PERCHE' E' IMPORTANTE IL MOVIMENTO "NO GLOBAL"

 

Riprendendo alcune spiritose considerazioni di Stefano Rosato "I no global e la schiavitù" sulla cultura che permea i no global, per dire la mia su questo movimento che appare come l'unica sostanziale novità emersa dopo la ventata neo-liberista iniziata nel mondo anglosassone negli anni '80.

ROSATO si fa portavoce di un'ideologia assoluta, il liberismo appunto, nella cui prospettiva, così come nella sua applicazione pratica, ci sono elementi di grave ingiustizia sia per il mondo occidentale che per l'umanità nel suo complesso.

Per ROSATO il livello di sviluppo raggiunto dalla cultura occidentale è il risultato, in ultima istanza, riconducibile allo sviluppo del capitalismo e della rivoluzione industriale.

Le storture o le contraddizioni presenti nella nostra società sono date dalle incrostazioni burocratico-marxiste (tra l'altro il nostro vede una linea di continuità che lega Bismarck a Cofferati!) che impediscono il libero dispiegarsi delle forze del mercato.

In primo luogo ritengo che la libertà di cui tutti noi godiamo all'interno delle nazioni occidentali sia il risultato del confronto tra diverse ideologie (tra le quali sicuramente il socialismo) che dalla rivoluzione industriale in poi, si sono contrapposte all'esercizio del libero mercato.

Un esempio per tutti: il diritto di sciopero porta un vantaggio economico all'imprenditore? Credo di no! Allora perché in tutti i paesi occidentali questo diritto viene riconosciuto? Forse perché all'imprenditore viene riconosciuta una superiore qualità umana che è quella di operare delle scelte in virtù di un superiore benessere generale e di una maggiore libertà di tutti gli individui (compresi i lavoratori) che compongono la società!? Bene, credo sia giunto il momento di informare l'amico Stefano che il diritto di sciopero (così come buona parte dei diritti concreti che compongono l'astratto concetto di libertà) è il risultato di decenni di lotte da parte dei movimenti "corporativi" che hanno "infestato" le società occidentali.

La controprova, sempre a beneficio di ROSATO, si può trovare nella Corea del Sud, oppure in tutti i distretti industriali che lavorano per le multinazionali occidentali (Cina, Vietnam, Indonesia), dove a fronte di regimi politici differenti (comunisti o dittature sotto protezione americana) le libertà e i diritti dei lavoratori sono azzerati.

Credo che in quelle realtà ci troviamo di fronte al "puro" dispiegamento delle dinamiche liberiste, senza "incrostazioni corporative" che ROSATO vanta a maggior gloria del liberismo.

Il ruolo dello Stato

Secondo i liberisti "puri" lo stato deve avere un ruolo minimo nella vita dei cittadini. Sicuramente deve essere escluso dall'esercizio diretto delle imprese e dalla regolamentazione dei mercati.

In una logica di puro liberismo, persino le leggi antitrust americane, sono una ingiusta intromissione dello stato nelle dinamiche del libero mercato.

Allo stato resta sostanzialmente il potere poliziesco e millitare per tutelare la sicurezza dei propri cittadini e i loro diritti di proprietà.

I liberisti sostengono che qualsiasi intromissione dello stato nella vita dei cittadini sottrae libertà; conseguentemente uno stato che assume su di sé la funzione ad esempio di redistribuzione del reddito, attraverso strumenti di welfare, appare come un rapinatore che oltretutto opera secondo categorie di giusto / ingiusto; diventa insomma uno stato etico.

 

 

Ma è proprio vero che lo stato liberale si contrappone allo stato etico?

Riporto alcuni passaggi di Ermanno Bencivenga contenuti nel "Manifesto per un mondo senza lavoro".1

"Uno stato esiste per molte ragioni: per garantire la sicurezza dei cittadini, per facilitarne la produzione e i commerci, per aggregare le loro risorse in progetti di interesse comune.

Ma la ragione fondamentale della sua esistenza è di promuovere lo sviluppo etico dei cittadini: agire in modo che essi diventino e vogliano diventare gli esseri umani migliori possibili.

L'autorità che fonda uno stato gli è conferita dall'impegno che ciascun cittadino assume nei suoi confronti; dunque uno stato che non faccia del suo meglio per procurare il benessere dei cittadini sta tradendo la fonte stessa della sua autorità; sta così dichiarando la sua inconsistenza e inettitudine.

Uno stato di questo tipo non adempie suo compito che non ha ragione di esistere, i suoi cittadini hanno il diritto morale di dissociarsi, così come un figlio ha il diritto di dissociarsi da un genitore violento e lo studente da un sistema scolastico repressivo.

Nella tradizione liberale degli ultimi due secoli questa tesi è stata regolarmente osteggiata, sostenendo che lo stato non può avere funzioni educative: il suo compito, quello minimale, è di fornire certi servizi e lasciare quindi campo libero all'iniziativa dei valori individuali.

Poiché in Italia chiese di diverso colore (cattolica, fascista e comunista) hanno storicamente ostacolato l'ideologia liberale ed per il fatto di essere oggi in crisi, il liberalismo estremo viene ora spacciato come una grossa novità, sostenuto dal nostro complesso di inferiorità culturale.

La pretesa liberale di uno stato che non educa è una chiacchiera.

Il problema con l'educazione è che è impossibile evitarla: un genitore che si rifiuti di dare qualsiasi insegnamento ai figli insegnerà comunque qualcosa (ossia il vuoto) e influenzerà comunque la loro vita futura.

Siccome l'educazione continua anche in età adulta, siccome ogni volta che entramo in contatto e interagiamo con un altro ci stiamo reciprocamente educando, questo problema si estende gli adulti.

Uno stato che dichiari di non impegnarsi sul piano educativo educherà lo stesso: educherà al nulla.

La scelta che ci si prospetta non è tra un qualche stato etico che intende promuovere uno specifico tipo umano e uno stato liberale che non abbia nessuna siffatta pretesa.

Metterla in questi termini confonde le idee, a tutto vantaggio della posizione liberale che ne deriva un immagine di serena neutralità, di atteggiamento sopra le parti.

Ogni stato è consono a un certo tipo umano, lo valorizza e ne favorisce così la diffusione; in ogni stato prospera il tipo umano ad esso consono.

Lo stato liberale, con un suo ideale educativo vuoto, è perfettamente consono al tipo umano la cui esistenza puntiforme, priva di dimensione di struttura, il cui essere si riduce ad avere e il cui benessere si riduce nella continua acquisizione di oggetti alieni.

Se questo tipo umano è quello che scegliamo di valorizzare, se è su questo che decidiamo di fondare la nostra etica, lo stato liberale riceverà la sua giustificazione dalla nostra scelta.

La situazione dunque è chiara: sulla base della nostra antropologia (cioè sulla concezione degli esseri umani) e della nostra etica (ossia di quanto di quella concezione ha per noi un valore) troveremo autorevole un certo tipo di stato, quello che fa fiorire al meglio nei suoi cittadini gli aspetti ai quali assegnamo valore.

Se la nostra antropologia concepisce gli esseri umani in termini di teoria dei giochi, come se fossero dotati, di un certo numero di preferenze e come se fossero tesi unicamente a soddisfare queste preferenze a spese degli altri concorrenti, e se la nostra etica si riduce ad affermare che chi vince ha sempre ragione, il nostro stato liberale somiglierà ad un casinò senza fini di lucro: si eliminino tutti gli ostacoli affinché i giocatori possono scontrarsi senza distrazioni."

Dunque anche lo stato liberale è uno stato etico.

Ma qual è il ruolo dello stato all'interno dei processi di globalizzazione?

Il modello di globalizzazione che si è sviluppato in questi anni ha via via ristretto l'ambito di responsabilità dello stato attribuendo quote importanti di sovranità ad istituzioni sovranazionali (FMI, Banca Mondiale, G8, Unione Europea, OCSE..).

Negri e Hardt2 sostengono la tesi che la globalizzazione attuale sta configurando un nuovo tipo di impero.

"I fattori primari della produzione e dello scambio (il denaro, la tecnologia, il lavoro e le merci) attraversano con crescente facilità e confini nazionali; lo stato ha sempre meno potere per regolare questi flussi e per imporre la sua autorità sull'economia. Anche i più potenti tra gli stati non possono più essere considerati come supreme autorità sovrane non solo all'esterno, ma neppure l'interno dei propri confini.

Tuttavia, il declino della sovranità dello stato non significa che la sovranità, in quanto tale, sia in declino. Nel corso di queste trasformazioni, i controlli politici, le funzioni statuali e i meccanismi della regolazione hanno continuato a governare gli ambiti della produzione degli scambi economici e sociali. La tesi di fondo che sosteniamo in questo libro è che la sovranità ha assunto una forma nuova, composta da una serie di poteri nazionali e sovranazionali uniti da un'unica logica di potere.

Questa nuova forma e sovranità globale ciò che chiamiamo impero.

Al contrario dell'imperialismo, l'impero non stabilisce alcun centro di potere e non poggia su confini e barriere fisse. Si tratta di un apparato di potere decentrato e deterritorializzante che progressivamente incorpora l'intero spazio mondiale all'interno delle sue frontiere aperte e in continua espansione."

La risposta dei "NO GLOBAL" a questa sfida che sposta il terreno del confronto su scala mondiale è di fondamentale interesse per il futuro dell'umanità.

Le forme organizzative che il "movimento dei movimenti" sta assumendo, transnazionale, tematico, il rifiuto di una rappresentanza politica generale, ma soprattutto le forme di coordinamento e di decisione che dovrà assumere in futuro, rappresentano, a mio modo di vedere, una risposta efficace di fronte alla deterritorializzazione delle istituzioni imperiali.

Tra l'altro vorrei evidenziare come sia sbagliato definire il movimento come "NO GLOBAL" perché nessuno, tranne qualche piccola frangia marginale, si oppone al processo di globalizzazione in quanto tale. Sarebbe come opporsi al fatto che il sole tramonta e che le persone muoiono.

Il tema in discussione è iQUALE GLOBALIZZAZIONE.

La globalizzazione che si è ad oggi realizzata è quella dei mercati delle merci e della finanza che non fa altro che accentuare gli squilibri esistenti a livello di sviluppo, di ecosistema e di utilizzo delle risorse mondiali (si pensi al tema del controllo del petrolio o delle fonti di acqua -il petrolio del XXI secolo).

Il movimento è in una fase di gestazione e mi sembra ingeneroso e soprattutto miope rifiutare il fatto che questo movimento sta imponendo all'opinione pubblica mondiale (diciamo almeno in tutti quei paesi dove è consentito accedere ai canali di informazione, non solo all'informazione data dalle grandi multinazionali della comunicazione, e dove si può esercitare il diritto di espressione) la centralità dei temi dello sviluppo sostenibile.

Secondo Ramonet 3 il movimento deve avere almeno la funzione di esercitare un potere morale nei confronti dei centri decisionali che costituiscono il nuovo impero.

"Al Forum di Porto Alegre vengono esposti i mali dell'umanità. Qui abbiamo i cahiers de doleance, come li aveva la Rivoluzione francese. Passando da un seminario all'altro, vediamo migliaia di persone riunite a discutere di tutto quello che non funziona: acqua, istruzione, lavoro, ambiente, le grandi città, la salute etc. Un catalogo di tutto quello che non funziona. E' una sorta di appello morale ai padroni del mondo, per inchiodarli alle loro responsabilità."

Proprio perché il movimento è in movimento, già a Porto Alegre, è riuscito ad individuare alcuni punti sui quali svolgere una battaglia comune che unisce le varie anime che lo compongono (vedi documento finale del Forum http://spazioweb.inwind.it/rfiorib)

Prosegue Ramonet "Il debito, ad esempio. Tutti sono d'accordo per annullarlo, è immorale. Ma anche i paradisi fiscali, la tassa Tobin, gli organismi geneticamente modificati, la questione dell'acqua, la sicurezza degli alimenti, l'emancipazione della donna, i bambini schiavi, l'istruzione."

In aggiunta porto ad esempio il tema della riforma o meglio della soppressione di un'istituzione sovranazionale come il Fondo Monetario Internazionale.

I Paesi del G8 rappresentano ca. il 14% della popolazione mondiale, ma possiedono il 48% delle quote e dei diritti di voto nel FMI (gli Stati Uniti, da soli hanno il 17% delle quote).4

Tutti gli interventi di sostegno erogati dal FMI rispondono sostanzialmente a due logiche.

La prima è l'importanza strategica che il paese debitore riveste per il mondo occidentale.

Si noti ad esempio, che la Turchia ha ricevuto negli ultimi due anni finanziamenti per 20 miliardi di dollari5 a sostegno dell'establishment filo-occidentale che rappresenta un puntello fondamentale per la politica NATO nel Medio Oriente. Certamente non sono state fatte raccomandazioni o pressioni per il rispetto dei diritti umani (pena di morte, tortura, repressione del popolo kurdo…), ma sono state fatte valutazioni esclusivamente di natura geopolitica.

La seconda pre condizione per accedere ai finanziamenti del Fondo è l'applicazione di programmi di liberalizzazione e privatizzazione di interi settori economici e di riduzione del welfare (pensioni, sanità pubblica…). L'Argentina (25 miliardi di dollari di finanziamento negli ultimi 2 anni)5 è lì a dimostrare cosa significa applicare le regole del gioco.

Come si può pensare che queste istituzioni, questi pilastri del nuovo impero, possano auto-riformarsi senza una pressione forte da parte delle opinioni pubbliche mondiali?

Mi risponda l'amico Stefano.