NEW GLOBAL Risposta a Porto Alegre

Tempi duri per i troppo cattivi

Essere bravi in affari non basta. Ora bisogna essere socialmente accettati. Lo scrivono 36 top manager mondiali

Alessandra Puato

"Anche nelle classi dominanti albeggia il presentimento che la società odierna non è un solido cristallo, ma un organismo in costante processo di trasformazione". Lo scriveva il 25 luglio 1867 Karl Marx, a prefazione del suo Das Kapital . Deve pensarlo oggi anche il capitalista Bill Gates, l’uomo il cui reddito equivale al Pil della Bolivia, che ha appena lanciato un piano sanitario da 24 miliardi di dollari per il Terzo Mondo. Il 4 febbraio, al World Economic Forum di New York, mentre a Porto Alegre si riunivano i no-global e Wall Street cercava di parare il fallimento Enron, ha espresso opinioni "rivoluzionarie". "I ruoli di manager di multinazionale e di cittadino non possono più essere separati - ha detto il presidente di Microsoft -. È sano che ci siano dimostranti nelle strade. Dobbiamo cominciare a discutere su quanto il mondo ricco stia restituendo quel che dovrebbe ai Paesi in via di sviluppo". Lo stesso giorno 36 presidenti, amministratori delegati, direttori generali di multinazionali industriali, di consumo, finanziarie - da Coca-Cola a McDonald’s, da Edf a Renault, da Siemens a Deutsche Bank, da Diageo a Ubs - a chiusura di quel Forum, hanno firmato un documento, "The Leadership Challenge for Ceo and Boards " (La sfida della leadership per amministratori delegati e consigli di amministrazione).

I big si impegnano a mettere al centro degli affari non più la crescita immediata del profitto, ma "l’attenzione al sociale". Ad "accrescere i moltiplicatori positivi" della loro attività e a "minimizzare ogni impatto negativo sulla popolazione e sull’ambiente". A spostare l’attenzione dai diritti dell’azionista a quelli del cittadino, dallo shareholder value - il valore di chi possiede i titoli di Borsa --allo stakeholder value - il valore di chi sostiene alle fondamenta la società (consumatori, lavoratori, fornitori). A uscire dai muri delle loro fabbriche, insomma, per ancorarsi a quel "territorio" finora corteggiato da sindacati e sinistre.

A quella "cittadinanza" che sta prendendo sempre più potere. Parlano di ricchezza come condivisione, di profitto come premio alla correttezza, di budget annuali come progressivi passi verso un risultato che verrà. Bontà? No, necessità.

"I leader di ogni Paese, settore e livello - scrivono i 36 manager - devono lavorare insieme per lo sviluppo sostenibile e assicurare che i benefici della globalizzazione siano distribuiti equamente. È nell’interesse del business". "Anche a costo di respingere opportunità di profitto", ha precisato Rolf Breuer di Deutsche Bank. Che ha ammesso: "Non lo facciamo per altruismo. Le ricerche di mercato dicono che i consumatori sono disposti a pagare di più i prodotti di aziende percepite come socialmente responsabili".

Gates non è tra i sottoscrittori del documento. Il magnate del software, che con la moglie raccoglie fondi per gli ospedali del Terzo Mondo, non ha messo il proprio nome sotto quello di Rahul Bajaj, presidente della Bajaj, il colosso indiano degli scooter. Ma Vernon Ellis, presidente di Accenture, sì. E commenta così: "Il 4 febbraio 2002 resterà una data storica. La nostra non è stata una risposta cosmetica alle critiche alle multinazionali, è la soluzione per recuperare valore per gli azionisti sul lungo periodo. Oggi un’azienda può essere profittevole solo se mette in atto comportamenti che aggiungano valore e reputazione. Ed è importante che si muova davvero, non per simboli: con accordi, joint venture, iniziative locali. La fiducia dei consumatori viene dalla sua capacità di mantenere le promesse". Una posizione che vale come indiretta risposta al caso Enron: "Dobbiamo mostrare al mondo che facciamo affari in modo onesto", dice Ellis. E che dovrebbe spingere al capitalismo a fin di bene anche due presidenti firmatari come Douglas Daft, della Coca-Cola, e Jack Greenberg, della McDonald’s. "È il primo segnale forte del cambiamento di sensibilità del sistema dopo il G8 di Genova e le Torri Gemelle - dice Diego Visconti, amministratore delegato di Accenture Italia -. La Carta dà modo ai consumatori di valutare l’affidabilità delle aziende".

Una vittoria marxiana? La sconfitta dell’economia di mercato? "No - risponde Giacomo Vaciago, docente di politica economica in Cattolica -: è il trionfo della Terza via". E se l’industria si avvia sull’onda di Tony Blair è perché non c’è scelta: "Falliti il capitalismo liberista e l’alternativa socialcomunista - dice Vaciago - tutti hanno reinventato il capitalismo sociale, con l’anima".

Che però, per funzionare, "richiede che siano stabilite e rispettate buone leggi: per esempio, per un bilancio pulito". Onestà, insomma, e lungimiranza.

Come nel primo ’900. "Il capitalismo dei nostri nonni aveva una sua moralità - dice l’economista - non importava fare i soldi ma farli onestamente. Non era il capitalismo di rapina del breve periodo. Dopo l’ubriacatura della finanza alla Enron, attenta ai prossimi cinque minuti, c’è un recupero di quel modello. E il documento dei 36 Ceo - di fatto una risposta ai no global di Porto Alegre - è meglio che niente".

Il fatto è che alle multinazionali viene oggi chiesto l’impensabile: giustificarsi. E, incredibile, rispondono. Lo fa notare Enrico Valdani, ordinario di marketing in Bocconi e presidente di Valdani Vicari & associati : "Il sentimento di non fiducia nei confronti delle grandi imprese sta crescendo in tutto il mondo - dice - ora sono costrette a giustificare il proprio ruolo. Non possono più prendere, devono restituire". Perciò Bill Gates, rileva Nicola Pianon, vicepresidente del Boston Consulting Group, "ha dovuto mettere la propria faccia sui giornali in una campagna di aiuti sanitari: per umanizzare la Microsoft ".

Ai capitalisti del XXI secolo non basta essere bravi negli affari. Devono sentirsi accettati.

Fonte: Corriere della Sera Corriere Economia 02/2002