attenuazione’. Le Assemblee Tematiche ne sono un esempio. Esse sono servite al Comune non solo per convogliare nella discussione realtà aggregative tematiche già esistenti sul territorio cittadino ma prima non coinvolte nella discussione del Bilancio (le centinaia di Club Sportivi, i Circoli Culturali, i Sindacati Professionali, alcuni gruppi ecclesiali di base) ma anche a recuperare una parte dei fondi per investimenti – sottratti alle discussione su base ‘areale’ dell’O.P. legato alle Regioni – a vantaggio di quegli Assessorati e Dipartimenti che fossero in grado di conquistarseli attraverso un altro tipo di discussione democratica frequentata da settori diversi della popolazione, e relazionata ad un orizzonte temporale e spaziale a più vasto respiro di quello immediato/emergenziale.
La creazione dei Consigli Popolari e di altre istanze partecipative parallele ha permesso di collocare anche le politiche associabili a molti di questi ‘finanziamenti recuperati’ (come nel settore della sanità e dell’istruzione, riformato fino alle indicazioni pedagogiche di base attraverso vari anni di Congressi cittadini sulla Scuola) nell’ambito di una democratizzazione del dibattito, senza per questo vincolare ogni intervento solo nell’ambito dell’urgenza e dell’emergenza, e quindi favorendo progressivamente il formarsi di linee di azione istituzionale più ragionate, riflessive e capaciti di interagire su piani diversi di coordinamento con obiettivi strategici e non solo con altri interventi puntuali contestuali.
Per quanto attiene alla ‘frettolosità’ di alcune fasi di intervento sul campo, il nuovo PRG (da poco approvato dopo quasi 8 anni di discussione pubblica e revisioni assembleari nei ‘Congressi della Città’) potrà rivelarsi come il ‘luogo’ per l’integrazione fra i vari progetti, anche se non gli va attribuito un ruolo ‘salvifico’. La stessa informale promozione del ‘corpo a corpo’ fra tecnici e cittadini durante ogni fase degli interventi puntuali finanziati tramite l’O.P. ha costituito per certi versi un fattore ‘riequilibrante’ della celerità con cui molti progetti vengono approvati, mettendo in contatto quotidianamente le esigenze sottolineate dai rappresentanti dell’Amministrazione con necessità e desideri dei beneficiari dei progetti, e quindi consentendo alterazioni e adattamenti in corso d’opera mirati all’ottimizzazione dei risultati. Il settore delle pavimentazioni stradali e dei servizi igienici hanno rivelato come un intenso scambio di opinioni anche su questioni ‘tecniche’ possa cominciare a riempire di ‘contenuti’ uno spazio come l’O.P. che nei suoi primi anni di vita si è limitato a discutere ed elencare semplici priorità senza approfondire gli aspetti qualitativi legati alla riorganizzazione e alla costruzione del territorio. In questa direzione il Bilancio Partecipativo comincia oggi a far tesoro della crescita che 11 anni di dialogo continuato hanno favorito nelle popolazione, rendendola matura per affrontare il dibattito su aspetti della realtà via via più complessi.
Queste considerazioni a rispetto dei limiti più macroscopici dell’O.P. possono servire a ridimensionare alcuni altri ‘difetti’ minori rilevabili e a rassicurare sulla possibilità che essi vengano via via identificati e superati nell’ambito dello stesso processo ‘naturale’ di adattamento che annualmente si ha nel Bilancio Partecipativo attraverso le modifiche del suo Regolamento Interno, facilitate dalla struttura aperta e flessibile che il processo ha. A titolo di mero esempio esporrò di seguito alcuni altri ‘nodi critici’ di importanza secondaria:
Un tema sempre rimesso in discussione ma su cui l’Amministrazione non ha ceduto di un passo in questi 11 anni è quello concernente la ‘gratuità delle prestazioni’ dei rappresentanti dell’O.P. ad ogni livello. Sebbene essa aumenti, infatti, i ‘costi sociali’ della partecipazione per i più poveri, evita la ‘professionalizzazione’ dei partecipanti che toglierebbe genuinità e franchezza al dialogo con le istituzioni e rischierebbe una deriva burocratica degli stessi delegati e consiglieri e alla fine del processo tutto.
Un altro tema su cui il Comune è restio a fare concessioni è quello della durata delle cariche elettive popolari, la cui elezione è peraltro ‘sfasata’ di quasi mezzo anno rispetto ai tempi di discussione del bilancio (che per la Legge brasiliana segue l’anno solare). La possibilità di prolungare il mandato per una volta consecutiva, e di riprenderlo dopo un’interruzione appare già come una garanzia sufficiente per non dilapidare l’opera di formazione puntuale che il Comune garantisce ai delegati e ai consiglieri con appositi corsi per comprendere il funzionamento della macchina amministrativa comunale.
La mancanza di ‘sovrapposizione temporale’ (seppur breve) e quindi di ‘coordinamento’ e ‘collaborazione’ tra rappresentanti uscenti e nuovi dell’O.P. è un fatto negativo spesso rilevato dal Consiglio Popolare di Bilancio nella valutazione realizzata ad ogni fine mandato; ma la possibilità lasciata ai consiglieri di convocare riunioni informali annuali per il ‘passaggio di consegne’ è ritenuta una garanzia sufficiente dal Comune per non dover trasformare il Regolamento Interno su questo punto.
Un aspetto di tipo organizzativo ancora sovente criticato è l’eccessiva rigidità sulla durata delle assemblee e – in rapporto a questa - la scansione temporale delle stesse, che lascia uno spazio eccessivo all’esposizione di informazioni generali ed alla lettura di documenti sovente non attinenti ai temi in agenda nelle specifiche occasioni, riducendo troppo lo spazio dedicato al dibattito che dovrebbe precedere le votazioni su ogni mozione. Il rischio che talora l’approvazione delle grandi questioni su cui potrebbe avere voce il Consiglio Popolare (dove i rappresentanti del Comune non hanno diritto di voto) si riduca a mera ratifica delle proposte dell’Amministrazione Comunale non è peregrino, anche se la mancanza di ‘regole formali’ di organizzazione delle sedute lascia sempre aperta la possibilità di porvi un argine.
Un limite congiunturale di cui andrebbe tenuto conto nella gestione delle Assemblee dell’O.P. (ed in particolar modo del Consiglio di Bilancio) è il rischio di ‘conformazione’ alla volontà dei più e talora a quella ‘presumibile’ dell’Amministrazione, che può costituire una ‘deviazione’ naturale di alcuni rappresentanti popolari. Di per sé, infatti, la creazione di ‘tifoserie’ nell’O.P. non è un fatto grave, visto che la sfera pubblica in cui si manifestano in qualche modo toglie l’utilitarismo dall’oscurità della politica clientelista (IBASE, 1995) e lo trae alla luce del dibattito democratico dove deve confrontarsi con livelli superiori di coscienza dei problemi che segnano il quotidiano sociale della città e delle soluzioni necessarie. Ma è dovere preciso dei rappresentanti del Comune presenti al tavolo dei vari dibattiti fare in modo di non avallare neppure lontanamente l’ipotesi di ‘manipolazione dei giochi’, prestando attenzione al rispetto massimo delle regole deontologiche e formali per dar voce alla diverse contro-voci della democrazia, che sovente abbondano tra i rappresentanti popolari ed in qualche caso si sono lamentate del clima di ‘accerchiamento’ che si crea in alcune sedi di dibattito e può non favorire la libera espressione dei dissenzienti contro le opinioni più diffuse.
L’O.P. – a dispetto della sua struttura ‘informale’ – è un processo per molti versi formalistico, che rispetta un rigido copione di ruoli, eventi e scadenze temporali, all’interno delle quali le assemblee rappresentano il momento più ‘anarchico’, anche se progressivamente sempre più disciplinato. Questo col tempo ha portato ad alcuni momenti di ‘grigiore’, per via di una tendenza alla ritualizzazione di alcune sue fasi. Una riflessione andrebbe condotta soprattutto sui meccanismi di svolgimento delle Plenarie del secondo turno, in cui troppo spazio viene preso in genere dalla disputa ‘elettorale’ fra squadre di candidati a Consigliere; il rischio è che la consegna delle richieste gerarchizzate si riduca ad un atto solo formale o simbolico di consegna di un documento al Sindaco.
Come ha ben rilevato la rivista dell’ONG ‘Cidade’ che monitora da anni le assemblee del Bilancio Partecipativo a Porto Alegre (De Olho no Orçamento n° 7/98), nell’O.P. finora l’aspetto intellettuale e culturale dell’incontrarsi è risultato eccessivamente relegato al ruolo di appendice fornita dal settore governativo, mancando così di esprimere in modo genuino aspetti della cultura popolare, che pur è valutata in assoluto dall’Amministrazione portalegrense come molto importante strategicamente.
Un aspetto interessante è anche la capacità ‘frenante’ che può passare a svolgere in certi casi all’interno dell’O.P. la ricerca di equità distributiva, qualora si trasformi in un mito dell’uguaglianza ad ogni costo. Ad esempio, se un consigliere dell’O.P. porta dati aggiornati sulle carenze abitative o l’aumento reale della popolazione nella sua Regione, queste non possono essere prese in considerazione dal Consiglio per valutare emergenze ed esigenze della stessa in rapporto alle altre, se anche gli altri dati non sono ‘aggiornati’. In questo caso, la ricerca di una maggior vicinanza con le necessità della popolazione tentata dal consigliere si scontra con un aspetto ‘formale’ dell’O.P. che tiene le azioni dell’Amministrazione più distanti dalla realtà delle situazioni concrete in cui versano i cittadini. La formalizzazione di questo ‘scarto’ dal reale si può rintracciare nei criteri tecnici dell’O.P. dove si fa riferimento specifico alla fonte di dati che si può prendere per determinare le priorità di intervento che emergono dal confronto fra i delegati e i consiglieri dell’O.P. e che convergeranno nel Piano di Investimenti. Oggi, per fortuna, nel Consiglio esiste una Commissione per l’aggiornamento dei dati, ma è certo che la voce dei Criteri Tecnici riferita ai criteri restrittivi e vetusti dell’Istituto Brasiliano di Statistica (IBGE) va eliminata dal Regolamento Interno dell’O.P.
Una critica viene mossa oggi anche ad uno dei pilastri positivi riconosciuti all’O.P., cioè la sua capacità di ‘moltiplicatore del dibattito’ fra Istituzioni e cittadinanza. La moltiplicazione di strutture partecipative intorno ai vari Assessorati, Dipartimenti e Fondazioni Municipali corre, infatti, il rischio di costituirsi come strumento di frammentazione e polverizzazione della cittadinanza attiva esistente nella città. Questo anche in considerazione del fatto che è difficile discutere politiche senza discutere di risorse, e siccome discutere politiche è il compito principale affidato ai Consigli settoriali che si configurano come strutture proprie di partecipazione intorno a Dipartimenti e Assessorati (in aggiunta alla cornice costituita dall’O.P.), vi è il concreto rischio che la presenza di tali strutture finisca per legittimare il margine di arbitrio degli Assessorati intorno ad una parte dei fondi municipali, quelli gestiti dalle Assemblee Tematiche e quelli destinati alle priorità oltre la terza fra quelle indicate dai cittadini, relativamente alle quali la forza delle strutture di articolazione del Comune finisce per essere preponderante e prevaricare i criteri di carenza che costituiscono gli strumenti di decisione e controllo in mano alla popolazione per l’allocazione della percentuale maggiore di fondi di investimento. In tal senso le critiche hanno un duplice obiettivo; da un lato l’Amministrazione, le cui strutture mostrano di aver cominciato furbescamente a riorganizzarsi per recuperare almeno una fetta del potere perduto, dall’altro la stessa acquiescenza di molti cittadini che non comprendono che la continua riconferma della ‘triade storica’ di interventi prioritari (pavimentazione-casa-urbanizzazione primaria) nelle prime posizioni dell'Orçamento Participativo può essere un pericolo perché spinge gli altri Assessorati a giocare d’astuzia per poter trovare dei fondi, magari frammentandosi in consigli e consiglietti che hanno forme diverse di nomina dei componenti, lasciando nel contempo troppo potere a singole strutture che si rafforzano come ‘quarti poteri’ dentro l’Amministrazione.
Un altro pericolo che si profila possibile riguarda il complessificarsi progressivo delle strutture di rappresentanza inserite nel meccanismo dell’O.P. ed attiene al dialogo fra le stesse. Se non è fondata l’accusa che l’O.P. muova verso un sistema frammentario, localizzato e particolaristico ed una concezione ‘parrocchiale’ della città, richiede comunque tempo ed un processo graduale di apprendimento la capacità di una valutazione più globale dell’interesse pubblico cittadino nelle sue diverse articolazioni. I dibattiti ‘tematici’ all’interno dell’O.P. hanno dimostrato in questi anni una trasformazione in atto in direzione della capacità di mettere in discussione questioni più vaste delle necessità immediate dei diversi quartieri, a partire proprio dalla discussione sulla ‘regolarizzazione dei suoli’ come tramite fra i problemi specifici e i cambiamenti su scala più vasta della città, anche sul piano della creazione di nuove alternative economiche e dell’aumento degli investimenti nei settori della salute e dell’educazione.
Un’ultima osservazione critica piuttosto diffusa (soprattutto nell’ambito dei movimenti popolari) non riguarda direttamente il meccanismo dell’O.P., quanto piuttosto l’attenzione quasi ‘totalizzante’ che gli hanno rivolto sia l’Amministrazione che i cittadini di Porto Alegre. Questo espone al rischio concreto di un ‘monopolio del dibattito cittadino’ da parte dell’O.P. che tolga contemporaneamente ai cittadini la forza e la volontà di riversare energie anche in altre istanze di discussione (specie quelle dai risultati meno ‘immediati’), ma soprattutto indebolisca i movimenti popolari intenti a lotte di più vasto respiro della concessione dei benefici immediati che offre il Bilancio Partecipativo (il quale – va ricordato - non crea nuove entrate al Comune ma semplicemente serve a gestire quelle esistenti) mettendone a rischio l’autonomia dalla politica ufficiale e la capacità di alimentare la nascita di nuovi leader. È, del resto, riconosciuto che a Porto Alegre, oggi, i movimenti popolari continuino a presentare un carattere contradditorio che sembra avere difficoltà a muoversi e articolare le proprie richieste al di fuori delle linee guida e dei parametri di questa sfera governativa, confondendo spesso livelli diversi anche attraverso il ricorso agli stessi leader e rischiando una diminuzione di autonomia organizzativa delle associazioni di base (per ora almeno non interagente con la sua prospettiva critica) rispetto a quelle inserite nei meccanismi dell’O.P.
Oggi - celebrato il suo decennio di attività – il Bilancio Partecipativo si trova ad affrontare le sfide che la riconosciuta maturità raggiunta gli pone di fronte, con tutti i rischi connessi. Le più importanti – oltre al mitigamento progressivo dei limiti fin qui rilevati - sono certo quelle relative alla sua codificazione, all’espansione di livello dell’azione e all’interconnessione con gli altri strumenti-base della politica urbana. Per quanto concerne il problema dell’ampliamento di scala dell’azione concertata e partecipata sperimentata con l’O.P, la recente elezione della coalizione capeggiata dal PT alla guida dello Stato del Rio Grande do Sul ha offerto l’opportunità di sperimentare positivamente in due anni un’estensione dei meccanismi del ‘bilancio partecipativo’ su scala statale (OP/RS). L’esperimento, pur scontrandosi con mille difficoltà politiche e giudiziarie, è risultato alla fine positivo, rivelandosi un’operazione maieutica che ha dato forma ad un bisogno che con nomi diversi era emerso nel corso del tempo (sotto forma di Audizioni della società civile e di Consigli Regionali o di settore) e che nell’OP/RS ha trovato una sua positiva formulazione, per fortuna come strumento flessibile e proceduralmente aperto ai cambiamenti in corso d’opera. L’‘ampliamento di scala’ del meccanismo di Bilancio Partecipativo ha comportato alcuni ostacoli interni da superare; 1) la difficoltà tecnica di organizzare un processo di partecipazione così ampio; 2) l’ostilità di molte amministrazioni locali di opposizione, che hanno complicato il coordinamento dei processi decisionali pur però accettandolo perché proveniente da un Ente di livello superiore e con potenzialità coercitive; 3) la necessità di radicarsi in aree spesso prive di qualsiasi tradizione strutturata di auto-organizzazione e di mobilitazione a livello sia globale che locale; 4) i problemi logistici dovuti al fatto che i rappresentanti della popolazione si impegnano nella discussione a titolo gratuito con tutte le difficoltà, i tempi e i costi personali connessi ai grandi spostamenti necessari per riunire tutti i delegati e i consiglieri nei forum decisionali.
Tutto ciò non ha certo eliminato le grandi potenzialità del Bilancio Partecipato a livello statale, anche nell’ottica della sussidiarietà e del coordinamento fra livelli di responsabilità con competenze diverse. Nelle 622 Assemblee tenutesi nel 1999, ad esempio, oltre 190.000 cittadini hanno accolto con entusiasmo il nuovo processo partecipativo, e il primo Bilancio è stato approvato il 29/11/99 (sotto gli occhi vigili di oltre 320 osservatori convenuti con ore di anticipo per trovare un posto nella tribuna dell’Assemblea Statale) senza nessun voto contrario e solo 4 astenuti, trasformando l’approvazione in un momento di inattesa festa con abbracci tra gli avversari politici, e un folla di alcune migliaia di persone in strada che seguiva la votazione su un megaschermo.
Dalle riunioni è subito emerso non solo il potenziale di complementarità fra aree tematiche di competenza municipale e statale ma anche la capacità che le assemblee hanno di direzionare il governo statale nell’approntamento di politiche fondamentali come quelle di promozione dell’occupazione, di diritto all’alloggio e di difesa del territorio, che oggi paiono i punti deboli di una politica federale tutta concentrata su questioni monetarie e di riduzione del debito. Più di recente, invece, l’O.P/RS sta mostrandosi un utile appoggio per la coalizione al governo nello Stato, per superare alcune difficoltà poste dall’uscita di un partito alleato dalla maggioranza, che ha reso l’opposizione numericamente predominante a livello del Consiglio Statale che per legge deve approvare i Bilanci annuali.
Il consolidarsi nei prossimi 3 anni del processo di Bilancio Partecipativo a livello Statale – oggi ancora immaturo, caotico e alla ricerca di una ‘configurazione di equilibrio’ – sarà l’occasione per verificare l’importanza del ruolo pioniere e propositivo determinante che i municipi possono oggi ricavarsi per una riforma dal basso dei rapporti fra livelli politici e fra essi e la popolazione, anche ‘testando’ per primi nuovi strumenti di gestione amministrativa. In quanto luogo del contatto diretto fra popolazioni locali e istituzioni essi hanno, infatti. l’opportunità di conoscere le diverse caratteristiche dei vari territori, e di ripristinare un rapporto di fiducia fra società ‘istituente’ e società ‘istituita’ a partire dalla creazione di strutture che sappiano porsi in sintonia con le forme peculiari di autorganizzazione e mobilitazione di quest’ultima. Questo vale a maggior ragione per Comuni vasti e complessi. Il caso di Porto Alegre, del resto, ha una sua forte valenza ‘dimostrativa’ proprio in quanto la sua ormai decennale esperienza è adatta ad illustrare concretamente la possibilità di contrastare il teorema secondo cui una democrazia partecipativa sarebbe irrealizzabile nella complessità delle metropoli e dei territori regionali per la molteplicità degli interessi, il numero di abitanti e la complessità dei temi da affrontare.
Un’ultima riflessione è necessaria riguardo alle sfide che - nell’ambito di una maturazione dei processi di democrazia diretta finora sperimentati - si rivolgono al coordinamento con gli altri strumenti di gestione urbana, nel tentativo di dare adito ad una riscoperta del territorio nelle sue specificità locali e di cooptare i tecnici per favorire un dialogo più serrato coi cittadini, che eviti alcuni degli errori favoriti dalla dimensione ‘emozionale’ che può prendere piede nei processi partecipativi.
In questa direzione grande interesse rivestono tutte le pratiche mirate a favorire la crescita del numero e del ruolo degli agenti intermedi per il coordinamento dei rapporti fra amministrazione e cittadini e la pratica del ‘corpo a corpo’ con la popolazione in seminari formativi, forum permanenti di discussione su problemi specifici (come il Comitato Popolare sulla Casa - COMHATAB) e visite in loco, specie nelle aree ancora marginali della città. Esse contribuiscono, infatti, a recuperare i tecnici al loro ruolo, a promuoverne gli aspetti ‘creativi’ e a metterli in contatto diretto coi cittadini e le istanze locali. Intorno al ’93-‘94, attraverso il Congresso della Città (oggi giunto alla 3° edizione), si è anche posto mano al lungo processo per coordinare l’O.P con altri strumenti di sviluppo delle politiche urbane, emulandone i caratteri di meccanismo aperto, innovatore e radicato nella storia del luogo. Accogliendo i suggerimenti provenienti dagli oltre 5 anni di discussione interna al progetto ‘Città Costituente’ (che se non è riuscito ad aggregare grandi masse di popolazione è però servito a recuperare la fiducia di molti tecnici nell’operato dialogico dell’Amministrazione) il nuovo Piano Regolatore di Sviluppo Integrato di Porto Alegre – in vigore dal marzo 2000 - si pone oggi come il più significativo strumento per propiziare questo cambiamento. E anche per sintonizzare i processi di Bilancio Partecipativo - finora un’isola vissuta da molti settori del Comune come vincolo o come alibi per scaricare le proprie responsabilità - con le linee d’attuazione di molti Assessorati e Dipartimenti che finora hanno mostrato di agire con una fondamentale unitarietà di concezione ma con poco coordinamento fra loro e persino ai vari livelli interni ad ognuno di essi.
Quella di mettere temporaneamente da parte per alcuni anni il territorio fisico per operare sulla formazione della coscienza dei cittadini è stata una scelta ben ponderata della prima Amministrazione Popolare. Questa - trovandosi al governo con una buona dose di inesperienza e i deficit della gestione precedente - ha coscientemente optato per un’ottimizzazione delle scarse energie, concentrandosi sulla ricostruzione del senso di responsabilità e del nesso fra diritti e doveri della cittadinanza di Porto Alegre. La convinzione era che lavorare sul corpo sociale spesso dà più risultati e produce una moltiplicazione degli effetti positivi molto superiore alle stesse opere fisiche, ed è comunque prioritario perché queste possano essere ‘fatte proprie’ dai cittadini e sintonizzarsi col territorio, limitando in seguito le difficoltà e i costi di manutenzione e gestione . Oggi popolazione e Amministrazione sembrano essersi rese conto che è giunta l’ora di recuperare i contenuti della discussione comune una volta che si sono rodati a sufficienza i meccanismi di questa; e di legarli alle specificità del territorio nell’azione di governo per la costruzione di politiche municipali che sappiano radicarsi nei luoghi a vantaggio dei quali sono state elaborate, anche per dare un senso a parole che spesso non vanno oltre la loro parvenza di slogan a presa rapida e di presunta intelligibilità internazionale come ‘sostenibilità’ e ‘sviluppo locale’.
Questo recupero della dimensione verticale dell’azione sul territorio ha oggi un senso e concrete possibilità di essere accettata proprio a seguito del lavoro di coscientizzazione reciproca propiziato in questi 12 anni di operato dell’Amministrazione popolare. Il Piano Regolatore di Sviluppo Integrato di Porto Alegre - con il suo carattere a metà fra il piano strategico e il piano-processo - sembra il luogo adatto per questo salto di qualità dell’azione istituzionale, sia perché formalizza un legame con le 16 regioni urbane autodeterminate in sede di Bilancio Partecipativo, sia perché di questo assume i caratteri di apertura, flessibilità e definizione progressiva da attuarsi con la partecipazione dei cittadini; in particolare per quanto attiene alla questione della valorizzazione ambientale (che sostituisce il vincolismo passivo del precedente strumento urbanistico) e alle zone di interesse sociale - coi loro parametri negoziabili - necessarie per riassumere nella città i territori dell’informale senza più il marchio di aree illegalmente prodotte.
Il Piano sembra in tal senso registrare un processo già da tempo in sperimentazione nelle linee di intervento del governo, che sta portando alla lenta reintroduzione della valutazione ex-post (finora bandita per questioni economiche e di mancanza di una cultura in tal senso) come componente integrante di ogni azione politica. E anche alla valorizzazione dell’educazione ambientale come ‘moltiplicatore di effetti’ entrato in questi ultimi due anni come denominatore comune pressoché in tutti i programmi di azione sul territorio dell’Amministrazione, attraverso équipe specializzate di giovani entusiasti che studiano l’ambiente di vita come un tutto unico - fino ad includere persino la valorizzazione di alcuni aspetti estetici delle favelas lette come luoghi di produzione di una parte della cultura cittadina - e tentano di crescere con la popolazione invece di limitarsi ad ‘insegnare qualcosa’ usando tecniche di comunicazione standardizzate che riducono la comunicazione a mero ‘consensus building’. Molto può perciò offrire per il futuro la sintonia O.P.-Piano Regolatore, che da un lato sembra in grado di tradurre l’affermata preservazione del concetto di policentrismo urbano sul terreno delle politiche in moltiplicazione dei luoghi del dialogo (arginando anche i pericoli di ‘monopolio del dibattito’ da parte dell’OP), e dall’altro ha il potenziale di rafforzare l’efficacia delle politiche territoriali facendo sì che i cittadini si approprino dei loro significati e contribuiscano a monitorarle e a correggerne il tiro.
In questo nuovo quadro, non pare da sottovalutare il recente organizzarsi anche di alcuni quartieri medi e ricchi per presentare le loro istanze in sede di Bilancio Partecipativo. Questo fatto, oltre ad essere un riconoscimento della forza reale acquisita dallo strumento nella distribuzione ‘trasparente’ dei fondi municipali, ne evidenzia la potenzialità come luogo privilegiato del dialogo fra la città formale e la città informale, capace di superare questo stesso dualismo suggerendo al potere politico quelle misure e quelle strategie di azione che da anni caratterizzano lo ‘scarto di qualità e di onnicomprensività dei problemi’ esistente fra le politiche di valorizzazione della città informale adottate a Porto Alegre e quelle di mera regolarizzazione (spesso accettata di malavoglia) di tante altre città latinoamericane.
In sostanza, la sintonizzazione in atto fra discussione collettiva del bilancio e strumenti urbanistici sembra in grado di consolidare reciprocamente entrambi come strumenti della città intesa quale un tutto unitario e al contempo polimorfico, dove il denaro pubblico non si dirige tanto a singoli settori di intervento, quanto a costruire una politica specifica per ognuno di essi; ridando alla spesa pubblica il suo ruolo non più rivolto al singolo cittadino ma all’organizzazione della società di cui promuove il riequilibrio. Questo rimanda alla potenzialità di evitare la riduzione dell’urbanistica ad urbanizzazione (caratteristica di molte politiche di regolarizzazione fondiaria di altre città brasiliane) e di propiziare un passaggio dell’ambiente da mero terreno di attuazione delle politiche territoriali ad orientatore delle stesse; cosa che finora appariva difficile da realizzare essendo quest’ultimo percepito come un lusso per salvaguardare il quale sarebbe stata necessaria la rimozione di vaste aree di abitazioni popolari con operazioni di polizia, oggi sostituite da azioni civili di negoziazione e convincimento.
In questo momento, i processi lenti e graduali con cui le Amministrazioni di oltre 70 città nel mondo e varie reti di organizzazione ‘di base’ (in Africa come in Francia, Spagna e Svizzera) vanno approfondendo lo studio dell’esperienza di Porto Alegre, chiedendo consulenze dirette e scambiandosi informazioni su tentativi e formule di adattamento del sistema di Bilancio Partecipativo a realtà territoriali culturalmente, socialmente e politicamente diverse dalla città brasiliana, sono da ritenersi una garanzia per il futuro. E non solo di una volontà diffusa di cambiamento del rapporto tra istituzioni e società civile, ma anche di una serietà di analisi che non si accontenta più (come negli anni passati) di cercare di ‘imitare’ l’esperienza di Porto Alegre in modo frettoloso e acritico, ma attinge allo spirito dell’esperienza brasiliana per cercare di ‘emularla’ con la coscienza di quanto sia precario il mito moderno della ‘replicabilità assoluta’, ripetuta causa di fallimento dell’applicazione di modelli ritenuti ‘esportabili sic et simpliciter’ ma incuranti di stabilire un rapporto costruttivo con identità locali e patrimoni sociali diversificati.
Del resto – come sottolineano a Porto Alegre a proposito del loro ‘fiore all’occhiello’ - ‘La felicità non deve essere considerata come un porto sicuro, ma come un modo di navigare’.
Secondo Tarso Genro, attuale sindaco di Porto Alegre, il processo ha consentito di rompere l’alienazione tradizionale della leadership comunitarie, ora esse cominciano a capire che i loro problemi non sono alieni alla situazione nazionale e internazionale.
Genro ritiene anche che l’OP non ha niente a vedere con la cooptazione di queste organizzazioni popolari da parte dello Stato, o con la loro dissoluzione nello Stato. Al contrario si forma un nucleo di potere al di fuori dello Stato, dell’esecutivo, e del legislativo. Per questo io ritengo che si tratti di un’esperienza altamente positiva e altamente rivoluzionaria.
Nell’esperienza di Porto Alegre si evince che i governi locali in mano ad una sinistra trasformatrice possono essere un’arma estremamente importante da opporre al neoliberismo, soprattutto perché danno il segno di un cammino alternativo in atto.
La responsabilità di questi governi è molto grande ed importante. I governi locali non mettono in gioco solo la loro azione, ma, in parte, anche il futuro politico della sinistra come quella che rappresenta il nostro partito.
Dopo avere analizzato il bilancio partecipativo ed il motivo del suo successo, proviamo a riflettere sulla perseguibilità possibile del modello.
Abbiamo visto che prima di raggiungere gli eccellenti risultati la macchina dell’OP ha vissuto una lunga fase di rodaggio e correzioni di rotta soventi, fino ad arrivare alla struttura odierna ancora perfettibile, ma perseguita da migliaia di cittadini della capitale dello stato del Rio Grande do Sul.
Quindi se vogliamo sviluppare un percorso analogo, dobbiamo pazientemente costruire un progetto molto aperto, correggibile, partendo dal presupposto che una ripetizione meccanica dell’OP brasiliano è difficilmente attuabile.
Non inibendoci per la scarsa attenzione che spesso i cittadini hanno nei confronti dell’attività amministrativa, e nel futuro rispetto la sperimentazione del Bilancio Partecipativo.
Gli spazi nella Provincia di Milano, a mio avviso, si possono trovare per una politica siffatta, qui si è espressa inizialmente la tendenza dello spostamento a destra, qui la popolazione capirà per prima i danni delle politiche berlusconiane. Nella provincia della frammentazione, del precariato, del territorio consumato e devastato possiamo giocarci le nostre possibilità, almeno possiamo tentarci.
I nodi più difficili da sciogliere sono principalmente due: con chi presentare e dove presentare il Bilancio Partecipativo.
E’ del tutto evidente e ne ho presentato prima le motivazioni che in alcune realtà è importante presentarci in coalizione, ovviamente sempre sottoscrivendo le alleanze sui contenuti politici e non in modo spurio, ma certe coalizioni accetterebbero il modello brasiliano?
Possiamo pensare che anche i partiti del centro sinistra in una certa misura rinuncino ad una parte rilevante e consolidata di attività amministrativa, a cedere, come si suole dire, pezzi di sovranità, ad essere un po’ meno rappresentanti ed un po’ più rappresentativi?
Nelle ipotesi in cui accettassero, è del tutto evidente che non possiamo accordarci su mediazioni che renderebbero il BP o orpello inutile ed ingombrante, o lobby di interessi specifici, o strumento che si ritorca contro gli stessi promotori.
L’architrave e diverse articolazioni del BP devono rimanere immutate rispetto il modello originale, senza ricercare una "terza via al bilancio partecipativo", meglio non fare nulla che creare un pasticcio.
Arrivare in fase d’accordo elettorale con le idee chiare sul progetto, pensando a poche differenti soluzioni di partenza, dove investire principalmente è il migliore passo iniziale possibile, dunque non una rivisitazione brutale del modello, ma cercare la prima connessione produttiva di consenso e partecipazione da operare vista la realtà territoriale: scuola, asili, strade, opere pubbliche, centri d’accoglienza, ecc., e la relativa impellente necessità.
Nel caso si intravedano possibilità di successo del BP per alcune realtà comunali, ma manca l’accordo su questo con altre forze, quale può essere la soluzione?
Senza rischiare di rovinare il progetto o "bruciarlo", si potrebbe valutare la forza, dirompente o meno, che la carta del BP avrebbe nel territorio, vedere quali possono essere gli organismi (politici, culturali e sociali) presenti nella realtà, o se esistenti i Social Forum, che riescano a condurre insieme a noi una campagna elettorale incentrata sul tema. Battaglia che deve essere ponderata con cura e con previsioni quasi perfette, perché il BP vive se le proprie decisioni si trasformano in cambiamenti reali, cioè non può esserci se non c’è una giunta che lo sostiene!
Il BP come abbiamo visto è uno strumento di "potere" di governo locale, se non c’è giunta il BP sarebbe monco, molto meglio creare dei gruppi di lavoro all’interno dei Social Forum locali sulle tematiche amministrative del comune. Ritengo, in ultima istanza, che un tentativo nella prossima primavera dobbiamo farlo, in coalizione con il centro sinistra o con parte della cittadinanza impegnata nei social forum o in organismi ad esso collegati, senza timori o paure di isolazionismo, almeno un caso deve essere sperimentato.
L’altra domanda è dove poterlo fare. E’ del tutto evidente che la località deve essere scelta collettivamente, dopo avere raccolto la disponibilità delle compagne e i compagni di un Comune nel volere provare a sperimentare il BP. Un solo elemento porto alla discussione per la scelta, secondo me, la realtà deve essere media, né piccola né enorme.
Nelle realtà piccole il rapporto con la propria amministrazione spesso è diretto, al sorgere di qualche problema i cittadini corrono in Comune, hanno facilità a parlare col sindaco o con l’assessore alla partita, su una gamma di scelte importanti le assemblee cittadine, seppure consultive, orientano l’attività amministrativa, penso che sovrapporre il BP, impoverirebbe l’istituto stesso e non attuerebbe nessun cambiamento significativo.
Non si potrebbe partire nemmeno in un comune densamente popolato, i primi risultati arriverebbero dopo troppo tempo per una prima verifica.
Ovunque si decida di sperimentare il Bilancio Partecipativo l’impegno del Partito dovrà essere generoso, sia in termini economici, sia in termini di aiuto militante. La campagna elettorale dovrà essere molto sostenuta con la costruzione d’iniziative di promozione del Bilancio oltre alla normale attività elettorale. Un esperimento che equivalga ad un grande investimento del Partito, per incominciare a costruire un altro mondo possibile.
Milano, 25 gennaio 2002
da "Punto Rosso - Milano"