Centri e periferie

I CINQUE MONOPOLI

Samir Amin

 

Non credo che dall'osservazione e dall'analisi dell'economia globalizzata contemporanea si possa ricostruire uno scenario relativamente definito per il lungo termine. Ciò non significa ovviamente ignorare l'importanza dei "fatti nuovi".

La presentazione degli elementi del dibattito che mi propongo di fare in questa sede insisterà quindi su alcune domande che mi sembrano le più importanti e che sono:

A) si può identificare in modo convincente ciò che è durevole nel "nuovo", e che avrà degli effetti che continueranno a svilupparsi sul lungo periodo, da ciò che è solo passeggero, cioè che caratterizza solo la fase di transizione attuale?

B) come analizzare l'interazione possibile tra le evoluzioni durevoli individuate e le logiche fondamentali e permanenti che definiscono il capitalismo?

Riguardo alle trasformazioni sicuramente durevoli indicherei sia quelle connesse al sovrasviluppo delle forze produttive da un lato, sia quelle che interessano la rivoluzione scientifica e tecnologica in corso e i suoi "effetti di civilizzazione" (l'organizzazione del lavoro e della vita sociale, il movimento sociale e le sue forme di espressione, ecc.).

Lo sviluppo delle forze produttive - che sono contemporaneamente forze distruttive - ha raggiunto ormai un punto che ne modifica qualitativamente la portata e di conseguenza ci pone nuovi interrogativi. L'arsenale degli armamenti nucleari, ad esempio permetterebbe di mettere fine a qualunque forma di vita sulla Terra. Questo fatto nuovo nella storia esigerebbe che si rinunci al loro impiego, che li si smantelli tutti. La Nato ha preso una posizione contraria. In altri campi, come la biogenetica, le conoscenze scientifiche acquisite permetterebbero analoghe devastazioni i cui effetti non sono noti. S'impone una gestione sociale del loro uso. È il solo mezzo per integrare nel sistema i principi etici indispensabili alla sopravvivenza dell'umanità. Nella sua volontà proclamata di privatizzare tutto, il sistema sceglie invece esattamente il contrario.

Ci si pone, inoltre, il problema dell'ambiente. Per la prima volta nella storia dell'umanità il pericolo di distruzione, irreversibile e grave, della vita sulla Terra è diventato reale. Un progetto sociale concreto che ignori tale realtà è inimmaginabile. Ma aggiungerei anche la cruda affermazione che il capitalismo, quale che sia la sua forma di organizzazione, è incapace di rispondere alla sfida. Il capitalismo, infatti, è fondato su una razionalità di calcolo a breve termine (pochi anni al massimo), mentre un'analisi seria del problema implica l'utilizzo di una razionalità a lunghissimo termine. La comparsa del problema ambientale è, a mio parere, una delle prove che il capitalismo come forma di civilizzazione deve essere superato. Una cosa che, purtroppo, pochi Verdi sono disposti ad ammettere!

Ma scendiamo di diversi gradini per considerare ora la rivoluzione scientifica e tecnologica in corso e, più in particolare, tutto ciò che può essere collegato all'informatica.

Questa rivoluzione contemporanea (e in primo luogo l'informatizzazione) esercita indubbiamente un'azione potente, che impone la ristrutturazione dei sistemi produttivi (in particolare facilitando la diffusione geografica di segmenti comandati a distanza). Di conseguenza i processi di lavoro sono oggetto di grandi cambiamenti. Ai modelli di lavoro alla catena di montaggio (taylorismo) si sostituiscono forme nuove che influenzano profondamente la struttura delle classi sociali e la loro percezione dei problemi della segmentazione dei mercati del lavoro. Si tratta di un cambiamento che nel lungo periodo avrà una grande importanza. La direzione dell'attuale evoluzione conduce di già a quello che chiamerei un "deperimento della legge del valore", anche ciò suggerisce che il capitalismo deve essere superato. Il che però può essere fatto in modi diversi. Attraverso il socialismo - che costituisce a mio parere la sola risposta umanista possibile alla sfida - o attraverso l'istituzione di una sorta di regime di apartheid generalizzato nel quale la distinzione sociale non sarebbe più fondata sulla partecipazione alla creazione del valore (anche se questa partecipazione darebbe luogo a uno sfruttamento), ma su altri criteri parapolitici e culturali. Ho illustrato in altra sede la possibilità "materiale" del funzionamento di un sistema di questo genere.

La letteratura che riguarda le trasformazioni nell'organizzazione del lavoro associate alla rivoluzione tecnologica in corso è molto ricca ed è impossibile passarla in rivista in questo scritto. Ma anche senza entrare nel dettaglio, mi sembra comunque che lo spirito di fondo che orienta tale letteratura sia improntato a una grande ingenuità. Mi riferisco in particolare a quella che studia il nuovo modello di società fondato sull'organizzazione "in rete" (che si sostituisce a quello gerarchico delle catene di montaggio) e sull'interazione dei "progetti" (che si sostituisce, almeno parzialmente, all'unità di comando rappresentata finora dall'impresa): illustra le sue idee come se il capitalismo potesse "adeguarsi a tutto". Ma così non è. Il capitalismo è sufficientemente forte, in alcune circostanze, per "recuperare" (e non adeguarsi), cioè per utilizzare a suo vantaggio (il profitto) le trasformazioni che portano al loro interno altre evoluzioni potenziali.

Vorrei fare due esempi particolarmente evidenti.

Il primo riguarda la nuova società delle reti che favorirebbe l'affermazione dell'autonomia creatrice degli individui. Questa società si sta costruendo sotto i nostri occhi. Quali sono però le sue conseguenze sociali reali? Il rapido e straordinario aumento dei redditi da capitale a scapito di quelli da lavoro, la precarizzazione, l'impoverimento e l'emarginazione di una quota crescente della popolazione. Questi fatti riducono a nulla le pretese del discorso dominante secondo il quale l'individuo sarebbe ormai diventato il soggetto della storia, rendendo superati concetti come quelli di classe e di nazione. L'individuo, al contrario, rimane nei fatti un essere sociale prigioniero sotto il peso dell'oppressione e dello sfruttamento sui quali la nostra società contemporanea, evidentemente, rimane fondata.

Il secondo esempio riguarda la pretesa autonomia che la grande impresa avrebbe acquisito nei confronti dello Stato, uno dei temi preferiti del discorso antistatale caratteristico dei nostri tempi. L'impresa di grandi dimensioni non è certo una novità nella storia del capitalismo. Ma le grandi imprese transnazionali rimangono, in primo luogo, imprese nazionali (in particolare attraverso la proprietà e soprattutto il controllo dei loro capitali) la cui attività oltrepassa le frontiere del paese di origine. Esse hanno sempre bisogno, per svilupparsi, del sostegno positivo dello Stato. Tuttavia sono diventate, contemporaneamente, abbastanza potenti per sviluppare la loro strategia di espansione fuori (e talvolta contro) le logiche delle politiche statali. Queste imprese cercano, quindi, di subordinare le politiche statali alle loro strategie. Il discorso neoliberale antistatale maschera questo obiettivo per legittimare la logica esclusiva della difesa degli interessi particolari che rappresentano queste imprese. La "libertà" tanto rivendicata non è quella di tutti, è la libertà per le imprese di far prevalere i loro interessi a scapito degli altri. In questo senso il discorso neoliberale è perfettamente ideologico e ingannevole. Lo status del rapporto "capitale oligopolistico privato/Stato" è ambiguo; attualmente, il capitale sembra avere la meglio facendo apparire lo Stato completamente sottomesso agli interessi privati, ma non è detto che questo rapporto sia definitivo o che non sia modulabile in modo diverso.

Il capitalismo non può assorbire qualunque esigenza imposta da una determinata evoluzione e rimanere al tempo stesso capitalismo. Tuttavia può "recuperare" questa esigenza in alcune circostanze, come quelle che presiedono al suo riassetto contemporaneo, perché domina incontrastato o, al contrario, assorbirlo avviando un'evoluzione verso un altro sistema. Si è allora in quella che definisco una "transizione lunga". Mi rendo conto che questa affermazione, di una lunga transizione (forse secolare) verso il socialismo - che per me non è sinonimo di allineamento sulle tesi riformiste convenzionali (quelle della Seconda internazionale) - non è stata neanche quella del marxismo storico del Novecento. Ma dopotutto il capitalismo, che ha preso la sua forma compiuta solo dopo la rivoluzione industriale, ha solo due secoli di storia alle spalle ed ha già raggiunto la fase di declino che impone oggettivamente un suo superamento; mentre al contrario la transizione dal feudalesimo dell'europa occidentale al capitalismo ha preso tre secoli, quelli del mercantilismo dal 1500 al 1800.

Resta il fatto che la transizione è sempre incerta ed è solo a posteriori che si sa in che direzione ci si è avviati. A causa della sottodeterminazione nella storia, il capitalismo potrebbe essere superato sia dalla costruzione progressiva del socialismo (ed è l'opzione desiderabile, che esige a sua volta che si faccia ricorso a mezzi coerenti con l'obiettivo) sia da un altro sistema di oppressione e di sfruttamento, che non sarebbe più il capitalismo ma sarebbe comunque terribile. In ogni caso è vero che la rivoluzione tecnologica - qualunque rivoluzione tecnologica - trasforma le strutture dell'organizzazione del lavoro. Se la società rimane ferma in una società di classi, queste non sono in alcun modo abolite da tale trasformazione, ma cambiano forma, a tal punto che l'illusione della loro scomparsa - o diluizione in altri contesti - può prevalere. Di conseguenza le forme di organizzazione sociale e dei movimenti attraverso i quali si esprimono i progetti degli uni e degli altri e i loro conflitti sono a loro volta profondamente influenzati dalla rivoluzione tecnologica. Più avanti esaminerò alcune delle condizioni poste da tali trasformazioni, così come l'ambiguità della loro portata: anche qui il meglio e il peggio sembrano coesistere.

In contrapposizione agli elementi di trasformazione durevole, di lunga portata, mi sembra che altri elementi meritino di essere considerati. In cima alla lista di queste trasformazioni, meno solide di quello che si pensa, metterei la finanziarizzazione.

La finanziarizzazione è, secondo me, un fenomeno puramente congiunturale. È il prodotto della crisi. Il capitale in eccedenza che - nelle strutture attuali - non può trovare sbocchi nell'espansione del sistema produttivo, costituisce una minaccia grave per la classe dominante, quella della svalutazione massiccia del capitale. La gestione della crisi impone, quindi, che siano offerti degli sbocchi finanziari che permettono di evitare il peggio. Ma a sua volta la fuga in avanti nella finanziarizzazione non permette di "uscire" dalla crisi; al contrario porta alla chiusura in una crisi di stagnazione perché aggrava la disuguaglianza nella distribuzione e costringe le imprese a partecipare al gioco finanziario. In questo senso la finanziarizzazione non è solo sinonimo di predominio delle imprese finanziarie (banche, assicurazione, fondi pensione) sulle altre; ma è anche predominio delle logiche finanziarie nella gestione di tutte le imprese.

Il discorso dominante sulla finanziarizzazione mette l'accento su un altro ordine di problemi, collegato con l'invecchiamento della popolazione della triade e con l'esplosione dei fondi pensione. In alcune di queste analisi si presenta il "blocco dei creditori" come una forza sociale già costituita, consapevole dei propri interessi. Si tratterebbe dell'insieme dei pensionati e, a seguire, dei dipendenti "stabili", solidali con i gestori dei fondi pensione, preoccupati innanzi tutto di allontanare lo spettro dell'inflazione, beneficiari degli alti tassi di interesse e della capitalizzazione finanziaria dei loro fondi. Questo blocco si opporrebbe a quello degli "esclusi", disoccupati e lavoratori precari. La frattura sociale non sarebbe più quella che contrappone il capitale al lavoro nel suo insieme, ma il blocco creditore (che associa capitale e lavoro) e gli esclusi. Il problema merita di essere approfondito, poiché la capitalizzazione privata dei fondi (il modello americano) si contrappone alla tradizione di alcuni paesi europei e della sinistra in generale, che gli preferisce il sistema della distribuzione. È vero però che i governi in Europa hanno scelto di sostituire il sistema di distribuzione con il modello americano. Non è forse questa una strategia utilizzata allo scopo di creare un blocco dei creditori che non esiste (ancora), non è forse ancora solo una tendenza, un terreno di lotta, cui le forze dominanti del capitale affidano il compito di rompere un possibile fronte del lavoro?

Se adesso passiamo all'aspetto della globalizzazione, ci scontriamo ancora una volta con cambiamenti che sono in gran parte apparenti o instabili, senza un futuro certo. Penso in particolare allo sviluppo, apparentemente folgorante dell'asia.

 

 

§

 

Nella crisi generale che imperversa da quasi trent'anni, adesso sembra essersi delineata una nuova frattura "Est-Ovest".

La crisi produttiva colpisce con forza l'intero continente americano, nord e sud, l'Europa occidentale, l'Africa e il Medio Oriente, l'Europa dell'est e i paesi dell'ex Unione Sovietica. I suoi sintomi sono: bassa crescita (nulla o negativa per molti paesi dell'est e per le zone emarginate del terzo mondo), debolezza degli investimenti nelle attività produttive, crescita della disoccupazione e del lavoro precario, forte sviluppo delle forme "informali" di attività. Questa stagnazione è particolarmente tenace, anche se i discorsi ufficiali si limitano a parlare di "recessioni" e di "riprese". Nonostante alcune apparenze - come la risalita del tasso di crescita negli Stati Uniti e la riduzione del tasso di disoccupazione ufficiale - la "ripresa" in questo caso (e in quello della Gran Bretagna) rimane fragile perché fondata su una finanziarizzazione a sua volta minacciata. In realtà, sono le spese militari che continuano a costituire lo zoccolo duro dell'economia americana. Al contrario i paesi dell'estremo Oriente (Cina e Corea), del Sud-Est asiatico, l'India, hanno per molto tempo dato l'impressione di rimanere al di fuori delle regioni colpite dalla lunga crisi. Nel corso degli ultimi decenni i tassi di investimento nell'espansione dei sistemi produttivi e quelli della crescita, si sono mantenuti (in India) o sono addirittura fortemente progrediti (in Cina, Corea, Sud-est asiatico). Questa crescita accelerata si è, in generale, accompagnata a un minore aggravamento della disuguaglianza che altrove, anche se questa osservazione deve essere relativizzata. Lo stesso Giappone ha beneficiato della situazione generale del "nuovo Oriente", prima di entrare a sua volta in una crisi che, in questo caso, è realmente profonda. La crisi finanziaria che colpisce la Corea e il Sud-est asiatico dal 1997 e minaccia la Cina, segna la fine di questa "eccezione asiatica" e della separazione Est-Ovest che la contraddistingueva?

Il miracolo asiatico aveva fatto scorrere molto inchiostro: l'Asia o l'Asia-Pacifico, centro del futuro in costruzione, prendeva all'europa-America del Nord il suo dominio sulla Terra, la Cina superpotenza del futuro: quanto si è scritto su questi argomenti! In una prospettiva più meditata si possono trarre dal fenomeno asiatico alcune conclusioni che, anche se appaiono frettolose, meritano una discussione più approfondita. In questo fenomeno si è vista la crisi della teoria della polarizzazione inerente all'espansione capitalistica mondiale (spesso confusa con le versioni volgari della "dipendenza"), e delle strategie di distacco raccomandate in risposta alla sfida della polarizzazione. Era la prova che il "recupero" era possibile, che era favorito più da un inserimento attivo nella globalizzazione (si è parlato di strategia "export-oriented") che da un distacco illusorio (responsabile, si dice, della catastrofe sovietica). I fattori interni - tra gli altri il fattore "culturale" - sarebbero quindi all'origine del successo degli uni e del fallimento degli altri, emarginati e "distaccati loro malgrado".

Per avanzare realmente nella discussione di tali questioni complesse bisognerebbe cercare di distinguere chiaramente i diversi piani dell'analisi riguardante le strutture sociali interne e le forze che agiscono al livello del sistema mondiale. Queste e quelle si articolano tra di loro in modo che è meglio esplicitare, se si vogliono superare le polemiche sterili. Un inserimento attivo e controllato nella globalizzazione è una scelta molto diversa dalla strategia economica fondata sulla priorità data alle esportazioni; l'una e l'altra si fondano su blocchi sociali egemonici interni diversi. I paesi del Sud-est asiatico hanno ottenuto dei successi in quanto hanno sottomesso i loro rapporti esteri alle esigenze del loro sviluppo interno, cioè hanno rifiutato di "adeguarsi" alle tendenze dominanti su scala mondiale. È la definizione stessa di deconnessione, confusa - da troppi lettori frettolosi - con l'autarchia.

Anche la polarizzazione, non diversamente da tutti gli altri aspetti della società capitalistica, non è definita in una forma immutabile. Quella che è certamente superata è la forma con la quale la polarizzazione si era espressa per un secolo e mezzo nel contrasto fra paesi industrializzati e paesi non industrializzati.

Per molto tempo - dalla rivoluzione industriale dell'inizio dell'ottocento fino agli Trenta del Novecento (per quanto riguarda l'Unione Sovietica) e al 1950 (per quanto riguarda il Terzo mondo) il contrasto centri/periferie del sistema mondiale moderno era praticamente sinonimo dell'opposizione paesi industrializzati/non industrializzati. Le rivolte delle periferie - che hanno preso la forma di rivoluzioni socialiste (Russia e Cina) o movimenti di liberazione nazionale - hanno rimesso in discussione questa vecchia forma di polarizzazione impegnando quelle società nel processo di modernizzazione-industrializzazione. Gradualmente l'asse sul quale si riorganizza il sistema capitalistico mondiale, quello che definirà le forme future di polarizzazione, si è costituito invece attorno a quello che io chiamo i "cinque nuovi monopoli", di cui beneficiano i paesi della triade dominante.

Questi cinque monopoli sono:

1) Il monopolio di cui beneficiano i centri contemporanei nel campo della tecnologia; un monopolio che esige spese colossali, che solo lo Stato - un Stato grande e ricco - può sostenere. Senza questo sostegno - che il discorso liberale passa sempre sotto silenzio - e, soprattutto, senza il contributo per le spese militari, la maggior parte di questo monopolio non potrebbe essere mantenuta.

2) Il monopolio nel settore del controllo dei flussi finanziari di portata mondiale. La liberalizzazione dell'insediamento delle principali istituzioni finanziarie che operano sul mercato finanziario mondiale ha dato a questo monopolio un'efficienza senza precedenti. Ancora poco tempo fa la maggior parte del risparmio di una nazione poteva circolare nello spazio - generalmente nazionale - controllato dalle sue istituzioni finanziarie. Oggi non è più così: questo risparmio è centralizzato dall'intervento di istituzioni finanziarie, il cui campo di operazione è ormai il mondo intero.

3) Il monopolio che opera nell'accesso alle risorse naturali della Terra. I pericoli che lo sfruttamento scriteriato di queste risorse fanno correre al pianeta evidenziano la portata del monopolio dei paesi già sviluppati, che s'impegnano solo per evitare che il loro spreco si estenda agli altri.

4) Il monopolio che opera nei campi della comunicazione e dei media, che non solo spingono a un'uniformizzazione verso il basso della cultura mondiale di cui si fanno portatori, ma offrono anche strumenti nuovi alla manipolazione politica. L'espansione del mercato dei media moderni è già una causa tra le più importanti dell'erosione della pratica della democrazia anche in Occidente.

5) Il monopolio, infine, che opera nel campo degli armamenti di distruzione di massa. Limitato dal bipolarismo del dopoguerra, questo monopolio è di nuovo, come nel 1945, l'arma assoluta di cui la diplomazia americana ha l'uso esclusivo.

Nel loro complesso, questi cinque monopoli definiscono il quadro nel quale si esprime la legge del valore globalizzato. Ritengo che questi condizionamenti annullino la portata dell'industrializzazione delle periferie, svalutino il lavoro produttivo incorporato nelle sue produzioni, mentre sopravvalutano il preteso valore aggiunto nelle attività attraverso le quali operano i nuovi monopoli a tutto vantaggio dei centri. Questi monopoli producono quindi una nuova gerarchia nella distribuzione del reddito su scala mondiale, più che mai disuguale, rendono subalterne le industrie della periferia e le riducono al livello di attività di subappalto. La polarizzazione trova qui quel fondamento che dovrà guidare le sue forme future.

Considerati congiuntamente, l'insieme di questi fattori comporta quasi ovunque un funzionamento delle economie a diverse velocità: alcuni settori, regioni, imprese (in particolare quelle transnazionali giganti) registrano forti tassi di crescita e realizzano profitti elevati; altre sono stagnanti, in regressione o in disfacimento. I mercati del lavoro sono segmentati per essere adeguati a tale situazione.

Si tratta, ancora una volta, di un fenomeno realmente nuovo? Oppure nella storia del capitalismo il funzionamento a diverse velocità è la regola? Questo fenomeno si è molto attenuato durante il dopoguerra (1945-80) perché i rapporti sociali - imposti grazie all'intervento sistematico dello Stato (dal Welfare State, dallo Stato sovietico, dallo Stato nazionale nel terzo mondo di Bandung) - facilitavano la crescita e la modernizzazione delle forze produttive organizzando i trasferimenti regionali e settoriali che la condizionavano.

Non è quindi facile ritrovare, nel groviglio di elementi della realtà, ciò che deriva da queste tendenze importanti che s'impongono sul lungo periodo, da ciò che deriva dalla congiuntura della gestione della crisi. Nella fase attuale questi due gruppi di fenomeni sono entrambi molto evidenti. C'è l'aspetto "crisi e gestione della crisi", c'è l'aspetto trasformazione dei sistemi in corso. Il punto di principio sul quale vorrei insistere è il seguente: le trasformazioni nel sistema capitalistico non sono il prodotto di forze metasociali alle quali bisogna sottomettersi come a delle leggi di natura (accettando il fatto che non esiste alternativa), ma sono il frutto di rapporti di forze politici e sociali. Ci sono quindi sempre diverse scelte possibili, che corrispondono a equilibri sociali diversi.

Siamo pertanto di fronte a una "nuova questione dello sviluppo".

Una nuova economia politica_dello sviluppo per il XXI secolo

Nel corso di questo primo secolo di critica delle logiche fondamentali del capitalismo, i due compiti - "recuperare" e "fare qualcos'altro" - sono stati combinati in modo diverso a seconda delle condizioni di luogo e di tempo. Tuttavia si può dire, senza paura di esagerare, che il primo compito si è imposto sul secondo, così lo sviluppo è praticamente diventato sinonimo di "strategia di recupero" (per andare poi oltre). Queste strategie hanno perso smalto e sono entrate in crisi nel momento in cui sono cambiate le condizioni mondiali e quando alla fase di sforzo generale, che facilitava un'eventuale integrazione dinamica nella globalizzazione, è subentrata una crisi di riaggiustamento che ha reso l'inserimento impossibile. Il "fallimento" - se così vogliamo chiamarlo - non è dovuto al carattere troppo radicale delle esperienze del Ventesimo secolo, ma al contrario al loro insufficiente radicalismo, che non era forse oggettivamente possibile. In futuro si dovrà insistere di più sul "fare qualcos'altro", senza tuttavia ignorare che alcuni aspetti del recupero rimangono sempre necessari. In altre parole, il Ventunesimo secolo dovrà essere più radicale di quello che è stato il Ventesimo.

Sarà possibile? E quali potranno essere le tappe di questa progressiva radicalizzazione? In che modo, infine, sarà possibile integrare in strategie efficaci le esigenze prodotte dalle trasformazioni associate al ridispiegamento del capitalismo? L'economia politica dello sviluppo del Ventunesimo secolo dovrà trovare le risposte a queste domande.

Il nostro compito deve essere quello di proporre alternative (più di una). Bisogna non solo accettare la varietà delle visioni e delle proposte, ma sollecitarla e rallegrarsene. Mentre nel Ventesimo secolo abbiamo avuto risposte ispirate dal marxismo storico, dal keynesismo storico e da un populismo nazionale che era una sorta di forma degradata di marxismo storico, oggi abbiamo già alcune correnti critiche del capitalismo liberale globalizzato contemporaneo, che si potrebbero facilmente collocare sotto l'etichetta di "neokeynesismo", di "neomarxismo" o di "postcapitalismo". I prefissi "neo" e "post" indicano che la questione del contenuto di queste strategie alternative non è sufficientemente risolta per permetterne una compiuta formulazione teorica. Queste definizioni indicano anche che ci saranno sempre individui e correnti di pensiero e di azione più sensibili alle azioni immediate (il breve e medio periodo) e altri più concentrati sulla visione a lungo termine degli obiettivi.

Per quanto riguarda il lungo periodo ho già detto che, a mio parere, la società postscapitalistica (definizione volutamente imprecisa) sarebbe desiderabile solo se liberasse l'umanità dall'alienazione economicista e dalla polarizzazione mondiale. Definisco questa società "comunista", nella tradizione marxista. Ma ritengo anche che l'immaginario sociale e culturale mobilitato intorno a questi due obiettivi debba attingere a diverse fonti umaniste, e che nessuna vada scartata a priori. Un dogmatismo del genere deve essere combattuto. Bisogna accettare, desiderare, la diversità nel senso di una diversità indirizzata alla costruzione dell'avvenire e non ereditata da un passato che si cerca ossessivamente di voler perpetuare.

Quello che vorrei proporre nelle prossime pagine è una sorta di programma a medio termine che mi sembra auspicabile, possibile ed efficace, nel senso che prende in considerazione le grandi trasformazioni in corso in ciò che potrebbero avere di positivo e potrebbe rappresentare una fase intermedia in una prospettiva a più lungo termine della mia. E mi soffermo in particolare su di un aspetto, che non è il solo, ma mi pare essenziale: uno sviluppo multipolare.

Un mondo multipolare è in primo luogo un mondo regionalizzato. L'interdipendenza negoziata e organizzata, in modo da permettere ai popoli e alle classi dominate di migliorare le condizioni della loro partecipazione alla produzione e al loro accesso a migliori condizioni di vita, costituisce l'elemento di base della costruzione di un mondo policentrico. Essa implica il superamento dell'azione nel quadro degli stati-nazione, soprattutto di quelli di dimensioni modeste o medie, a tutto vantaggio di organizzazioni regionale al tempo stesso economiche e politiche, che permettono contrattazioni collettive tra le regioni. Le sfide che si trovano di fronte queste regioni e questi paesi sono troppo diverse perché sia possibile prevedere per tutti le stesse formule.

L'Unione Europea potrebbe impegnarsi su questa strada, anche se non sembra bene avviata avendo sviluppato una concezione strettamente economicista del suo progetto (un mercato integrato e nient'altro), e si ritrova di conseguenza alle prese con la grave difficoltà di dotarsi di un corrispondente potere politico comune. Fino a quando la parte sociale rimarrà, come è successo finora, un guscio vuoto, il mercato unico produrrà conflitti sociali (e quindi nazionali) insormontabili. È la ragione per la quale ho detto che l'Europa sarà di sinistra o non sarà affatto.

L'Europa dell'est potrebbe essere integrata in questo sistema europeo? È possibile, ma a condizione che nei rapporti interni gli europei occidentali non vedano in quelli orientali i loro partner "latinoamericani". Lo sviluppo disuguale degli europei per essere superato avrebbe bisogno di una organizzazione specifica per l'Europa dell'est, collegata con istituzioni paneuropee, ma tollerante verso regole del gioco diverse per le due metà del continente. Una lunga transizione è quindi necessaria prima di entrare nella fase ulteriore dell'integrazione economica e politica paneuropea. La Russia e gli stati dell'ex Unione Sovietica sono in una situazione simile, anche se la Russia, con le sue dimensioni, rimane potenzialmente una grande potenza. La ricostruzione di una cooperazione-integrazione dei paesi dell'ex Urss è necessaria, se si vuole allontanare il pericolo esplosivo insorgente dal loro sviluppo disuguale.

A causa del loro "sottosviluppo" più marcato, i problemi delle regioni del Terzo mondo sono diversi:

1) questi paesi e regioni sono meno profondamente integrati nel sistema produttivo globalizzato in costruzione. A parte la Corea, Taiwan e Singapore che sono forse le uniche eccezioni importanti (Hong Kong è ormai integrata alla Cina), in tutti gli altri paesi semi-industrializzati del Terzo mondo solo alcuni segmenti limitati del sistema produttivo sono integrati alla nuova economia globalizzata; 2) sono meno o per niente integrati tra di loro, soprattutto per quanto riguarda i paesi del "Quarto mondo"; 3) sono disugualmente sviluppati e il balzo in avanti del dopoguerra ha accentuato questa disuguaglianza, che separa ormai il gruppo dei paesi semi-industrializzati da quelli del "quarto mondo"; 4) infine, per tutte queste ragioni sono attirati da associazioni regionali Nord-Sud che operano a scapito della loro autonomia collettiva.

Invito il lettore a rivedere le proposte che altrove ho avanzato a questo proposito. Si tratta, infatti, di una concezione nuova delle regionalizzazioni necessarie, diverse da quelle concepite nel quadro dell'attuale sistema dominante. Queste ultime rappresentano una sorta di cinghia di trasmissione della globalizzazione polarizzante, in grado di unire zone periferiche a centri dominanti, che si spartiscono in questo modo le responsabilità del "colonialismo globale".

La regionalizzazione che propongo mi sembra il solo mezzo ragionevole ed efficace per combattere gli effetti polarizzanti dei cinque monopoli della triade. Partendo da ognuno di questi cinque monopoli si potranno definire gli assi fondamentale dei progetti di regionalizzazione suggeriti in questa sede, cioè le priorità che questi progetti dovrebbero avere. A partire da ciò si potranno riprendere le grandi questioni relative all'ordine mondiale, per proporre gli assi e gli obiettivi di grandi negoziazioni capaci di organizzare un'interdipendenza controllata, al servizio dei popoli, su almeno i seguenti punti principali:

1) La rinegoziazione delle "quote di mercato" e delle regole di accesso al mercato stesso. Tale progetto rimette ovviamente in discussione le regole del Wto che, dietro un discorso sulla "concorrenza leale", si adopera in realtà solo per difendere i privilegi degli oligopoli attivi su scala mondiale.

2) La rinegoziazione dei sistemi dei mercati di capitali, nella prospettiva di mettere fine al dominio delle operazioni di speculazione finanziaria e di orientare gli investimenti verso le attività produttrici a Nord e a Sud. Questo progetto rimette in discussione le funzioni, e forse l'esistenza stessa, della Banca mondiale.

3) La rinegoziazione dei sistemi monetari allo scopo di creare accordi e sistemi regionali che garantiscano una stabilità relativa dei cambi, completati dall'organizzazione della loro interdipendenza. Questo progetto rimette in discussione l'Fmi, il dollaro come valuta di riferimento e il principio dei cambi liberi e fluttuanti.

4) l'avvio di un sistema fiscale a carattere mondiale, ad esempio attraverso la tassazione delle rendite associate allo sfruttamento delle risorse naturali e la loro redistribuzione su scala mondiale secondo criteri appropriati e per usi ben precisi.

5) La smilitarizzazione della Terra, cominciando dalla riduzione delle forze di distruzione di massa dei paesi più potenti.

6) La democratizzazione dell'onu.

Le regioni coinvolte in queste trasformazioni non costituiscono solo aree economiche di integrazione preferenziale. Devono anche essere costruite come spazi politici che favoriscano il rafforzamento collettivo delle posizioni sociali delle classi e delle sottoregioni più svantaggiate. Questa regionalizzazione non riguarda solo i continenti del Terzo mondo (l'America latina, il mondo arabo, l'Africa subsahariana, l'Asia del Sud-est e i due paesi-continenti rappresentati da Cina e India), ma anche le varie Europe (l'Europa dell'unione Europea, l'Europa orientale, l'ex Unione Sovietica).

In questa prospettiva, che concilia globalizzazione e autonomie locali e regionali (ciò che chiamo una deconnessione coerente in risposta alle nuove sfide), c'è spazio per una revisione seria del concetto di "aiuto", così come dei problemi di democratizzazione del sistema delle Nazioni Unite, che potrebbe impegnarsi efficacemente in compiti di disarmo (resi possibili dalle formule di sicurezza nazionale e regionale associate alla ricostruzione generale), avviare la costituzione di un sistema fiscale globalizzato (in rapporto con la gestione delle risorse naturali della Terra), completare la sua organizzazione interstatale con la creazione di un "Parlamento mondiale" in grado di conciliare le esigenze dell'universalismo (diritti dell'individuo, delle collettività, dei popoli, diritti politici e sociali e così via) e la diversità delle varie eredità storiche e culturali.

Ovviamente questo "progetto" potrà realizzarsi progressivamente solo se a livello degli stati-nazione si creeranno forze sociali e progetti capaci di guidare le riforme necessarie - impossibili nel quadro imposto dal liberalismo e dalla globalizzazione polarizzante. Che si tratti di riforme settoriali (come quelle concernenti la riorganizzazione dell'amministrazione, il sistema fiscale, l'istruzione, le formule di sviluppo partecipativo sostenuto) o di visioni più generali della democratizzazione delle società e della loro gestione politica ed economica, queste fasi preliminari sono essenziali. Senza di esse una riorganizzazione planetaria, capace di far uscire il mondo dal caos e dalla crisi e di far "ripartire lo sviluppo", rimarrebbe fatalmente mera utopia.

In questa prospettiva dobbiamo quindi dare spazio a proposte di azioni immediate - innanzi tutto sul piano locale anche se la loro portata è ben più ampia ("globalizzare le lotte") - e intorno alle quali possano essere mobilitate forze politiche e sociali reali. Penso alla lunga serie di forme di regolazione che si potrebbero organizzare in tutti i settori: economici (la tassazione dei trasferimenti finanziari, l'abolizione dei paradisi fiscali, l'annullamento del debito), ecologici (la protezione delle specie, la proibizione di prodotti e metodi nocivi, l'avvio di un sistema fiscale globalizzato sul consumo di alcune risorse non rinnovabili), sociali (legislazione del lavoro, codici di investimento, partecipazione di rappresentanti dei popoli nelle organizzazioni internazionali), politici (democrazia e diritti della persona) e culturali (rifiuto della commercializzazione dei beni culturali).

La prima parte di questo saggio è stata pubblicata sul n. 8, luglio-agosto 2000. Economista egiziano,_Samir Amin è presidente del Forum del Terzo mondo.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

 

Fonte: La Rivista 9/2000