Negli Usa un governo da guerra fredda
LA NUOVA STRATEGIA IMPERIALE
Nel giugno scorso, il presidente americano George W. Bush, in Europa per la sua prima visita ufficiale all'estero, ha deliberatamente scelto di non fermarsi a Londra, né a Parigi, né a Berlino. Da qualche mese, le relazioni tra le due sponde dell'Atlantico si sono raffreddate: marcato disaccordo sulla pena di morte e sulla politica ambientale (protocollo di Kyoto), tiepido disaccordo sul rilancio da parte dell'amministrazione repubblicana di una iniziativa di "difesa" strategica che rimetterebbe in causa i trattati di disarmo conclusi con Mosca. Ma la defezione di un senatore ha fatto perdere ai repubblicani la strettissima maggioranza di cui potevano disporre in questa assemblea, che svolge un ruolo importante nella definizione della politica estera. Su un punto, tuttavia, tutti sembrano d'accordo: mentre le spese pubbliche americane subiranno presto il contraccolpo del rallentamento della crescita e del gigantesco taglio fiscale approvato a giugno, il bilancio militare continuerà inesorabilmente ad aumentare.
dal nostro inviato speciale PHILIP S. GOLUB
"Siamo al centro", proclamava il senatore Jesse Helms nel 1996, "e al centro dobbiamo restare (...) Gli Stati uniti devono guidare il mondo, tenendo alta la fiaccola morale, politica e militare del diritto e della forza, e proporsi come esempio a tutti i popoli della terra (1)" Pochi anni dopo, il neo-conservatore Charles Krauthammer scriveva, con altrettanta immodestia: "L'America scavalca il mondo come un gigante (...) Da quando Roma distrusse Cartagine, nessun'altra grande potenza si è innalzata al culmine cui siamo giunti noi (2)". Il "momento unipolare", diceva profetico, durerà "almeno un'altra generazione".
E, proiettandosi ancora più in là nel futuro, un altro autore ha potuto affermare: "Il XVIII secolo è stato francese, il XIX inglese ed il XX americano. Il prossimo sarà un altro secolo americano (3)".
Questi inni trionfali ci danno la misura dell'euforia imperiale che dilaga nella destra americana dopo la fine della guerra fredda, e della distanza immane che ci separa dagli anni '80, quando autori del calibro di Paul Kennedy credevano di intravedere i segni strutturali di un appannamento dell'egemonia americana.
Ma, invece di rallentare il passo, gli Stati uniti a partire dal 1991 occupano una posizione unica, senza precedenti nella storia moderna. A differenza dell'impero britannico che, alla fine del XIX secolo, doveva affrontare l'ascesa del rivale prussiano, gli Usa non vedono di fronte a sé nessun avversario strategico in grado di rimettere in discussione i grandi equilibri planetari in un futuro prevedibile. Come se non bastasse, i loro principali concorrenti economici, europei e giapponesi, sono anche i loro alleati strategici.
Sul piano politico, gli Usa hanno visto ampliarsi la sfera della loro sovranità ed aumentare i loro margini di manovra. Sul piano economico, sono sempre loro a stabilire le regole, le norme ed i vincoli del sistema internazionale (4).
Conservare questo status quo favorevole è dal 1991 l'obiettivo precipuo e costante della politica estera americana. Una finalità che si coniuga in vario modo, secondo il carattere alternativamente più o meno cooperativo, più o meno coercitivo delle iniziative della Casa bianca. L'amministrazione Clinton aveva privilegiato la diplomazia economica e, entro certi limiti, la cooperazione multilaterale, mentre la nuova amministrazione si rivela sensibile alla tentazione della forza e dell'azione unilaterale di allargare sempre più i confini dell'egemonia americana.
Al potere da appena sei mesi, George W. Bush e la sua squadra di governo hanno irrigidito notevolmente le relazioni bilaterali con la Cina; rimesso in discussione il trattato Abm del 1972 con la loro decisione di mettere a punto il sistema di difesa antimissile Nmd; annunciato la loro intenzione di militarizzare lo spazio; bocciato il protocollo di Kyoto sull'ambiente; silurato il lavoro dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) sul controllo dei paradisi fiscali; fatto capire senza tante perifrasi che, nel contenzioso con l'Unione europea sulla fiscalità offshore delle imprese americane, sono pronti a sfidare le decisioni dell'Organizzazione mondiale del commercio (Omc) e del suo braccio disciplinare (Ord), l'Ufficio per la composizione delle controversie, qualora venissero comminate sanzioni a loro danno (5). Infine, l'amministrazione Bush si sta adoperando per dare scacco alla Corte penale internazionale (Cpi) che aveva ricevuto dopo lunghe esitazioni l'adesione del presidente Clinton (6).
Un giorno dopo l'altro, si allunga la lista di questi "atti piromani", secondo la felice espressione coniata da Stanley Hoffman, della Harvard University: atti che manifestano la volontà costante di privilegiare l'azione unilaterale, ed il concomitante rifiuto dell'eventualità che i trattati multilaterali ed il diritto internazionale possano circoscrivere, per quanto marginalmente, la sovranità degli Stati uniti. Al punto che John Bolton, da poco nominato assistente di Colin Powell agli Affari esteri, avrebbe affermato in privato che "il diritto internazionale non esiste".
Occorre fare un passo indietro, per comprendere questa deriva verso l'unilateralismo. Dopo lo smembramento dell'Unione sovietica, gli Stati uniti potevano scegliere fra numerose grandi opzioni strategiche.
Semplificando, possiamo ridurle a tre. In primo luogo, privilegiare la cooperazione ed il multilateralismo in una prospettiva di cogestione di un sistema mondiale in via di multipolarizzazione e di pacificazione (fra gli stati principali). In secondo luogo, adottare una politica classica di equilibrio delle forze, ispirandosi all'esempio della Gran Bretagna nell'Europa del XIX secolo. Infine, perpetuare l'unipolarità attuando una "strategia di primato", secondo i desideri del senatore Helms e dei suoi amici. Le prime due opzioni consentono alcune possibilità combinatorie, come si è visto dall'attento dosaggio di cooperazione e di vincoli introdotto fin dal 1989 nella gestione delle relazioni bilaterali con la Cina. Ma la grammatica della forza e dei vincoli non lascia alternative alla terza opzione strategica.
La cosiddetta "strategia di primato" è stata elaborata dal Pentagono nel 1992 in un documento riservato, Defense Policy Guidance 1992-1994 (Dpg). Scritto a quattro mani da Paul Wolfowitz e I. Lewis Libby, oggi segretario aggiunto alla difesa l'uno e consigliere per la sicurezza del vicepresidente Dick Cheney l'altro, il documento esortava decisamente a "impedire a qualsiasi potenza ostile il dominio di regioni le cui risorse le consentirebbero di accedere allo status di grande potenza", a "dissuadere i paesi industriali avanzati da qualsiasi tentativo che miri a contestare la nostra leadership o a ribaltare l'ordine politico ed economico costituito" e a "impedire l'ascesa di un futuro concorrente globale (7)". Tutte queste raccomandazioni sono state scritte all'apice del "momento unipolare", poco dopo il crollo dell'Urss e la guerra contro l'Iraq.
È un dettaglio storico significativo, perché la guerra del Golfo ha avuto un peso decisivo nella rimobilitazione delle forze armate americane. Ha giustificato anni di bilanci militari elevati e legittimato la continuità nell'esistenza dell'arcipelago militare planetario degli Stati uniti, la rete mondiale delle loro forze armate, contro quegli "stati canaglia" in grado di minacciare gli equilibri strategici regionali. Nel febbraio 1991 Cheney, allora segretario alla difesa, considerava la guerra del Golfo la "prefigurazione tipica del genere di conflitto che potremmo conoscere nella nuova era [...]. Oltre che nel sud-ovest asiatico, abbiamo interessi importanti in Europa, in Asia, nel Pacifico, in America latina e in America centrale. Dobbiamo configurare le nostre linee politiche e le nostre forze in modo tale da essere dissuasive o comunque sconfiggere rapidamente simili minacce regionali future (8)".
A ben guardare, quindi, la guerra (del Golfo) ha salvato un Pentagono ed un complesso militare-industriale fortemente preoccupati di fronte alla prospettiva di una vasta smobilitazione, in seguito alla scomparsa dell'Unione sovietica. Ma, come hanno osservato all'epoca Robert Tucker e David Hendrickson, "dimostrando che la potenza militare conservava inalterata tutta la sua importanza nelle relazioni fra Stati", tale guerra è stata anche "percepita negli Stati uniti come un duro colpo, forse un colpo mortale, inferto alla concezione di un mondo multipolare". Già concorrenti economici scarsamente autonomi, tedeschi e giapponesi durante il conflitto si erano rivelati "più che mai subalterni rispetto alla potenza militare americana" (9).
La "strategia di primato" è stata accantonata durante la presidenza Clinton, che ha privilegiato il consolidamento degli interessi nazionali tramite le istituzioni multilaterali (dominate dagli Stati uniti, sia detto per inciso) e l'attuazione di una strategia internazionalista liberale imperniata sulla globalizzazione - con un certo successo, a giudicare dai risultati ottenuti.
La smobilitazione di Clinton Se È vero che, a partire dal 1945, tutti i capi di Stato americani, da Harry Truman a George Bush (padre) sono stati "presidenti di guerra", come li definiva lo storico Ronald Steel, Clinton aveva invece la possibilità di agire diversamente. Ed effettivamente durante la sua presidenza il centro di gravità del potere si è spostato, in qualche misura, dagli apparati di sicurezza nazionale verso il Ministero delle finanze ed il nuovo Consiglio di sicurezza economica alla Casa bianca. I grandi finanzieri come Robert Rubin si sono imposti sulla scena politica mondiale, orchestrando la globalizzazione e gestendone le crisi. D'altronde, il presidente aveva annunziato già nel 1992, prima ancora della sua investitura, che la liberalizzazione economica e gli scambi commerciali sarebbero stati in futuro gli strumenti privilegiati della diplomazia americana. Una scelta che si è concretizzata negli accordi di libero scambio stipulati col Messico ed il Canada nel 1993, la ratifica dell'Omc nel 1994, la liberalizzazione finanziaria nell'est asiatico e la politica di engagement con la Cina e la Russia.
Era una scelta logica privilegiare il fattore economico rispetto a quello strategico: se lo scontro bipolare aveva giustificato quarant'anni di mobilitazione militare, la sua scomparsa creava le premesse per un capovolgimento delle priorità. Le forme d'intervento dello Stato dovevano modificarsi, per accompagnare e valorizzare appieno l'apertura della Cina, lo sviluppo folgorante delle economie emergenti nell'est asiatico, e la fase di transizione nell'Europa centrale e orientale.
Lo Stato di sicurezza nazionale doveva in qualche modo cedere il passo allo "Stato globalizzatore".
Proponendo di ribaltare le priorità, Clinton "poneva in discussione la ragion d'essere del Pentagono e della struttura di sicurezza nazionale di guerra fredda", fa rilevare Steve Clemons, direttore del Japan Policy Research Institute. Favorevole ad una smobilitazione militare su larga scala, Clinton "ha avuto fin dall'inizio rapporti esecrabili con i generali". Già nel 1993, per bocca del suo segretario alla difesa, Les Aspin, Clinton aveva annunziato la sua intenzione di rivedere due elementi chiave della politica militare dei suoi predecessori: la dottrina della base force di Colin Powell - la capacità di combattere contemporaneamente due grandi guerre regionali - ed il programma di sviluppo di armi antibalistiche avviato ai suoi tempi di Ronald Reagan. Aspin aveva addirittura auspicato la "fine dell'era delle guerre stellari". Queste iniziative hanno fatto ben poca strada. Di fronte alla resistenza implacabile del complesso militare-industriale, che gli era fortemente ostile a priori, in particolare a causa del suo attivismo giovanile contro la guerra del Vietnam quando studiava a Londra, Clinton avrebbe ceduto nel volgere di pochi mesi. La debolezza politica si è sommata a quella personale per fargli perdere le prime due prove di forza con il Pentagono: la sua proposta di accettare i gay nell'esercito è morta e sepolta, mentre la dottrina della base force è viva e vegeta (anche se, ironia della storia, adesso la mettono in discussione proprio i repubblicani che l'avevano voluta a suo tempo). È stato "in quel momento preciso" spiega Lawrence Korb del Council on Foreign Relations (Cfr), "che Clinton ha deciso di allisciare il pelo ai generali del Pentagono". Il bilancio della difesa nel 1994 è rimasto fermo a 280 miliardi di dollari, cioè l'88% della media degli anni di guerra fredda dal 1975 al 1989 e nel 1998 è stato votato un aumento di 112 miliardi di dollari in sei anni, fortemente voluto dal Congresso, in cui i repubblicani erano in maggioranza in entrambi i rami fin dal 1994.
Una concessione dopo l'altra, Clinton ha ceduto al Pentagono praticamente su tutta la linea - il che non gli ha risparmiato le feroci polemiche degli "esperti" repubblicani nei confronti della sua politica di sicurezza e di difesa. Spalleggiati dopo il 1994 dalla maggioranza del Congresso, i repubblicani hanno condotto una campagna all'insegna del rancore e dell'ipocrisia, accusando il presidente di aver messo a repentaglio la "sicurezza nazionale". Un esempio fra tanti, l'attuale consigliere di Bush per la sicurezza nazionale, Condoleezza Rice, ha potuto dire di Clinton che aveva trasformato le forze armate americane in "operatori sociali" e le aveva ridotte ad un livello d'impotenza paragonabile al 1940! (10) Altro fatto inquietante, troviamo proprio una funzionaria civile del Pentagono, Linda Tripp, all'origine del caso Lewinsky, bollato da Hillary Clinton come "una congiura dell'estrema destra".
Se Clinton non aveva saputo o potuto rimettere in riga il Pentagono, con George W. Bush assistiamo al ritorno in auge dello Stato di sicurezza nazionale. Contrariamente ai tempi di Clinton, adesso le cariche decisive sono appannaggio di famosi guerrieri e strateghi civili e militari. Dick Cheney, Colin Powell, Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz, Richard Armitage, James Kelley, I. Lewis Libby, John Negroponte (11), tra gli altri hanno avuto tutti funzione di primo piano nella difesa e nei servizi di informazione durante la guerra fredda e/o al momento della transizione sovietica e della guerra contro l'Iraq.
Negroponte, tanto per cominciare è stato una figura chiave nella guerra "segreta" contro i sandinisti in Nicaragua. James Kelley era in Marina. Richard Armitage al ministero della difesa. Paul Wolfowitz e I. Lewis Libby hanno formulato la teoria unipolare durante la presidenza di Bush padre. Donald Rumseld, poi, supervisore della "seconda guerra fredda" (1975-1989), è l'uomo che ha cancellato la parola "distensione" dal linguaggio ufficiale e che ha passato gli anni '80 e '90 a portare avanti il progetto di "guerre stellari" e a tuonare contro la politica dei democratici.
Per farla breve, è un governo di guerra fredda senza guerra fredda.
I suoi atti e la sua composizione rispecchiano una visione ed una scelta ben precise: la visione di un sistema mondiale regolato esclusivamente dal gioco dei rapporti di forza, e la scelta di perseguire obiettivi di ricchezza e di potenza stabiliti in base ad una definizione molto ristretta dell'interesse nazionale.
Ieri l'Iraq, oggi l'ipotetica "minaccia cinese" sono il pretesto per una mobilitazione militare high-tech che dovrebbe portare il bilancio del Pentagono a 320 miliardi di dollari all'anno, una cifra superiore alla somma dei bilanci militari di tutti i potenziali "avversari" degli Stati uniti - in un periodo di drastico ridimensionamento della spesa pubblica, ed in particolare della spesa sociale. Anche ammesso che voglia farlo, la Cina non è in grado di ribaltare gli equilibri nell'est asiatico, e tanto meno a livello mondiale - il che non esclude, intendiamoci bene, che un nazionalismo cinese aggressivo non possa avere un ruolo destabilizzante nell'Asia del futuro. Ma non è questo il punto. Riconoscendo alla Cina lo status di "avversario strategico" durante la campagna elettorale, e poi di "concorrente strategico" quando è divenuto l'inquilino della Casa bianca, Bush sta costruendo un passo dopo l'altro la realtà che pretende di descrivere.
Il primo maggio scorso il presidente annunciava la sua decisione di procedere a ritmo accelerato alla realizzazione di un sistema di difesa antimissile. Poi, l'8 maggio, il segretario alla difesa Donald Rumsfeld annunciava, senza quantificarlo, un forte aumento dell'impegno americano nella difesa spaziale. Allo spazio, dichiarava Rumsfeld, spettava ormai un ruolo prioritario nella pianificazione strategica americana. Per affermare appieno la portata di tale iniziativa, è opportuno rileggere le conclusioni della Commissione presieduta dallo stesso Rumsfeld, non ancora ministro. Il rapporto Rumsfeld, divulgato l'11 gennaio, sottolinea la "crescente vulnerabilità degli Stati uniti" ad una "Pearl Harbor" spaziale e propone di porvi rimedio "dando al presidente la possibilità di disporre di armi spaziali come deterrente di eventuali minacce, se necessario, per difendere gli interessi americani da attacchi nemici".
Pear Harbor? Crescente vulnerabilità? Ma è esattamente l'opposto, il mondo che stanno costruendo Rumsfeld e la Rice. Chi potrebbe sfidare gli Stati uniti nello spazio o nelle profondità del mare, altro tema di riflessione di viva attualità al Pentagono? Forse la Russia, che recluta turisti americani danarosi, per finanziare i suoi voli spaziali?
O la Cina, che verosimilmente ha bisogno di vent'anni di pace per stabilizzare la situazione economica e sociale interna? O l'Europa?
Ma chi, allora? Senza tema del ridicolo, la Commissione Rumsfeld afferma che la minaccia proviene da "gente come Osama bin Laden che potrebbe forse entrare in possesso di mezzi satellitari". Rumsfeld non ha ritenuto opportuno riesumare questa giustificazione risibile, nel discorso dell'8 maggio. Non ha addotto giustificazioni di sorta, per il semplice fatto che non ce n'è neanche una.
Dietro tutto questo lavorio, si intuisce una mobilitazione scientifica e tecnologica imponente. Andrei Marshall, un ottuagenario incaricato dal Pentagono di elaborare la nuova strategia militare, coltiva sogni di aerei stratosferici, di sottomarini giganti, di laser spaziali, di sistemi d'arma teleguidati.... Ottime notizie, per la Lockheed-Martin, la Raytheon e la Boeing. Ma, come dice giustamente Seymour Melman, critico della prima ora del complesso militare industriale, "l'obiettivo strategico di questo grande sforzo è assicurarsi l'egemonia mondiale.
È un'aritmetica del potere".
Resta da capire quali saranno veramente, negli anni a venire, i margini di manovra di un'amministrazione la cui arroganza è inversamente proporzionale alla legittimazione popolare. A fine maggio, i repubblicani hanno perso il controllo del Senato, e rischiano di ritrovarsi in minoranza alla Camera dei rappresentanti dopo le legislative del 2002. Supponendo che i democratici facciano prevalere la loro posizione, il programma di rimilitarizzazione di Bush subirebbe una battuta d'arresto.
Nell'attesa, il resto del mondo dovrà affrontare in qualche modo il nuovo nazionalismo americano. A giudicare dalle reazioni iniziali in Europa e Asia, la "strategia di primato" del Pentagono viene recepita con forte ostilità. L'amministrazione Bush può anche ignorarlo, ma il paradosso delle strategie egemoniche fondato sulla forza è che generano inevitabilmente forze loro contrarie. E allora, la ricerca di un primato assoluto e incontrastato porterà forse come conseguenza ad accelerare il cammino verso un mondo multipolare.
note:
(1) Jesse Helms, "Entering the Pacific Century", Heritage Foundation, Washington D.C., 1996.
(2) "The Second American Century", Time Magazine, New York, 27 dicembre 1999. Si veda anche Charles Krauthammer, "The Unipolar Moment", Foreign Affairs, vol. 70, n.1°, New York, 1990-1991.
(3) Mortimer Zuckerman, "A Second American Century", Foreign Affairs, maggio-giugno 1998.
(4) Vedere Noëlle Burgi e Philip S. Golub, "Il falso mito dello stato postnazionale", Le Monde diplomatique/il manifesto, aprile 2000.
(5) Il rappresentante speciale per il commercio Robert Zoellick, ha avvertito l'Unione europea il 15 maggio che l'attuazione delle sanzioni contro gli Stati uniti nel caso delle "Foreign Sales Corporations" avrebbe avuto l'effetto "di un'esplosione atomica nelle relazioni commerciali bilaterali".
(6) La Camera dei rappresentanti ha votato l'8 maggio un progetto di legge che pone i cittadini americani al riparo da qualsiasi eventuale imputazione mossa dalla Cpi. Una conferma da parte del Senato segnerebbe la fine della Cpi.
(7) Si legga Paul-Mariede la Gorce, "Washington et la maîtrise du monde", Le Monde diplomatique, aprile 1992.
(8) Dichiarazione resa dinanzi alla Commissione difesa del Senato il 21 febbraio 1991.
(9) Robert Tucker e Frederick Hendrickson, "The Imperial Temptation", Council on Foreign Relations, New York, 1992, pp. 9 e 10.
(10) Condoleezza Rice, "Promoting the National Interest", Foreign Affairs, gennaio-febbraio 2000.
(11) Si tratta, nell'ordine, del vice-presidente, del segretario di stato, del segretario alla difesa, del vice segretario alla difesa, del vice segretario di stato incaricato del Sud est asiatico e dell'area del Pacifico, del consigliere per la sicurezza di Dick Cheney, dell'ambasciatore in attesa di conferma all'Onu.
(Traduzione di R. I.)
Fonte: Monde Diplomatique 7/2001