IL PIANETA SPEZZATO


di KOFI ANNAN


Una larga parte della popolazione mondiale in questo momento è completamente fuori dal mercato globale. Non produce né consuma praticamente niente. Ha bisogni enormi e un desiderio di beni e servizi forte, pari a quello di chiunque altro. Ma non è in grado di pagare nulla, perché non guadagna nulla.
Sono donne e uomini paralizzati dalla fame, dalle malattie, dall'ignoranza, dall'isolamento. Insomma, dalla povertà. In molti luoghi la loro stessa esistenza è minacciata, dalla violenza o dal degrado ambientale. Eppure, potrebbero vivere in un modo completamente diverso.
Il nostro pianeta è benedetto da risorse che potrebbero nutrire tranquillamente i sei miliardi di persone che vi abitano, e anche di più.

Ma almeno un miliardo di bocche non hanno cibo, mentre derrate in eccesso marciscono nei magazzini dei paesi ricchi.
Le malattie per cui tanta gente nel sud del mondo soffre e muore la malaria, la turbercolosi, e perfino l'Aids sono prevenibili e curabili. Ma meno del 10 per cento della spesa per la ricerca è destinata a curare queste malattie "da povero". I paesi in via di sviluppo possono spendere soltanto tra i 5 e i 10 dollari procapite all'anno per i propri cittadini, lì dove ce ne vorrebbero almeno 60 a testa per assicurare servizi minimi accettabili.
Simile la situazione dell'istruzione. Con una spesa di 7 miliardi di dollari all'anno potremmo assicurare le scuole elementari a tutti i bambini dei paesi in via di sviluppo che ora non possono accedere ad alcuna forma di alfabetizzazione.
Investimenti anche più limitati basterebbero per rompere l'isolamento di tante comunità povere. Questo grazie alle nuove tecnologie, dai telefoni cellulari a Internet. Già oggi questi strumenti stanno consentendo alle contadine del Bangladesh di commerciare i loro tessuti, e ai pescatori dello Stato indiano Kerala di vendere a prezzo migliore il loro pesce.
Non voglio naturalmente dire che cambiare questa situazione sia facile. Ma sono certo che se governi, imprese e società civile collaborassero, il mondo potrebbe essere più ricco e più sicuro, insomma un posto migliore in cui vivere. Una differenza che converrebbe a tutti.
Chi fa affari, ad esempio, ha bisogno di consumatori, gente, cioè, con il denaro in tasca. E poi di lavoratori, che può addestrare direttamente, ma solo a patto di poter dare per scontata un'istruzione di base. E infine anche di un ambiente naturale integro, necessario per attività che durino nel tempo. Pensare a tutte queste cose, mi potrà rispondere qualcuno, è compito dei governi. Ma non tutti gli obiettivi sociali possono essere raggiunti semplicemente tassando e stanziando fondi. Anche i governi hanno bisogno di partner, non solo nel mondo del business ma anche nella società civile e nel volontariato. Fondazioni caritatevoli, gruppi di pressione, "think tanks", università, agenzie umanitarie. Persone unitesi volontariamente per uno scopo comune, più o meno ambizioso, in cui credono.
In molti paesi è abbastanza normale per queste tre forze business, governi, e società civile lavorare insieme per rafforzare la comunità locale o nazionale. Se tutto questo è vero a livello nazionale, dove ci sono governi veri e propri con potere e autorità sufficienti per imporre leggi e fornire servizi sociali, questo deve essere vero nella comunità internazionale le cui regole si basano proprio sulla cooperazione volontaria.
I governi, per lo più, rimangono ancora saldamente ancorati a preoccupazioni locali, mentre il mondo degli affari e la società civile diventano sempre più "globali". È dunque dovere di chi vuole fare affari nel mercato globale fare tutto ciò che è possibile per creare e sostenere la comunità globale. Questo potrà sembrare un ragionamento astratto e teorico, in realtà è assolutamente pratico.
Né i governi né gli imprenditori hanno la bacchetta magica. Ma lavorando insieme, e insieme alle organizzazioni del volontariato, possono costruire il cambiamento.
È così anche per la sfida ecologica. Soltanto i governi possono mettere a punto e far rispettare regole di tutela dell'ambiente, possono prevedere incentivi perché il mercato rispetti la natura. Ma serve il settore privato per inventare e produrre tecnologie sostenibili.
In caso di guerre, ovviamente la responsabilità maggiore è dei governi. Ma le aziende hanno il dovere di non fomentare o sfruttare il conflitto per motivi di lucro. E spesso possono giocare un ruolo importante per risolvere o prevenire uno scontro, per esempio offrendosi come canale riservato di comunicazione tra gli avversari o affiancando ai loro investimenti in miniere e petrolio finanziamenti per lo sviluppo sociale delle comunità dei luoghi in cui fanno affari.
Al Forum economico di Davos ho proposto il "Global Compact", un patto con cui le aziende si impegnino a rispettare diritti umani, standard internazionali di lavoro e l'ambiente. Molte sono già state le compagnie che hanno risposto positivamente al mio appello. Ora io chiedo ad altri di seguire quell'esempio. E credo di aver chiarito perché accogliere questo invito non significhi rinunciare ai propri interessi corporativi.
Chi fa business, anzi, dovrebbe diventare anche un difensore di politiche di governo illuminate. Chi fa "affari globali", dovrebbe sollecitare l'apertura dei mercati affinché i prodotti dei paesi poveri possano raggiungere i paesi ricchi, dovrebbe perorare una generosa remissione dei debiti, chiedere nuovi aiuti per i paesi che effettivamente si siano impegnati a migliorare le condizioni dei propri popoli. Questo ruolo sociale va percepito sempre di più come complementare e non contraddittorio rispetto agli sforzi per realizzare profitti.
Insomma, occorre capire sempre di più che il mercato globale richiede una cittadinanza globale.
l'autore è Segretario generale dell'Onu

 

FONTE: REPUBBLICA 22 GIUGNO 2001