MA NOI, QUALE MONDO VOGLIAMO?

di Achille Occhetto

Quale sarà il mondo che non sarà mai più lo stesso? La democrazia non sta funzionando e i cittadini si sentono sempre più deprivati di ogni potere effettivo. Sentiamo pertanto il bisogno di creare dei contatti, anche una semplice rete di comunicazione e informazione che metta insieme i tasselli delle diverse ricerche in corso che si muovono -per usare una espressione convenzionale - su una linea "new global".

Alla fine del secolo il mondo ha conosciuto due fondamentali risposte ai mali del pianeta: la protesta degli anni sessanta e la replica neoliberista degli anni novanta. Il mito e l'ideologia hanno portato al fallimento le due fondamentali visioni del mondo che si sono fronteggiate nel corso del novecento: quella liberista e quella della vecchia sinistra collettivista. Una sorta di impalpabile global economic governance si è sostituita ai tradizionali processi di formazione delle decisioni democratiche. Ora, chi governa l'economia a livello locale, nazionale, e globale? Questo è il mistero della nostra era. Ed è anche la domanda principale alla quale dobbiamo rispondere, se vogliamo trovare i rimedi al male del nuovo millennio. L'ineluttabile globalizzazione dei processi non può tuttavia nascondere il problema della loro qualità, e del loro controllo. In una parola non può eludere la questione democratica planetaria che sottende la nostra era. Le modalità della guerra in corso contro il terrorismo rappresentano una cartina di tornasole. Stiamo ai fatti: anziché una apertura sul mondo l'illusione della fortezza americana impedisce di analizzare le cause di fondo del terrorismo.

L'occasione dell' 11 settembre anziché operare nella direzione di un prosciugamento del mare nelle cui acque i terroristi navigano ha aperto, con questo tipo di guerra, nuove insanabili ferite. La catastrofe umanitaria che assedia ai suoi confini il Pakistan è il simbolo più eloquente della possibile destabilizzazione di gran parte dei

governi arabi moderati. Corriamo dunque il rischio che la frase "il mondo non sarà mai più lo stesso" suoni in modo sinistro e lugubre. L'origine di ciò sta nel fatto che la globalizzazione finanziaria americana non sta producendo crescita globale; anzi alla crescita americana fa fronte una contrazione della crescita mondiale. Gli esperti politico-finanziari avevano forse incominciato ad avvertire che la recessione poteva bussare alle porte e che in un simile contesto sarebbe diventato sempre più difficile imporre al resto del mondo, quando la crisi si sarebbe affacciata minacciosa, il mantenimento, anzi, l'accentuazione di un sistema di distribuzione diseguale della ricchezza mondiale. La militarizzazione dei problemi politici sembra pertanto essere la prima e rischiosa risposta alla crisi incombente. L'egemonia del mercato viene sostituita dall'egemonia delle armi. Per fortuna anche negli Stati Uniti è in atto un ripensamento: una parte dell'intellighenzia americana e delle elite politiche cominciano a rendersi conto della difficoltà di gestire il mondo con i vecchi criteri. Gli sviluppi della crisi attuale, molto accelerati, possono aprire ampi varchi per un movimento mondiale di contestazione alla guerra e a questo tipo di militarizzazione.

Bisogna ora impedire che questa guerra si dilati nel mondo. Bisogna invertire rotta. Bisogna dire la verità ai cittadini dei punti alti dello sviluppo, al fine di chiamare a raccolta tutte le competenze per combattere con efficacia i nuovi grandi rischi planetari che derivano dallo sviluppo distorto della società industriale. Non si può certo sottovalutare il grande valore che l'uso delle più moderne tecnologie ha avuto per lo sviluppo complessivo delle nostre società e nella lotta per la liberazione dalla fame e dalla indigenza di una parte della umanità. L'ispirazione culturale che dovrebbe guidarci non è sicuramente quella dell'avversione acritica nei confronti dei risultati della modernità e la nostra prospettiva non si riduce ad un ritorno indietro rispetto alle immense acquisizioni della scienza e della tecnica. Quello che auspichiamo è il passaggio ad una nuova e più matura fase della modernizzazione contrassegnata dalla transizione dalla produzione di rischi alla produzione di sicurezza. La stessa liberazione della parte più povera del mondo dalla fame può accompagnarsi alla liberazione dalla paura. Il contrasto fondamentale si sposta a livello della scienza e delle competenze e chiama in causa l'informazione. L'intento di una cultura di governo alternativa dovrebbe essere quello di fare un inventario dei rischi prodotti dall'attuale fase della modernizzazione; di monitorare le conseguenze dell'applicazione delle scoperte scientifiche al mondo della produzione o sulla stessa persona umana, ma, soprattutto, di implementare la ricerca nella direzione delle tecnologie della salvezza e della sicurezza. Invece l'impegno di quasi tutti gli stati del mondo per uno sviluppo sostenibile è sostanzialmente ipocrita e privo di risultati rilevanti. Questo stato di cose mi suggerisce di collocare in primo piano l'esigenza del passaggio da un generico sviluppo sostenibile ad un mutamento radicale della nozione stessa di sviluppo. La globalizzazione del rischio e della paura dovrebbe pertanto spingere l'umanità ad unirsi per far fronte al nuovo impegno planetario. Ma un autentico programma di pace, libertà e giustizia che si fondi su un nuovo modello e su uno sviluppo sostenibile richiede una globalizzazione che sia dei popoli, e che si fondi su una democrazia globale. Cioè sul federalismo e sul controllo democratico da parte dei cittadini. È giunta l'ora di passare dalle elaborazioni della fine della guerra fredda alla realizzazione di una nuova governabilità del pianeta attraverso la creazione di adeguate istituzioni sovranazionali e la riforma della stessa organizzazione delle Nazioni Unite.

Lo stesso processo di democratizzazione deve coinvolgere il mondo della comunicazione. Poche decine di uomini decidono delle opinioni e dei sentimenti di miliardi di cittadini. Lo scontro sul campo di battaglia della realtà virtuale diventa pertanto decisivo. Ci dobbiamo proporre l'obbiettivo di costruire la rete di una coscienza critica alternativa rispetto al messaggio mediatico della cultura monetarista mondiale.

Per affrontare l'insieme di questi temi occorre sviluppare la consapevolezza che il riformista non è un moderato che chiude gli occhi di fronte ai problemi che gli vengono posti dalle posizioni estreme, ma li sa guardare in faccia al fine di fornire le sue risposte riformatrici. Il riformista è un uomo coraggioso, che sente l'ardire della radicalità. Riformismo non è sinonimo di moderatismo. Il nostro liberalismo dovrebbe essere pertanto totale avversione al totalitarismo culturale della globalizzazione in corso, è il movimento stesso della libertà reale in cammino.

L'ambito nel quale dovrebbe muoversi un autentico riformismo di centrosinistra è - come cercheremo di dire e di fare con una prossima importante iniziativa - quello della piattaforma planetaria della nuova globalizzazione. Con l'obiettivo di lavorare politicamente e programmaticamente per dar vita - a partire dalla società civile e da una feconda contaminazione delle idee - ad una costituente della casa comune dei riformismi laici e cattolici. Lasciando ad altri le formule del politicismo corrente. 

Fonte: Unità

3/2002