INTERVISTA Corrado Passera, numero uno delle Poste, deve fare i conti ogni giorno con la globalizzazione: la vede così

"E’ CADUTO IL MURO CONTRO MURO"

Danilo Taino

 

Fino a pochi mesi fa, la contrapposizione tra no global e integrati era radicale. Dopo l’11 settembre, sia a Porto Alegre sia alla "Davos a New York" si è discusso di come creare forme di "governance mondiale", di come rendere legittime le istituzioni internazionali. "La parola chiave è condivisione: i deboli non possono più essere esclusi"

 

"No, la globalizzazione non è in discussione - dice l’amministratore delegato delle Poste Italiane, Corrado Passera -. Sono in discussione, giustamente, le modalità attraverso le quali la globalizzazione si realizza". E nel dibattito di queste settimane si intravedono punti di contatto tra le tesi di alcuni dei protagonisti diretti della globalizzazione, per esempio quelli riuniti una settimana fa all’hotel Waldorf Astoria per la "Davos a New York", e quelle dei cosiddetti no global che negli stessi giorni erano a convegno a Porto Alegre, Brasile. "I punti di vista sono meno contrapposti, meno ideologici di quanto lo fossero pochi mesi fa", sostiene. Negli ultimi anni, Passera si è occupato di Poste: e a guardare il caso italiano, viene da pensare che si tratti di qualcosa che ha poco a che fare con la globalizzazione. Se il business, però, lo si intende come servizi postali aperti alla concorrenza internazionale - un caposaldo nella strategia di risanamento messa in atto da Passera stesso - è chiaro che l’apertura delle economie, i movimenti delle merci, i flussi migratori, il turismo, la velocità delle transazioni, lo sviluppo di Internet, le alleanze internazionali - cioè quel complesso di fenomeni che prende il nome di globalizzazione - sono elementi essenziali che l’amministratore delegato di un servizio postale nazionale non può non mettere in primo piano. Passera, che tra l’altro partecipa da anni ai vertici del World Economic Forum, è dunque in una posizione privilegiata per osservare e misurare le vicende della globalizzazione. Anche in termini concreti. Corriere Economia lo ha intervistato il 3 febbraio, durante la "Davos a New York".

"Sia i partecipanti di Davos che quelli di Porto Alegre vogliono lo sviluppo - sottolinea Passera come primo elemento di novità da registrare nel mondo del dopo 11 settembre -. Sul tema del valore anche sociale della crescita economica si può trovare un grande consenso e si può portare il dibattito sui modelli di crescita e su come realizzare una crescita sostenibile e responsabile". E già questo, in sé, non era un fatto scontato solo ai tempi del G8 di Genova, l’estate scorsa. "Inoltre - aggiunge - tutta una serie di tematiche sono state prese in seria considerazione sia a New York che in Brasile. Il timore di un’omologazione non solo economica ma anche culturale e di costume, che non piace a nessuno. La paura del Grande Fratello. Il rifiuto del profitto come unico criterio di valutazione. L’esigenza di affrontare i problemi drammatici della povertà del mondo".

Il passo avanti, su problemi di questa portata, non sta tanto nel fatto che ne discutano sia i potenti della Terra sia i per lo più giovani no global. Sta piuttosto nel fatto, secondo Passera, che si è iniziato a discutere concretamente delle istituzioni che devono affrontarli e della loro rappresentatività. "L’ineguaglianza, il terrorismo, l’ambiente - sostiene - sono questioni globali che, abbiamo visto, non hanno soluzione a livello di singoli Stati. Le domande alle quali siamo di fronte richiedono forme di global governance . Quali istituzioni devono essere coinvolte o create? E come dar loro un’adeguata legittimazione? Quali poteri gli Stati devono delegare e a quali livelli? Con quali obiettivi?". La discussione, insomma, sta entrando nel merito non solo dei compiti di istituzioni come il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, l’Organizzazione mondiale per il commercio. Anche a livello di governi, di accademia e di top manager si inizia a prendere in considerazione la critica di mancanza di rappresentatività di queste istituzioni avanzata dal movimento no global: non basta, a questo punto, che siano nominate da governi, spesso democraticamente eletti; occorre che la legittimazione la trovino nel rappresentare veramente punti di vista e interessi ampi, non solo quelli dei Paesi maggiori e più potenti. "L’apertura ai Paesi minori è essenziale, altrimenti potremmo avere casi in cui si creano bombe anti-sistema", dice Passera. In sostanza, si tratta di stabilire come "condividere la global governance ".

Succede insomma che invece di sventolare le bandiere ideologiche si inizia a discutere di come affrontare i problemi. E "condivisione" sembra la parola magica anche per prepararsi al futuro. A cominciare proprio da quello della crescita. "La Cina e l’India - dice ad esempio Passera - sono Paesi chiave per il futuro dell’economia". Modelli economici e politici molto diversi da quelli occidentali. Ma ci stiamo preparando ai nuovi equilibri che la loro crescita produrrà?

In sostanza, Passera è convinto che i problemi drammatici che sono esplosi negli ultimi mesi possano essere affrontati e che, anzi, si stia iniziando a farlo. E ritiene che la globalizzazione andrà avanti, nonostante i colpi che, spesso, subisce dallo stesso capitalismo, come nel caso Enron. "Io - dice Passera - l’ho letto sin dall’inizio come un caso di delinquenza, di quelli che possono accadere ovunque. Ma non è così che è stato vissuto negli Stati Uniti: gli americani lo stanno vivendo, e ciò è preoccupante, come un sintomo di una malattia più diffusa". Che potrebbe avere conseguenze anche su alcune delle teorie che sono state alla base della globalizzazione degli Anni Novanta, ad esempio la dottrina dello shareholder value . "Sicuramente - sostiene Passera - è qualcosa che deve evolvere. La misurazione del valore creato da un’impresa non può essere solo la capitalizzazione di Borsa. Il valore si misura nel medio periodo e le aziende che si sentono responsabili anche del loro bilancio sociale sono quelle di cui il sistema ha più bisogno".

Fonte: Corriere della Sera

02/2002