LA GLOBALIZZAZIONE E IL PENSIERO LIBERALE
di Stefano Rosato
Tra tutte le teorie dello Stato e dell'agire politico, che hanno costellato la storia della modernità, l'unica che non sia stata foriera di apparentamenti con forme di organizzazione della comunità di tipo totalitaristico è quella liberale.
Tanto la sinistra social-comunista, a causa del concetto fondante di dittatura del proletariato, quanto la destra nazi-fascista, per il tramite dell'ideologia dei regimi totalitari mussoliniano, hitleriano, franchista, ecc…, hanno infatti mostrato una tangenza difficilmente discutibile con la pratica dell'illibertà eretta a sistema. Per ciò che concerne l'altra grande teoria politica dell'Occidente moderno, quella cattolica, non può essere considerato neutrale il fatto che la sua massima espressione istituzionale, lo Stato del Vaticano, sia l'ultima monarchia assoluta del mondo civilizzato. La superiorità della dottrina liberale dello Stato appare in maniera assai marcata sul versante della pratica: benessere diffuso, scoperte scientifiche, accesso al sapere da parte di grandi masse, risoluzione di problemi sanitari che per millenni hanno afflitto l'umanità, garanzia del libero esercizio delle idee politiche, laddove le teorie antagoniste summenzionate hanno di contro prodotto disastri economici e umani talmente evidenti da non meritare alcuna discussione al riguardo.
Tuttavia tale indiscutibile superiorità pratica è direttamente dipendente da una superiorità di carattere teorico, di tipo squisitamente logico, che è alla base della dottrina liberale dello Stato. Tale superiorità risiede nel carattere realistico della teoria liberale, nel suo essersi formata nel corso della storia come contrapposta ai sogni della metafisica e a quelli dei visionari che vorrebbero, infondati, fondare cosmi di necessità teorico-pratica all'agire politico e alle forme genetiche della comunità. Se non fosse dimostrabile la superiorità teorica del liberalismo, allora qualsiasi pensiero politico antagonista avrebbe un diritto logico di esistenza al di là del fatto che le sue realizzazioni storicamente determinate si siano, finora, dimostrate perdenti e, apparentemente (è il caso del socialismo), contraddittorie rispetto a una parte del proprio statuto teorico.
La superiorità del pensiero politico liberale, quel realismo cui si accennava, risiede, essenzialmente, nella considerazione dell'uomo civile e libero come essere animato da un originario egoismo: uscito dallo stato di bisogno primigenio, dal mondo mitico dell'etica del branco, dall'età della non-individuazione, esso, in quanto individuo, rivendica un diritto assoluto alla propria autodeterminazione, oltre la sfera della propria comunità; si fa, in qualche modo, Soggetto puro, Io puro. Essere assolutamente senza radici, assolutamente desiderante, l'uomo libero prende, forma, forgia, elabora, contrapponendosi alla cultura mitica del dare, dell'essere appartenente a, dell'essere parte di, dell'essere formato da altro da sé. Il primo problema che sorge in questo nuovo contesto è quello della relazione fra questo soggetto e gli altri suoi simili. Poiché è evidente che questa infinita soggettività si scontra con altre affini, è necessario, al fine di evitare il bellum omnium contra omnes, e con esso la morte di qualsiasi soggettività, che questo infinito desiderio di potenza del soggetto libero venga limitato, per consentire l'esercizio della Wille zur Macht di tutte le soggettività possibili.
Tale limite, che nel soggetto libero nasce dalla consapevolezza e quindi dalla ragione, è costituito, per la dottrina liberale, dallo Stato, il cui compito è pertanto quello di consentire il libero sviluppo e il libero agire dell'egoismo di ciascuno dei membri che ad esso hanno dato vita. Lo Stato come limite dovrà essenzialmente regolamentare il conflitto sempre in essere fra i suoi membri, evitando che ciascuno di essi compia atti che danneggino in modo diretto gli altri membri della comunità, difendendo la libertà e la proprietà di ciascuno. E' proprio tale limitatezza dello Stato ciò che consente di definirlo liberale, ovvero garante del massimo grado di libertà pensabile, immediatamente al di qua del confine del bellum omnium contra omnes. Lo Stato liberale non potrà, pertanto, dire a nessuno dei soggetti ciò che deve essere fatto, ciò che deve essere pensato, ma soltanto ciò che non deve essere fatto; esso, per essenza, possiede una natura negativa, non forgia alcuna etica comunitaria, ma semplicemente esiste per garantire l'esercizio, nella sfera del privato, di tutte le possibili etiche di tutti i possibili soggetti, finché esse non diano luogo a momenti di impedimento dell'esercizio delle etiche altrui. Lo Stato liberale non nasce per uomini che abbiano il senso della schiavitù come senso portante, che accettino la sottomissione a un potere in cambio di un qualche benessere materiale, ma per uomini liberi, titani che, globalizzando la propria esperienza, estendendola costantemente oltre il limite consentito agli uomini, rifiutano qualunque teologia della storia, qualunque filosofia definitiva, veritativa, relegandola nella sfera del privato, rifiutando che essa possa fondare un agire politico, una forma dello Stato.
I rapporti tra i singoli soggetti infinitamente desideranti saranno pertanto limitati dallo Stato esclusivamente per ciò che concerne la garanzia del diritto di tutti ad esercitare il proprio libero desiderio, ma, all'interno del limite così definito, le relazioni fra i singoli desideri dei singoli soggetti non potranno, per definizione, essere limitate da altro da sé: esse si autoregolamenteranno nella forma del libero mercato, del libero interscambio di prodotti, creazioni, idee, sulla quale lo Stato non può avere alcuna presa, alcuna pretesa di limitazione, senza oltrepassare il proprio limite, senza snaturarsi diventando totalitario. Per il diritto liberale, il totalitarismo dello Stato (implicito nel concetto stesso di Stato) si dissolve, al limite, in quanto lo Stato stesso tutela il libero soggetto dal proprio strapotere: lo Stato, infatti, non può appropriarsi di ciò che mi appartiene o della mia libertà in quanto, se ciò facesse, verrebbe meno al proprio statuto, che è quello, unico, di difenderle, di garantirle. A quest'altezza la differenza fra la dottrina liberale e quella democratica dello Stato è massima, come ha già notato von Hayek: la decisione della maggioranza di tutti i membri di una comunità di privarmi della mia libertà senza che io abbia commesso alcun danno diretto a nessuno è legittima in un regime democratico, in quanto avvenuta a maggioranza, mentre è assolutamente illegittima nella logica del pensiero liberale. In questo senso ciò che è più lontano dall'idea liberale dello Stato è la pretesa di regolamentare il mercato, di definire il confine del libero agire dell'uomo economico, sulla base del superiore interesse della comunità, in quanto l'unica ragione di essere di tale comunità è la difesa della libertà e della proprietà dei singoli soggetti che la compongono. L'unica eccezione alle limitazioni che il diritto liberale pone al potere dello Stato è costituita dal momento bellico, ovvero dal momento in cui l'esistenza dello Stato è radicalmente messa in discussione per un attacco di tipo militare interno o esterno; tale momento, tuttavia, deve essere riguardato come eccezionale e definito dal punto di vista temporale. Inoltre l'attacco militare esterno possiede un carattere di necessità logica soltanto all'interno di un contesto storico-politico dominato dalla presenza degli Stati-Nazione, ma cessa di essere possibile qualora si immagini, come Kant nel saggio sulla pace perpetua, che la stessa dinamica che è stata operante nella costruzione di ogni singolo Stato venga attivata anche nella regolamentazione dei rapporti fra gli Stati, fino alla formazione di uno Stato sovranazionale, rispetto al quale non vi potrebbe essere più nulla di esterno. La sola rivolta interna tesa a sovvertire i poteri dello Stato o a sostituire altre forme politiche a quella dello Stato liberale rimarrebbe, così, l'unico momento di sospensione della limitazione del potere dello Stato; esso sarebbe necessario in quanto sia la distruzione dello Stato sia la sostituzione dello Stato liberale con un'altra forma di Stato eliminerebbero, del tutto o in parte, la libertà e la proprietà per la cui difesa quel potere è stato istituito. Tale sospensione della limitatezza dello Stato sarebbe peranto conforme allo scopo dello Stato stesso e quindi assolutamente legittima.
Nel concetto di tolleranza, che prevede la libera espressione delle idee, anche quando esse siano esplicitamente contrarie al pensiero liberale, risiede uno degli elementi della forza storica del liberalismo, che lo differenzia nettamente dalle altre forme politiche di governo elaborate nel corso della modernità. Il diritto al dissenso e la tutela delle minoranze sono, infatti, i punti di debolezza di tutti i sistemi non liberali, laddove il fatto che il mondo liberale tolleri l'esistenza di teorie contrarie alle proprie testimonia, invece, la sua apertura al pluralismo e alla diversità che quelle stesse teorie vorrebbero cancellare. Fedele al principio dell'imperativo categorico kantiano, il liberalismo non può vietare l'espressione di idee, nemmeno qualora esse siano eversive rispetto al suo statuto. Ciò non significa, ovviamente, che dal punto di vista del pensiero tali idee non siano criticabili, né che, se esse dovessero tradursi in pratica dell'agire, lo Stato non abbia il diritto di esercitare la propria azione di carattere repressivo. Il concetto di traduzione di un'idea in pratica dell'agire è tuttavia molto più insidioso di quanto non si pensi: il divieto costituzionale di alcuni Stati liberali relativo alla formazione di aggregati politici di matrice comunista o fascista, che partecipino all'agone elettorale e possano, prendendo il potere, sovvertire l'ordine dello Stato, potrebbe sembrare un'azione preventiva e quindi un'interpretazione delle intenzioni e non un giudizio basato su fatti. Tuttavia l'ordinamento liberale conosce alcuni reati che esistono indipendentemente dal fatto che siano o meno accaduti degli eventi specifici (per esempio il reato di minaccia), la cui natura consente azioni giuridiche di carattere preventivo che sarebbero, invece, impossibili in un regime democratico puro, nel quale solo il volere della maggioranza possiede un valore fondante. E' dunque possibile che, a un determinato partito, venga fatto divieto di costituire un cartello elettorale; tale decisione, tuttavia, non può essere presa da un potere di natura politica (ad esclusione del suo inserimento nella carta costituzionale), ma solo da un potere di natura giuridica, laddove sussistano elementi certi e di gravità tale da renderla necessaria. Si tratta, peraltro, di uno strumento che, proprio a causa della sua discrezionalità, assai discutibile, è stato usato di rado e, in molti Stati liberali, non è stato usato affatto.
Pur garantendo la libera espressione di qualsiasi pensiero, al di fuori di ogni censura e di ogni limitazione, il pensiero liberale non può non criticare aspramente quelle posizioni che, sulla base di supposti interessi comunitari superiori, ne minino i presupposti fondamentali. L'interesse comunitario di natura superiore assume connotati differenti per le diverse ideologie: esso si fonda sul diritto ad avere sulla base dei propri bisogni per l'ideologia comunista e dei propri meriti per quella socialista; sul diritto di ogni singola comunità ad autodeterminarsi escludendo tutte le altre e dichiarandole come nemiche (o come tradizionalmente "altre", nell'accezione più moderata) per la teoria fascista; sull'essere stata investita la comunità da un atto di origine divina, che l'ha costituita come tale, differenziandola ontologicamente da tutte le altre, per le teorie politiche di stampo religioso. In tutti questi casi, infatti, il diritto di un singolo individuo, per esempio quello di intraprendere libere azioni economiche o di esporre le proprie idee, è sempre sacrificabile sulla base dell'interesse della comunità nel suo complesso, o di quello dei suoi membri più poveri, o di quello dei più. Non solo, ma, in ognuna di queste teorie, si annidano pericolosi assunti del tutto arbitrari e non dimostrabili logicamente: per esempio chi stabilisca quali siano i bisogni e i meriti di ciascuno, posto che ciascuno debba ricevere sulla base dei propri bisogni o meriti; quali siano i criteri con cui si definisce una comunità dal punto di vista etnico; come si possa razionalmente stabilire che una data comunità sia stata investita dall'atto divino che l'ha resa sacra; ecc… La teoria dello Stato liberale è volutamente "minima" proprio per evitare che la vita politica sia governata da tali atti di arbitrio.
Con un rovesciamento semantico rispetto alla tradizione scolastica, Kant attribuisce all'intelletto ciò che la filosofia medievale attribuiva alla ragione, essendo, per essa, l'intelletto votato, tramite l'intuizione intellettuale, alla conoscenza delle cose divine. Per Kant, invece, l'intelletto è un'isola della quale è possibile descrivere i confini, ma dalla quale è pericoloso distaccarsi per intraprendere il viaggio nei mari della metafisica che viene lasciata come oggetto della ragione, in realtà del tutto inconoscibile, come inconoscibile è l'essenza delle cose che ci si offrono come rappresentazioni fenomeniche e delle quali ignoriamo il quid noumenico. La nostra conoscenza sarà pertanto relativa, parziale, provvisoria, in fieri - falsificabile, dirà Popper - e questo concetto non può non riverberarsi sull'essenza dello Stato che non nasce per realizzare la vera essenza dell'uomo o della comunità, ma esiste come un che di limitato e minimo, che deve garantire, per ciascuno, il diritto alla ricerca della propria felicità, senza tuttavia imporla dall'esterno e, soprattutto, senza definirla. Rispetto al passaggio kantiano, che libera, sulla scorta del pensiero illuministico, la ragione da secoli di metafisica ingiustificata e ingiustificabile, l'idealismo hegeliano e marxista e le farneticazioni di Novalis sulle nozze alchemiche del Re e della Regina, appaiono come altrettanti momenti di regressione nella storia del pensiero. La cattiva infinità della soggettività sempre mutante, sempre alla ricerca del superamento dei propri limiti, della quale per Hegel è rappresentante Fichte, lo streben, il tendere a, che caratterizzano l'uomo moderno e la sua storia, verranno, dopo Kant e Fichte, visti come problemi da superare, come il "Male". Laddove il "Bene" sarebbe la fine della ricerca, della ricchezza del conflitto, del dinamismo della storia, sia nella vulgata marxista del raggiungimento di un nuovo stato edenico che in quella romantica e cattolica del ritorno a quello precedente. Tutto ciò che si oppone al pensiero liberale e alla sua dinamica è, in fondo, magicamente attratto dall'astrazione di una storia senza storia, dal desiderio di rimuovere una volta per tutte qualsiasi contraddizione, qualsiasi polemica, qualsiasi immagine della vita come lotta, come azione. Dal punto di vista logico è irrilevante che tale opposizione si svolga dal versante dei poveri e degli oppressi o da quello di un potere dominante che tenta, ad ogni costo, di non cedere la propria supremazia; questa nuance riguarda piuttosto la psicologia, la ragione profonda di ciascun agire. Ciò che importa, dal punto di vista logico, è il rifiuto della differenza differenziante che, sola, permette uno sviluppo e un accrescimento delle esperienze umane, un miglioramento delle condizioni di vita e la possibilità di compiere, relativamente al futuro, scommesse di tipo sensato.
Fonte: www.bloom.it
09/2001