MARCHI INDELEBILI SULLE NOSTRE COSCIENZE
MARIE BÉNILDE *
Octave Parango, protagonista del romanzo 99 francs di Frédéric Beigbeder ha scatenato un vero e proprio putiferio fra le agenzie di pubblicità (1). Da quando questo anti-eroe cocainomane ha scavato la fossa all'industria della pubblicità tracciando un quadro apocalittico del mestiere del "creativo", il microcosmo della professione è entrato in crisi. "Se in passato il pubblicitario era un personaggio affascinante, oggi è ampiamente contestato e disprezzato", afferma con toni allarmati Alexandre Pasche, direttore dell'Agenzia B. "Oggi, la maggioranza della popolazione, indipendentemente dal ceto sociale, non esita a criticare molto aspramente il mondo della pubblicità e dei suoi adepti" (2). Jacques Séguéla, un personaggio che tanto ha contribuito a fare del pubblicitario una figura simpatica e familiare, sembra ormai appartenere alla preistoria. Al suo confronto Frédéric Beigbeder, il "rinnegato", fa più tendenza. L'ex creativo, redattore pubblicitario dell'agenzia Young & Rubicam, cronista a Voici ed ex animatore di serate decadenti, è un autore che coglie nel segno. Fra dosi di cocaina, scene porno ed elenco completo di tutti i suoi slogan pubblicitari, l'eroe del suo libro si lancia in una crociata contro il "mercantilismo universale".
Conferma così che la Nestlé è la proprietaria esclusiva della parola "felicità", che esistono lavatrici indistruttibili che nessuno però vuole distribuire e che ogni individuo giunto all'età di 18 anni è stato bombardato da un numero colossale di spot pubblicitari. È forse questa una tesi sovversiva? Una tesi che contesta il modello dominante? Niente affatto, visto che l'autore sembra compiacersene.
Il libro, che ha venduto più di 300mila copie, funge ormai da modello per il lancio di prodotti editoriali. Gli ingredienti: un titolo esemplare ("per appena 99 franchi"), un licenziamento quanto mai opportuno ("Scrivo questo libro per farmi mandare a spasso"), un personaggio moderno che guadagna 13mila euro al mese ("passo l'esistenza a raccontarvi balle e vengo lautamente pagato per questo") e una certa formula che funge più da rinuncia collettiva che da rivolta ideologica ("viviamo nel primo sistema di dominio dell'uomo sull'uomo contro il quale perfino la libertà ha le armi spuntate (3)").
La pubblicità sarebbe quindi una rocca inespugnabile contro la quale al massimo si può immaginare di opporre il vissuto di uno dei suoi figli prediletti? Una constatazione del genere sarebbe inquietante se con 99 francs si volesse, più che far amare il pubblicitario, esprimere una critica della pubblicità stessa. Perché l'affectio societatis relativa alla figura di pentito di Octave risulta più efficace per l'industria della pubblicità di un panegirico della Procter& Gamble. Nel sistema dei valori trasmessi dalla "cultura della pubblicità" il creativo è di fatto sempre il simpatico scavezzacollo che viene contrapposto al malvagio inserzionista.
Di fronte alla brutalità della logica del mercato la funzione stessa del pubblicitario è di umanizzare un'ideologia mercantile. Frédéric Beigbeder non fa eccezione. Poiché l'opinione pubblica comincia ad essere nauseata da quest'orgia di pubblicità che invade la nostra esistenza quotidiana (e che strabocca dai media tradizionali per invadere lo sport, i taxi, le facciate dei palazzi, gli spettacoli e ben presto la troveremo nelle scuole o negli ospedali) il ruolo del "creativo" è di cavalcare l'opposizione che viene delineandosi per meglio riflettere "lo spirito del tempo". Nel 1999 la Mc Donald's ha seguito esattamente questo percorso, dopo che uno dei suoi ristoranti a Millau era stato danneggiato e dopo che era emerso il movimento anti-globalizzazione capeggiato da José Bovè: la multinazionale si è affrettata a dimostrare il suo impegno culturale inviando messaggi pubblicitari che mettevano in ridicolo la figura dello yankee e radicando i propri prodotti all'origine provenzale.
Per cogliere tuttavia l'ideologia diffusa dai 18 milioni di annunci pubblicitari che ci hanno consegnato i media francesi nel 2000 occorre chiedersi quale sia la natura dei discorsi trasmessi. In massima parte si tratta di messaggi anodini che risulterebbero inoffensivi se non s'inserissero in una logica manipolativa. Come ci spiega John Kenneth Galbraith, in ogni società ove la produttività è praticamente illimitata - frutto questo dell'automazione industriale - il controllo dell'apparato produttivo è meno rilevante di quello della domanda di consumo. La pubblicità svolge quindi un ruolo fondamentale nel plasmare i bisogni e le aspettative degli individui in funzione della domanda economica. Siamo forse entrati in questa nuova era del capitalismo che Galbraith definisce la "filiera capovolta (4)", nel senso che non è più il consumatore a determinare il ritmo della produzione bensì il produttore a creare nel consumatore il desiderio di determinati prodotti? Ciò spiegherebbe l'idea comunemente accettata oggi di una pubblicità che crea bisogni voluttuari e che colpisce in particolar modo i ceti meno istruiti e sociologicamente più vulnerabili. La storia di France Télécom, che nel 2000 ha conquistato la posizione di primo inserzionista del paese, è di per sé edificante: dai cellulari ai provider di accesso ad Internet, compreso lo sviluppo di "start-up", molti sono i prodotti e i servizi che devono la loro esistenza ai miliardi di franchi investiti nei principali media. Il simbolo pubblicitario per eccellenza di questa ideologia è stata la campagna del sito Selftrade, che mostrava una falce e un martello dorati con intarsi di diamanti per esortare i piccoli azionisti neofiti a investire in Borsa. Perché sia fabbricato, un prodotto non deve necessariamente essere consumato: la creazione di una pulsione al consumo di per sé può determinare l'attività dell'impresa. In ultima analisi, la pubblicità è autosufficiente, in quanto vende un bene la cui produzione non dipende dalla redditività che genera quanto dal sistema di valori su cui è fondata la nostra economia. Un esempio di questo rovesciamento della scala dei valori: Bouygues Télécom l'anno scorso ha lanciato una promozione di uno "spot" che offre telefonia mobile gratuita a chi non se la può permettere... a condizione di accettare che le telefonate siano intercalate regolarmente da messaggi pubblicitari.
La pubblicità bugiarda è vietata. Ma, in un certo senso, la pubblicità si è scollegata dall'oggetto che vuole venderci. La comparsa di un nuovo prodotto crea le condizioni per una messinscena destinata a creare l'evento e a favorire l'identificazione con una marca. Il sostantivo inglese brand (marca) lo ritroviamo nel verbo to brand, a significare "marchiare con un ferro rovente". L'efficienza della pubblicità non viene correlata alle vendite che ha generato bensì alla valutazione d'impatto e di gradimento che viene attribuita alla pubblicità stessa dalle società che fanno i sondaggi. Tecnicamente si potrebbe misurare l'incidenza dei costi pubblicitari sul consumo in base alle vendite realizzate. Non è questo il dato che preme agli inserzionisti, che preferiscono di gran lunga affidarsi alla propria strategia di comunicazione che misurarsi con i dati del mercato. La pubblicità per loro non mira tanto ad un incremento delle vendite quanto alla diffusione di un'ideologia commerciale di cui è portatrice la marca. L'obiettivo delle cosiddette campagne istituzionali è venderci una certa mentalità piuttosto che un prodotto.
Gli slogan fungono da segni d'identificazione e ripeterli serve a far passare una certa forma mentis di cui si alimenta l'inconscio collettivo. È il "Just do it" della Nike o "le soluzioni per un piccolo pianeta" dell'Ibm. Frédéric Beigbeder riporta questa citazione di Goebbels: "La propaganda cessa di essere efficace non appena la sua presenza si fa visibile".
Creando un bisogno primario d'identificazione con uno stereotipo culturale, la pubblicità riesce a riplasmare la realtà sociale secondo una visione immaginaria della società. I giovani disoccupati delle periferie urbane impersonano una sorta di lotta tribale tra la Nike e la Reebock. In altri termini, non sono più i creativi a prendere spunto dalla realtà per cercare di creare una parvenza di reale, ma sono i destinatari stessi della pubblicità ad imitarne gli slogan e i segni per esistere. In questo senso la pubblicità costituisce un'industria di trasformazione della coscienza sociale. Il caso dell'Ibm è emblematico: le campagne promozionali dell'Ibm non si stancano di tessere le lodi del villaggio globale ove non esistono più differenze culturali e sociali. "Ibm Global Services. Gente che pensa, gente che fa", dice il messaggio. L'apparente bonomia di questi spot in cui vediamo donne e uomini di ogni razza in rapporto tra loro, senza distinzioni gerarchiche, al lavoro o a casa, in realtà nasconde la fine del lavoro salariato, l'apologia della flessibilità, e l'appiattimento delle culture a cui assistiamo ai nostri giorni. Viene spesso presentata una visione idilliaca del lavoro a termine: l'addetto alla caldaia che vediamo con un bimbo in braccio a casa sua sembra soddisfatto della sua vita familiare. I sociologi sanno bene che il ricorso a queste forme di lavoro in appalto rende gli individui più vulnerabili sia sul posto di lavoro che in famiglia.
Nel luglio 2000, la campagna per quotare in Borsa il colosso aeronautico e militare Eads non prevedeva, negli spot trasmessi in televisione, alcun riferimento all'attività del consorzio nel settore militare.
Eppure, l'Eads produce missili ed elicotteri da combattimento da cui ricava la maggior parte dei suoi profitti. Per spingere il settore ad una autoregolamentazione, è inutile fare affidamento sull'Ufficio per il Controllo della Pubblicità (Bvp), emanazione diretta degli inserzionisti. I creativi che sostengono di precorrere i tempi e di essere disposti ad infrangere moltissimi tabù, sono quanto mai restii a violare le leggi dell'omertà della loro categoria: l'impossibilità di contestare i fondamenti stessi dell'ideologia mercantile. Viceversa il tabù del sesso viene largamente sfruttato, da quando le agenzie pubblicitarie hanno stabilito la correlazione tra desiderio sessuale e pulsione all'acquisto. Nell'ottobre 1999, il Bvp, controllato dagli interessi dei principali inserzionisti americani (Procter&Gamble, Ford, CocaCola) aveva bocciato una campagna di Amnesty International contro le violazioni dei diritti umani negli Stati uniti sostenendo che poteva ledere alle buone relazioni tra gli stati. Eppure, vista la grande rilevanza che ha la libertà di espressione negli Stati uniti, la campagna non avrebbe potuto essere vietata in quel paese. In Francia il linguaggio della pubblicità è strettamente sorvegliato. L'associazione Casseurs de pub, che nel novembre 1999 voleva lanciare la giornata senza consumi, l'ha sperimentato sulla propria pelle. Il suo spot di 30 secondi, finanziato dai militanti, che doveva essere trasmesso in tarda serata su France 3, è stato censurato sostenendo che non costituiva un messaggio d'interesse generale. "Si possono crocifiggere le politiche, ma non appena si toccano le multinazionali tutti tremano" denuncia Raul Anvélaut, ex dipendente di Publicis, responsabile del comitato dei creativi contro la pubblicità (Cccp).
Qualunque forma di resistenza alla pubblicità sui principali media sembra destinata a fallire. Nello stesso tempo, l'industria moltiplica i suoi attacchi: la donna oggetto è quasi consustanziale al linguaggio della pubblicità; il fatto che neri, arabi e asiatici siano scarsamente rappresentati appare più evidente nella pubblicità che in altri generi televisivi (5). I bambini poi, destinatari di kit pedagogici realizzati dalla Nestlé e dalla Colgate per le scuole, saranno domani le nuove vittime di un sistema neo-schiavista (non si deve appunto "marchiare a fuoco"?), che si appoggia sul fatto che i più piccoli hanno il potere di scegliere la metà dei nuovi prodotti che entrano nelle case e che, da adulti, continueranno ad acquistare due terzi di quello che consumano in famiglia. Ma allora bisogna forse accontentarsi, come fa Frédéric Beigbeder, di uccidere in sogno il pensionato della Florida i cui fondi pensione controllano il capitale delle multinazionali?
note:
* Giornalista.
(1) Frédéric Beigbeder, 99 francs, Grasset, Parigi 2000.
(2) Stratégies, Parigi, 16 febbraio 2001.
(3) Frédéric Beigbeder, op. cit.
(4) John Kenneth Galbraith, Il nuovo stato industriale, Einaudi, 1968, e La società opulenta, Edizioni Comunità, 1961.
(5) Si legga "Tasca vuole una televisione nera-gialla-araba" CB News, Parigi 29 maggio-4 giugno 2000. Secondo un recente studio del Consiglio superiore dell'audiovisivo, questi gruppi sono presenti solo nel 18% degli spot in massima parte d'origine americana.
(Traduzione di C.M.)
Fonte: Monde Diplomatique 5/2001