PUBBLICATA LŽULTIMA PARTE DELLA BIOGRAFIA DEL GRANDE ECONOMISTA. SI SCOPRE LŽATTUALITÀ DELLA SUA VISIONE ATTIVA DELLO STATO
KEYNES, SE CI SEI BATTI UN GLOBAL
GLI uomini di potere si illudono di decidere tutto da soli ma in realtà sono schiavi di qualche economista defunto: nel bene e nel male, utilizzano senza accorgersene idee messe in giro da altri diventando poco più che strumenti per la loro diffusione. Così scriveva John Maynard Keynes nelle conclusioni della Teoria Generale e quest'osservazione appare particolarmente appropriata ora che è proprio Keynes, il maggior economista anglosassone del Novecento, a influenzare dalla tomba politici inconsapevoli. Quando esalta le virtù del deficit pubblico per rilanciare l'economia, a esempio, il presidente Bush, a parole un liberista convinto, diventa, sia pure in maniera grossolana, un keynesiano malgré lui. Con la sua recente riscoperta, si completa lo straordinario ciclo del Keynes postumo. Nel dopoguerra, l'élite occidentale lo osannò come il demolitore di Marx e il salvatore della proprietà privata, colui che aveva indicato la via di un capitalismo riformato (il "neocapitalismo") in grado di evitare la disoccupazione e neutralizzare le spinte rivoluzionarie; nel nome di Keynes vennero varate le politiche economiche che portarono alla "miracolosa" crescita dell'Europa Occidentale e la macroeconomia di origine keynesiana divenne il linguaggio unificante di una nuova cultura economica sovrannazionale. A partire dall'agosto del 1971, però, con la fine del sistema monetario di Bretton Woods - basato sui cambi fissi e la convertibilità del dollaro in oro, alla cui creazione Keynes aveva contribuito in maniera decisiva - la sua stella tramontò rapidamente e venne messo in soffitta senza troppi complimenti, come un residuo degli anni della Grande Depressione, dai fautori della nuova "economia dell'offerta": da salvatore del capitalismo venne sommariamente degradato al rango di criptosocialista. Del resto, osservò qualcuno, non aveva forse sposato Lydia Lopokova, una ballerina sovietica? Sull'onda di un'emergenza esterna (il terrorismo) e di un'emergenza interna (gli scandali contabili che fan scendere le Borse) oggi Keynes viene tirato giù dalla soffitta. Il caso ha voluto che la nuova attualità di Keynes coincidesse con l'uscita prima in Gran Bretagna (Fighting for Britain) poi negli Stati Uniti (Fighting for Freedom) della terza e ultima parte della sua monumentale biografia, opera dello storico e politologo Roy S. Skidelsky, un maestro di questo genere letterario quasi soltanto anglosassone, che, come i precedenti, sarà pubblicato in Italia (nel 2004) da Bollati Boringhieri. Nel volume che copre gli anni dal 1937 alla morte nel 1946, si intrecciano la figura di Keynes, economista ed eminenza grigia del Tesoro e quella di Keynes alle prese con una salute resa malferma da una grave cardiopatia. Ed entrambi si fondono nella rappresentazione, non priva di drammaticità dietro il tono distaccato, di Keynes negoziatore, capo della delegazione britannica nella durissima trattativa - resa ancor più dura dalla salute calante - con gli Stati Uniti che sfocerà negli accordi di Bretton Woods, ossia nelle basi di quella che oggi si chiamerebbe l'economia globale del dopoguerra. La Gran Bretagna di Keynes era arrivata spossata alla guerra. In pochi mesi fu costretta a dar fondo a tutte le sue riserve valutarie, i prezzi tornavano a salire, i principali beni di consumo erano razionati, le fabbriche producevano a fatica quanto serviva alle forze armate. Churchill lanciava appelli sempre più urgenti a Roosevelt perché l'America venisse in suo aiuto. L'aiuto arrivò, ma non certo gratuitamente: il Congresso e il presidente guardavano con diffidenza quello che era ancora un enorme impero coloniale ed erano visceralmente sospettosi della politica di Londra. Skidelsky mette a nudo l'asperità nei rapporti tra alleati che la propaganda di guerra voleva "fraterni", la chiara consapevolezza che il governo americano aveva della propria forza, il suo desiderio di un netto primato mondiale. Gli americani tennero in vita la Gran Bretagna ma, per dirla con le parole di Keynes, prima di prestare effettivamente aiuto, "si accertarono minuziosamente che Londra fosse il più vicino possibile alla bancarotta". Con la "legge affitti e prestiti", Londra dovette cedere a Washington basi militari nei Caraibi e vendere sottocosto agli americani molte imprese possedute da capitale inglese in America. Toccò a Keynes di condurre queste trattative disuguali, nel disinteresse di un Churchill affascinato soprattutto dai problemi militari e non fa meraviglia che al di là dell'Atlantico non si trovasse bene: "Una visita agli Stati Uniti - scrisse a un amico - è per me qualcosa di simile a una malattia grave che deve essere seguita da una convalescenza". Gli americani, dal canto loro, ne ammiravano l'intelligenza ma non ne sopportavano facilmente l'arroganza. Superata la fase acuta dell'emergenza, si aprì uno scenario di più lungo termine: come evitare che, come il primo, anche il secondo dopoguerra fosse un risicato periodo di fame, povertà, pericolosi sussulti sociali? Come consentire alle nazioni depauperate dal conflitto di ricostruire le proprie economie? Come, come impiantare un sistema economico globale basato su pacifici scambi commerciali? In due anni di trattative, si consumò una sottile partita a scacchi tra la potenza soverchiante degli Stati Uniti e una Gran Bretagna imperiale dal fiato corto e tra due uomini diversissimi: da un lato Keynes, già famoso, intellettualmente brillante, collezionista di libri antichi, finanziatore di teatri e musei, dall'altro Harry Dexter White, il capo delegazione americana dall'infanzia dura e dalle simpatie socialiste (passò a Mosca un buon numero di notizie riservate e fu poi sospettato di spionaggio) uomo metodico e poco noto, grigio, scostante, di grande capacità. E soprattutto conscio di avere il coltello dalla parte del manico. Gli americani volevano lo smantellamento dell'impero britannico, che ancora comprendeva l'India e gran parte dell'Africa, e la fine della "preferenza imperiale" che di fatto faceva di questi vastissimi territori un'area aperta al resto del mondo solo attraverso Londra. Gli inglesi, pur rassegnati a una riduzione del proprio potere, non gradivano certo una semplice successione americana e speravano di ottenere una internazionalizzazione vera e propria. Keynes riteneva che si dovesse dar vita a una "banca delle banche centrali", in grado di emettere la propria moneta, il "bancor", con il compito di rifornire il mondo di liquidità sufficiente, un'istituzione al disopra delle parti che avrebbe ridotto il potere degli Stati Uniti. White voleva creare un vero e proprio Fondo, con un capitale effettivamente sottoscritto dove gli americani con le loro risorse finanziarie sarebbero stati assolutamente determinanti. Dopo due anni di trattative, l'epilogo si ebbe a Bretton Woods, una località turistica del New Hampshire, "un misto di Svizzera e Scozia", come la definì Lydia Lopokova. Bisognava far presto: il 30 giugno, quando vi giunse Keynes, gli angloamericani avanzavano in Francia e i russi avevano iniziato l'offensiva che li avrebbe portati a Berlino; il 22 luglio, quando la conferenza terminò, i russi erano prossimi a Varsavia, gli angloamericani a Parigi. Gli americani, naturalmente, ottennero l'istituzione del Fondo Monetario sostanzialmente alle proprie condizioni; gli inglesi riuscirono a far accettare l'istituzione della Banca Mondiale, destinata però a un ruolo nettamente secondario. Agli inglesi restò un ruolo speciale per la piazza finanziaria di Londra e un'incertezza cronica sulla collocazione internazionale del paese che dura ancora oggi, mentre gli americani, attraverso lo strumento dei prestiti per la ricostruzione assunsero immediatamente una posizione dominante. Già nel marzo 1945, alla successiva riunione organizzativa di Savannah, di fatto decisero tutto loro. "Sono venuto a Savannah per un incontro mondiale e vi ho incontrato soltanto un tiranno", scrisse Keynes esasperato. Gli Stati Uniti esercitarono benevolmente la "tirannia" ma non vi fu mai dubbio alcuno, nel mezzo secolo successivo su chi effettivamente comandava. Chiamando in causa il potere americano e le regole "americane" del mercato, a cominciare da quelle, apparentemente semplici, della contabilità, le crisi attuali sono un'occasione per riformare davvero le istituzioni internazionali e val la pena di tirar fuori da cassetti impolverati le lezioni di allora. Keynes e White agirono dopo una crisi economica mondiale lunga e profonda e durante la maggior guerra di tutti i tempi; oggi ci troviamo di fronte a una guerra strana ed elusiva, che speriamo finisca presto, e a una crisi che speriamo non venga mai. Abbiamo ancora la possibilità di salvare il buono della globalizzazione e costruire rapporti più uguali; e in questo ci potranno aiutare le analisi e le idee di John Maynard Keynes, quello straordinario economista oggi defunto.
Mario Deaglio
mario.deaglio@unito.it
Fonte: La Stampa
28/02/2002