BENETTON: "VIVA I LOGHI, MA I NO-GLOBAL HANNO MOLTE RAGIONI"

 

Intervista con il numero uno del gruppo di Ponzano Veneto: "Sulla povertà e sul clima il movimento antiglobal dice cose giuste, che andrebbero ascoltate dai potenti del mondo"

di Sergio Luciano

TREVISO - "Il movimento no-global è sbilanciato dai tanti estremisti che accoglie al suo interno, e che lo spingono a ricercare obiettivi irrealistici. Ma su certi temi gli antiglobal hanno ragione: sul Medio Oriente, ad esempio, o sul clima. Temi su cui gli Stati Uniti e la loro politica non mi convincono affatto". Luciano Benetton, un "logo" in carne e ossa, dal suo osservatorio mondiale radicato a Ponzano Veneto - Treviso - non parla di "globalizzazione dal volto umano": non gli piacciono le frasi fatte. Va al sodo. E, a capo di uno dei pochissimi gruppi italiani noti in tutto il mondo - con la Ferrari e Pavarotti il logo Benetton è forse l’unico marchio del nostro Paese ad avere notorietà davvero globale - distribuisce i torti e le ragioni tra gli antiglobal e i loro avversari, in parti sostanzialmente bilanciate.

Partiamo proprio dalle accuse al fenomeno dei marchi: le condivide?

"Per carità, la polemica sul marchio è sbagliata. Il nome puoi viverlo come vuoi: come una firma, come un sigillo di garanzia... Sta di fatto che identifica il prodotto e il suo contenuto specifico, Se ti piace, bene: lo sai subito. Tutto qui. Del resto, il libro No-logo di Naomi Klein, è un super-logo in se stesso".

E allora dov’è che i no-global hanno ragione?

"Molte sono ancora le barriere da abbattere, prima fra tutte quella di un mondo diviso in due diverse aree di civiltà: l’area di coloro che hanno accesso alla tecnologia più avanzata e allo sviluppo economico, e l’altra di chi non ha neppure un computer per diventare cittadino del mondo. Dobbiamo operare perché i benefici della globalizzazione arrivino a tutti, senza esclusioni che alimentino nuovi conflitti e tensioni sociali. Le faccio un esempio. Mi è capitato di passare per i campi profughi della Palestina: ecco, sono una mina vagante, l’Occidente non dovrebbe permettere il crearsi e il perdurare di situazioni simili...".

Cos’è, filo-arabo e anti-israeliano?

"Semplicemente penso che difficilmente si potrà litigare con l’Islam e con gli arabi produttori di petrolio. Non conviene né a noi né a loro. Tanto vale mettersi d’accordo"

Ma se l’Occidente non riesce a mettersi d’accordo neanche al suo interno... Sul clima, ad esempio: che ne pensa di Kyoto?

"Se è vero che tecnologia e industria ci possono dare una vita migliore, è altrettanto vero che ciò non potrà più avvenire a discapito della salute del nostro pianeta. E’ giunto il momento di provare seriamente a coniugare le ragioni dello sviluppo con la tutela dell’ambiente. In questo senso il rifiuto di Bush di firmare l’accordo di Kyoto mi appare incomprensibile".

Lei è preoccupato?

"Io sono un ottimista per carattere e per mestiere, quindi credo sempre che in un modo o nell’altro le cose andranno a posto. Certo che si vedono tante difficoltà e poche soluzioni, su questi temi. Per esempio la crisi Argentina: ci riguarda tutti direttamente, c’è poco da fare. Nell’era della globalizzazione economica e finanziaria le crisi sono solo apparentemente locali: non si possono sottovalutare, bisogna curarle".

Nel suo Veneto la globalizzazione ha un volto assai discusso: il volto degli immigrati extracomunitari, slavi o asiatici o africani, che riempiono le fabbriche e raccolgono le bordate razziste di una parte della Lega. Lei cosa ne pensa?

"Che oggi occorrerebbe poter assumere in Veneto tra i 10 e i 20 mila lavoratori extracomunitari per coprire posti che gli italiani non coprono. E che un modo responsabile di gestire un’esigenza del genere è curarne tutti gli aspetti, compresi quelli logistici degli alloggi e della sussistenza di queste persone. Problemi del genere, finora mai affrontati, rischiano di deflagrare. Oggi il pericolo è avere dei ghetti in cui violenza e emarginazione creano una polveriera sociale. Ecco: globalizzare umanamente significa prevenire degenerazioni di questo genere".

La Benetton non produce quasi niente al di fuori dell’Europa. E’ una scelta?

"Guardi, oggi produciamo in Italia meno della metà del nostro venduto. Il resto, in Europa, e precisamente nell’Est europeo, oltre a una fabbrica in Tunisia. Io credo che una scelta del genere nasca da un doppio vantaggio: quello, immediato, dell’azienda che mantiene alto lo standard qualitativo risparmiando lecitamente sui costi; e quello dei Paesi meno ricchi che accolgono investimenti qualificati, fatti da chi come noi vuole valorizzare manodopera a più basso costo ma già dotata di una buona qualità produttiva. Così facendo aiutiamo la crescita di quei Paesi, scommettiamo sull’allargamento dell’Europa ad Est, e difendiamo la nostra crescita. Ma già sappiamo che il ciclo dell’espansione del benessere continuerà a girare, per cui tra qualche anno delocalizzeremo ulteriormente le nostre attività, di pari passo col crescere dei costi nei Paesi dell’Est europeo in cui operiamo oggi".

Come va il gruppo?

"Bene, direi. E investe"

Di questi tempi?

"Sì. Perché è vero che non siamo in un momento di espansione: ma neanche di crisi. I prezzi non scendono per questo. Ed è il momento di investire. Noi lo stiamo facendo su vari fronti: per esempio sul piano immobiliare, perché il nostro gruppo sta facendo molti investimenti diretti nei nuovi megastore. E in informatica, perché vogliamo collegare i nostri punti vendita in una vera e propria rete".

Che sollievo sentir parlare di investimenti su Internet di questi tempi. Come mai?

"Perché l’informatica e le reti sono una risorsa preziosa, e tali restano. Noi non crediamo nel commercio elettronico business-to-consumer, cioè dal produttore al consumatore, perchè nell’abbigliamento il consumatore cerca il rapporto diretto con la merce. Ma l’e-commerce funziona, e come, nel cosiddetto business-to-business".

E come potenzierete la vostra rete?

"Collegando meglio i negozi, le dicevo. Oggi nel 70-80% dei negozi siamo in grado di suggerire ogni giorno un cambio di vetrina. Non ci basta: vogliamo fare di più. E per fare di più ci occorre una rete migliore".

Be’, del resto la tecnologia vi piace, vi è sempre piaciuta: siete entrati in Telecom per questo, o no?

"E’ una diversificazione molto importante per noi. Del resto, abbiamo dimostrato di saper gestire o accompagnare la crescita delle aziende a rete in cui siamo entrati. Dalle Autostrade all’Autogrill alle Grandi Stazioni. Così sarà anche per Telecom: mio fratello Gilberto ed io riponiamo la massima fiducia nella collaborazione con Tronchetti Provera e il gruppo Pirelli".

Nonostante la più generale crisi dell’economia?

"Ma guardi, a rischio di sembrare monotono, le ripeto che sono ottimista. C’è molta più sfiducia che oggettiva difficoltà. Guardi la Germania, o il Giappone. La Germania è al centro dell’Europa, dove l’euro ha creato una condizione di favore senza precedenti e si sta in fondo comportando bene verso il dollaro. Gli Usa sono più deboli di quanto vogliano ammettere. Ma l’Europa, e in essa la Germania, ancora non riparte: colpa di elementi oggettivi? Più che altro, colpa della sfiducia. Ma la sfiducia passa. Come pure il Giappone: ci sono ritardi, e ci sono guasti storici, per esempio nel settore creditizio. Ma il Paese è forte e dinamico: lo considero ancora il Paese del futuro".

E l’Italia?

"Il nuovo governo deve avere il tempo di dimostrare ciò che sa fare. C’è, e bisogna dargli spazio. Occorre un welfare più moderato, meno esigente, e occorre una ripresa d’entusiasmo e di investimenti da parte delle imprese. A queste condizioni, la ripresa si rivelerebbe a portata di mano".

Fonte: Il Nuovo

(25 FEBBRAIO 2002, ORE 11)