LIBERTÀ E DIRITTI DI PROPRIETÀ
di Stefano Rosato
Caro Rodolfo,
se io dicessi, semplicemente e senz’altra argomentazione, che il socialismo è un sistema di pensiero politico mostruoso e motivassi quest’affermazione sulla sola base del fatto che mostruose sono state le sue realizzazioni storiche, tu potresti sempre ribattere che, in realtà, sono solo le realizzazioni storiche ad essere mostruose, devianti rispetto all’idea, e non l’ideologia socialista originaria. Infatti io sostengo, più propriamente, che le realizzazioni storiche dell’idea socialista sono necessariamente mostruose in quanto l’idea socialista è mostruosa, configurandosi, a tutti gli effetti, come una forma di odioso dominio dell’uomo sull’uomo, senza alcun rispetto per le libertà individuali: il regime stalinista era un regime totalitario e quindi mostruoso non malgrado fosse socialista, ma proprio perché lo era. Nel bellissimo saggio "Sulle origini del totalitarismo", Hannah Arendt ha spiegato che il totalitarismo, forma affatto moderna di potere assoluto e distruttore di qualunque normale relazione umana, nasce a partire da ideologie che sostituiscono una finzione con la realtà e, conseguentemente, applicano la finzione alla realtà, finendo per falsificare interamente quest’ultima. Nello specifico caso del socialismo, l’ideologia marxiana contiene quegli elementi di finzione che la rendono predisposta a tradursi in totalitarismo: la storia non è, infatti, riguardata da Marx come una serie di azioni prodotte da singoli uomini, ma, sulla scorta dell’idealismo assoluto hegeliano, che la leggeva come un movimento dello spirito assoluto che si ricongiungeva con sé stesso (Erinnerung) dopo la scissione originaria (Entäußerung, che è anche la parola che Marx utilizza per "alienazione"), risponde alla necessità di un movimento logico che non è in alcun modo alterabile dalla volontà umana. Il medesimo rigido determinismo, secondo Hannah Arendt, sarebbe alla base del nazismo, tramite la sostituzione del concetto di storia con quello di natura, o meglio di sviluppo storico delle razze. Pertanto il socialista che massacra (fisicamente) il borghese al fine di espropriarne la proprietà non commette in realtà un reato perseguibile, ma si limita ad accompagnare, al limite ad accelerare, il movimento della storia, che è un movimento necessario, rispetto al quale non si possono prendere veramente le distanze in modo umano, proprio perché esso è un che di metafisico, che trascende l’orizzonte dell’umano. Se questa è l’essenza dell’ideologia socialista (e, francamente, mi sembra un po’ difficile sostenere il contrario, almeno se parliamo del socialismo di stampo marxiano, che è quello alla base dello sviluppo storico del movimento operaio nel suo complesso, dalla Prima Internazionale ai no global), allora non può stupire che le sue realizzazioni storiche siano state radicalmente inumane, foriere di sistemi politici che hanno completamente disgregato qualunque consorzio civile.
Ora, sulla base dello stesso metodo, è possibile tentare una rapida analisi del liberalismo e misurare la sua teoria rispetto alla sua applicazione. L’idea portante del liberalismo politico è che ciascuno è il proprietario di sé stesso, che nessuno ha il diritto di disporre del suo corpo, che nessuno può impedirgli di ricercare la propria felicità finché questa ricerca non si traduce in un danno diretto nei confronti di altri soggetti, che nessuno può negargli la facoltà di pensare e di esprimere le proprie opinioni. Uso la parola "nessuno", ma dovrei dire "lo Stato". E’ fuor di ogni dubbio che l’utilizzo illiberale dei corpi, l’impedimento fisico alla ricerca della felicità, la negazione della facoltà di pensare e di esprimere le proprie opinioni siano stati, nel corso della storia, atti compiuti più dallo Stato nei confronti dei singoli che non da singoli nei confronti di altri singoli. Per la teoria liberale lo Stato deve appunto esistere (se deve esistere, e, per esempio, la posizione del libertarianism nega anche che lo Stato debba esistere) solo per garantire ciascuno e tutti dall’aggressione da parte di altri tesa a negare le libertà fondamentali che ho sopra ricordato. Tuttavia proprio questo ruolo di garante rende lo Stato superpotente, in quanto gli affida il monopolio dell’uso della forza fisica in un territorio determinato; è fondamentale, pertanto, vincolare questo strapotere, limitandone fortemente e chiaramente il raggio d’azione (sempre che ciò sia possibile).
Questi diritti di libertà fondamentale non si danno senza diritti di proprietà, tanto più in una comunità complessa. Prendiamo il caso semplice del diritto di manifestare le proprie opinioni: per farlo è necessario dotarsi di mezzi di comunicazione propri, oppure utilizzare quelli di altri. Se ipotizziamo che lo Stato possieda tutti i mezzi di comunicazione, per esempio tutte le televisioni e tutti i giornali, sarà suo interesse che io, liberale, liberista e libertario, quindi radicale antistatalista, usi i suoi mezzi per propagandare idee che, qualora fossero accolte, danneggerebbero seriamente il suo strapotere? Di fatto, ove possedesse tutti i mezzi di comunicazione tipici di una società di massa, lo Stato controllerebbe tutti i flussi di trasmissione delle idee, il che comporterebbe né più né meno che una situazione di dittatura. Peraltro quando diciamo Stato dobbiamo intendere non un’entità vuota e astratta, ma un consesso di uomini che, occupando posizioni di potere, prendono decisioni che da questo potere sono strettamente influenzate. Lo Stato, in questo senso, è l’élite che lo governa, un gruppo umano parassitario che vive dei proventi di un sistema fiscale imposto a tutti coloro che non sono parte di quell’élite (che anche l’élite paghi le tasse tramite il prelievo fiscale su una retribuzione che si è attribuita prelevando il denaro necessario dalle tasche di coloro che non appartengono all’élite è, evidentemente, una falsa rappresentazione del concetto di equità sociale). Quindi, ipotizzare che lo Stato possieda tutti i mezzi di comunicazione significa creare uno scenario logico nel quale l’élite al potere determina totalmente la pubblica opinione, in una situazione di tipo dittatoriale. Potremmo, tuttavia, ipotizzare che esistano dei mezzi di comunicazione pubblici ma non controllati da nessuno, a disposizione di tutti; sorgerebbe il problema di quali siano le priorità di assegnazione degli spazi e degli orari di trasmissione, e di come ci si debba regolare in caso di conflitto. Ancora una volta solo lo Stato potrebbe regolamentare tale conflitto, ma, per un verso, il suo intervento non potrebbe essere neutro, in quanto esso è appunto un’élite interessata, e, per l’altro, insorgerebbero comunque momenti di tensione fra i singoli che desiderano esprimere le proprie idee. Ne consegue che, affinché esista un processo di comunicazione delle idee e delle opinioni, è preferibile che i mezzi di comunicazione siano di proprietà privata, che lo Stato non intervenga in alcun modo a regolamentare i flussi di informazione tramite azioni di tipo censorio, dettate, ancora una volta, dall’interesse dell’élite al potere, e che non possieda a sua volta alcun mezzo di comunicazione il cui unico scopo sarebbe quello di consentire libertà di espressione all’élite al potere, a spese della maggioranza governata. Ma, si ribatterà, come ci si potrebbe difendere rispetto al caso limite che si verificherebbe qualora vi fosse un solo singolo soggetto, sia pure diverso dallo Stato, a possedere tutti i mezzi di informazione esistenti? Anzitutto questo stato delle cose sarebbe comunque preferibile a quello in cui questo soggetto fosse lo Stato, in quanto si tratterebbe di un accadimento non necessitato da una norma, e quindi comunque libero di essere cambiato da altri soggetti desiderosi di diventare editori giornalistici o televisivi. In secondo luogo tale rischio esiste soltanto laddove si parta dal presupposto che lo Stato conceda e regolamenti gli spazi di comunicazione: infatti nel mondo della carta stampata e in quello della tecnologia di rete non esistono monopoli dei mezzi di comunicazione, come accade invece nel mondo delle televisioni. Ma ciò è dovuto al fatto che lo Stato ha deciso, in luogo del libero mercato, che determinate frequenze siano opzionate su tutto il territorio nazionale da un singolo operatore; se lo Stato non avesse tale potere, allora quel singolo operatore dovrebbe fare i conti con chiunque decidesse di occupare una data frequenza in un dato luogo, e, quindi, o consorziarsi con quest’ultimo, oppure accettare una limitazione della propria capacità di trasmissione; un’altra ipotesi potrebbe essere basata sul metodo degli homesteaders, sul metodo cioè con cui veniva assegnata la terra ai pionieri: chi per primo occupa una data frequenza ne diviene il proprietario e nessuno può trasmettere su quella banda senza il suo permesso (1). Ciò garantirebbe rispetto al monopolio di fatto, ovvero il dispiegarsi del libero mercato senza alcun intervento da parte dello Stato.
In questo senso diritti di libertà e diritti di proprietà coincidono in maniera molto netta, come è stato mostrato fin dai tempi di John Locke: se non mi è dato di possedere un ciclostile sul quale stampare le mie idee, se devo utilizzare un ciclostile pubblico, mettendomi in coda, magari per mesi, o se devo chiedere allo Stato di consentirmi l’uso di un suo ciclostile (comunque con problemi di diritto di priorità oltre che di censura), io non sono affatto libero di propagandare le mie idee, mi è negata dallo Stato la possibilità di esprimermi. Ciò detto, dobbiamo affrontare il problema di come regolarci nel caso in cui Rodolfo Fioribello, che non possiede alcun ciclostile, mi chieda di utilizzare il mio per esprimere le sue idee, che sono del tutto contrarie alle mie. Al di là del fatto che io intenda o meno chiedergli una prestazione di natura economica per consentirgli l’uso del mio ciclostile, tale consenso non può che essere un mio assoluto appannaggio: nessuno (si legga, ancora, lo Stato) mi può costringere ad utilizzare in un modo o nell’altro la mia proprietà, che è necessario esista perché io sia libero, ad esclusione di quei casi nei quali il suo utilizzo, o un suo scorretto utilizzo, danneggi fisicamente la proprietà o la libertà di un altro. Io potrei, per esempio, avere talmente tante cose da dire da rendere il mio ciclostile utilizzabile solo da me, e, qualora qualcuno (lo Stato) mi forzasse a rinunciare ad alcune delle mie idee per lasciare il mio ciclostile a Fioribello per un certo tempo, mi sottrarrebbe, insieme al possesso del mezzo per quel tempo, anche la libertà di opinione, che non può essere limitata da un potere superiore, ma deve essere pura e completa. In questo caso si mostra come la limitazione del diritto di proprietà sia una limitazione del diritto di libertà. In altre parole, qualunque dottrina politica e dello Stato che preveda, sulla base di fini ritenuti più o meno superiori, una qualsivoglia limitazione del diritto di proprietà – ciò avviene per lo più sulla base del concetto di bene pubblico – si presenta, ipso facto, come liberticida; e, viceversa, laddove i diritti di proprietà siano molto ampi e non soggetti ad alcuna limitazione da parte di un ente superiore, siamo sempre in presenza anche del massimo grado di libertà (2).
Queste poche annotazioni di teoria liberale fanno sorgere la domanda se la struttura socio-politica dell’Occidente capitalistico sia di natura liberale, da un lato, e fino a che punto lo sia anche la storia dell’Occidente, dall’altro. Per venire alla domanda finale posta da Fioribello nel suo "In risposta a Stefano Rosato: la globalizzazione liberale" (Bloom!, 17 Dicembre 2001), devo rispondere che la storia dell’Occidente e la sua attuale configurazione economico-politica sono di natura parzialmente liberale, testimoniano di un liberalismo incompiuto che, installandosi su una struttura politica precedente, l’ha radicalmente mutata, senza tuttavia definitivamente cancellarla. Le costituzioni di tutti gli Stati occidentali, inclusi gli Stati Uniti d’America, contengono, a fianco di affermazioni tipicamente liberali, anche ibridazioni di matrice socialista o di derivazione religiosa. Per esempio, l’articolo 43 della Costituzione Italiana, che prevede il diritto di esproprio da parte dello Stato, è difficilmente considerabile come una norma di derivazione liberale. Il sistema di welfare state che domina nel mondo occidentale è del tutto antitetico rispetto allo spirito liberale, liberista e libertario; il sistema di tassazione diffuso, che ha come scopo quello di mantenere una pubblica amministrazione del tutto inefficiente (sulla base di una sua supposta pubblica utilità), e, con essa, il dominio dell’élite al potere, è del tutto non liberale, sia per ciò che concerne la sua entità (dovuta a un allargamento illiberale della sfera d’azione dello Stato), sia per ciò che concerne le forme nel quale esso si manifesta (per esempio, delegando alle imprese private il compito di riscuotere le tasse con il prelievo sul reddito dei dipendenti, senza peraltro remunerare in alcun modo tale azione); l’immenso potere concesso alla magistratura, che in molti casi spende il denaro pubblico in processi di natura chiaramente ideologica, senza rispondere in alcun modo delle proprie azioni, è proprio di uno spirito non liberale, e con esso, in Italia, il permanere di un sistema di carriere non rigidamente separato fra pubblica accusa e magistratura giudicante; il finanziamento pubblico dei partiti, è illiberale; la coscrizione obbligatoria è illiberale. Sono solo alcuni esempi, forse i più macroscopici, della profondità della cultura non liberale nelle nostre società.
Anche dal punto di vista storico è possibile ravvisare esempi dello spirito non liberale, il più marcato dei quali, a mio giudizio, è costituito dal colonialismo e dall’imperialismo, ovvero dal dominio condotto da una macchina economico-militare ai danni di popolazioni inermi e incolpevoli, contro il quale si sono lungamente battuti i liberali classici nell’Ottocento e molti libertari nel Novecento. La limitazione del potere dello Stato, propria della dottrina liberale, non è solo relativa alla politica interna, ma riguarda anche quella estera. A partire dalla coscrizione obbligatoria, che fu introdotta come prassi generalizzata da quello Stato moderno che ha il suo pensatore più coerente in Hobbes, uno dei filosofi più lontani dalla dottrina liberale che si conoscano, e che è una forma di schiavitù legalizzata, tutte le modalità che hanno consentito allo Stato di espandersi militarmente all’estero, estendendo il proprio dominio, sono di derivazione non liberale. Sarebbe, d’altro canto, del tutto contraddittorio e illogico che una teoria che ha come fine ultimo la libertà e la limitazione massima possibile del potere dello Stato accettasse la logica dell’espansione militare, che, necessariamente, rafforza strutturalmente la macchina statale, con inevitabili ricadute su tutto il sistema della convivenza sociale. Non deve essere trascurato, nell’analisi storica dell’imperialismo e del colonialismo, il ruolo giocato dalle vecchie caste pre-industriali, che erano la colonna vertebrale dell’esercito e della burocrazia statale, e, sia pure in misura minore, dai partiti socialisti, che sovente videro nell’azione imperialista una valvola di sfogo per le masse, soprattutto in periodi di crisi economica. Ciò che non riuscì al liberalismo, soprattutto europeo, fu proprio l’azione politica tesa a vincolare il potere dello Stato-nazione, che ne costituisce il nemico naturale. Nell’epoca delle democrazie di massa si è assistito, infatti, a una polarizzazione dei consensi e quindi dell’azione politica fra un blocco conservatore, avente come obiettivo la difesa di una serie di privilegi acquisiti o da sempre posseduti da parte dei ceti dominanti, e un blocco di matrice socialista, il cui scopo è, di fatto, stato quello dell’estensione di una parte di questi privilegi, unitamente ad altri assolutamente nuovi, al ceto dei lavoratori salariati. Un partito liberale di massa non c’è, in sostanza, mai stato (prescindo qui da qualunque considerazione su questa "assenza", in quanto una siffatta analisi ci porterebbe troppo lontano), anche se molte delle istanze liberali classiche sono state fatte proprie da ciascuno dei due blocchi di dominio sociale sopra evidenziati. Per esempio è tipica delle forze di derivazione socialista, dei liberals odierni, la difesa dei diritti e delle libertà civili, anche se, invero, con qualche eccezione; come è tipica delle forze conservatrici la difesa della proprietà privata, anche se spesso i conservatori prestano scarsa attenzione alle commistioni fra imprenditoralità economica e sfera del potere statale, poiché la loro azione politica è fortemente incentrata sul concetto di notabilato. Il prevalere con alterne fortune dell’uno o dell’altro dei due blocchi nella lotta per il potere politico all’interno dei paesi occidentali ha, alla fine, prodotto in essi, Stati Uniti inclusi, un insieme ibrido, una mescolanza, di istanze liberali, conservatrici e socialiste, sia al livello delle singole costituzioni che a quello dell’agire quotidiano e della legislazione ordinaria. Il fatto che tale insieme ibrido sia anche composto da istanze di natura liberale non ne fa, per ciò stesso, un agglomerato di tipo liberale, liberista e libertario, ma testimonia piuttosto di un lavorìo di mediazione sottostante. Se lo scopo ultimo del pensiero conservatore è la difesa dei privilegi e dell’ordine sociale tradizionale, e quello socialista coincide con la giustizia sociale sotto forma di liberazione delle grandi masse da un supposto stato di "schiavitù" (dico supposto perché il concetto di schiavitù è un concetto molto chiaro e preciso e non riguarda in alcun modo quello di lavoro salariato, in quanto nessuno costringe il salariato con la forza fisica a prestare la propria opera, ma quest’ultima si configura come un’azione assolutamente libera da parte del singolo soggetto), lo scopo ultimo del pensiero liberale è la libertà di tutti dal potere assoluto del Leviatano, libertà che si può tanto più ottenere quanto meno lo Stato si intromette per regolamentarla, ad eccezione (forse) della mera attività di mantenimento dell’ordine pubblico e di amministrazione della giustizia.
In realtà, poiché è ormai evidente il declino probabilmente inarrestabile dello Stato-nazione, ci si deve chiedere quanto di queste tre ideologie fosse dovuto alla sua esistenza, e quanto invece valga anche all’interno delle nuove dinamiche di aggregazione delle società che si stanno prefigurando nell’epoca che, sulla scorta di Toni Negri e Michael Hardt, possiamo ormai definire imperiale; ovvero che senso abbiano i concetti di privilegio, di giustizia sociale e di libertà nel nuovo scenario epocale che si sta prefigurando, a quali condizioni essi possano essere pensati e quali conseguenze vi siano al loro sviluppo logico. Vorrei, insieme a Rodolfo Fioribello e agli altri amici del sito, iniziare a confrontarmi su questo tema, che sarà uno dei temi chiave del dibattito politico dei prossimi anni.
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Note:
(1) Questa è la posizione sostenuta da Murray Newton Rothbard in "Per una nuova libertà. Il manifesto dei libertari".
(2) In questo senso devono essere rigettate alcune formulazioni liberali non estremistiche, come quelle di Ludwig von Mises e, in modo più sfumato, di Friedrich von Hayek, in base alle quali lo scopo della dottrina liberale sarebbe identico a quello della dottrina socialista, ovvero l’edificazione della migliore società possibile. Anche qualora fosse dimostrato che la teoria socialista dello Stato porta a una realizzazione sociale superiore a quella cui conduce la dottrina liberale dello Stato, ciò non toglierebbe nulla al fatto che il socialismo è un’ideologia radicalmente liberticida, in quanto, secondo il suo dettato, la sfera dello Stato viene indebitamente estesa al di fuori del pertinente e la sua azione diventa totalitaristicamente violenta in nome dell’ideale di giustizia sociale. Ciò che importa al liberalismo è appunto la difesa della libertà e della proprietà, indipendentemente dalla considerazione sugli effetti benefici per il corpo sociale sottesi a questa scelta di campo.