IL MONDO DI PIZZA HUT
Luciana Castellina
Nelle scorse settimane, al periodico annuncio, in occasione delle giornate professionali degli esercenti, dei dati relativi agli incassi nelle sale, i giornali italiani hanno nuovamente osservato l'annuale liturgia del lutto cinematografico. Dopo la meteora Benigni, che ha allietato il nostro '99, la discesa del cinema nazionale appare inesorabile. Nell'anno d'inizio del millennio più che mai: una caduta anche più marcata, una vera precipitazione. Dal 27% del mercato al 14 (al 16 se si considerano le co-produzioni), un calo quasi tutto riempito dagli americani che infatti salgono dal 57 al 65%, o dagli inglesi, i cui prodotti filmici di successo solo parzialmente vengono considerati veramente europei (Ken Loach non rientra, ovviamente, nella categoria).
Colpa dei registi italiani culturalmente impoveriti, dei produttori nostrani codardi e che non osano più rischiare, d'aiuti statali troppo cospicui che creano assistenzialismo e dunque pigrizia? Sì, anche. Tutte le critiche contengono un pezzo di verità. Ma basterebbe gettare uno sguardo sui dati - e sui lamenti da questi suscitati - degli altri paesi europei per rendersi conto che il problema non è solo italiano. Per non parlare di cosa accade nelle regioni extracomunitarie del mondo. E non ci si lasci ingannare dai successi dei film iraniani o asiatici nei festival internazionali: ai box offices mondiali è arduo rintracciarli.
Il fenomeno è noto e non varrebbe la pena tornarci su se non per qualche considerazione e informazione sulla fase più recente, che vede insieme crescere resistenze e persino qualche controffensiva, e però anche ingenue illusioni indotte dai miti della new economy.
Intanto, una banale ma spesso dimenticata considerazione: il mercato globale non è un mercato più grande, è un mercato diverso. Per protagonisti, meccanismi, prodotti. Quelli che incontrano il favore dei consumatori ai quattro poli tendono inevitabilmente a perdere le proprie più evidenti connotazioni storico-geografiche, o meglio ad acquisire quelle del modello dominante, e si affermano ormai, più che per le proprie qualità intrinseche, per la forza del messaggio mediatico che le accompagna, che gioca un ruolo spropositato in quanto non contano più le vecchie comunità di riferimento. Con un elemento aggiuntivo per quanto riguarda la produzione culturale, e cioè audiovisiva (che ne è l'espressione moderna): che se la competitività esacerbata e la (dubbia) legge dei vantaggi comparati porta ad inondare il mondo di un frigo fabbricato solo in un punto della terra o da una stessa azienda, il danno per l'umanità non è poi gravissimo. Al contrario di quando la stessa sorte è subita, per esempio, dall'industria cinematografica, giacché, mentre un frigo costruito a Bogotà, Hong Kong, Addis Abeba, Detroit, è più o meno uguale, non è così per un film. Lo stesso discorso vale, com'è noto, per sementi, flora, fauna, gastronomia e per tutta la cultura.
Il processo che porta l'audiovisivo americano, e cioè il prodotto che incorpora meglio di ogni altro l'egemonia culturale della potenza dominante, ad occupare l'80-85% del mercato mondiale, ha origini lontane, che precedono di parecchio l'attuale era di globlizzazione. Sin dagli anni '30, anche in virtù del fatto che, a differenza dell'Europa gli Stati Uniti godevano di compattezza linguistica, si sviluppò in quel paese una fortissima industria cinematografica, ricca dell'apporto dei tanti intelletuali europei sfuggiti al fascismo. Essa conquistò a tal punto l'immaginario collettivo da finire per rapprsentare il moderno universalismo, e Hollywood per la gente cessò di essere un luogo geografico per diventare la patria del cinema, dotata di una sorta di extraterritorialità. Già Giaime Pintor ebbe a scrivere che il cinema americano era diventato parte della nostra stessa identità. Mai come oggi, tuttavia - questo è il fatto nuovo - si era giunti ad una cosi massiccia e pervasiva presenza , l' 80-85% del mercato audiovisivo; e sopratutto non si era verificato l'impoverimento attuale, dovuto all' estrema serializzazione del prodotto (i film indipendenti subiscono la stessa sorte di quelli europei). Per questo si parla adesso di mcdonaldizzazione. (Forse, anzi, occorrerebbe chiamarlo "pizzahuttizzazione", giacchè, in effetti, il business globalizzato si è fatto ormai più accorto e aggiunge in ogni paese al suo standard omologato un tocco di locale folclore per alimentare l'illusione della personalizzazione. Ed è così che si crea il mito delle "nicchie di mercato", e dunque delle differenziazioni che proprio la flessibilità consentita dalla new economy permetterebbe. Solo i cinesi e gli indiani, che sono tanti e molto tosti, sono per ora riusciti a non farsi nè mcdonaldizzare né pizzahuttizzare. Speriamo reggano).
In realtà "nicchie" si stanno aprendo anche in campo culturale e dunque non mancano resistenze che mirano a garantire la sopravvivenza di diversità culturali. Crescono - e trovano consenso nel pubblico - come reazioni all'assedio, e dunque come risultato di ripiegamenti identitari difensivi. Hanno il pregio di riannodare i fili con le proprie radici, di riproporre storie e personaggi non virtuali, un fenomeno salutare rispetto alle precedenti massicce alienazioni. Ma certo si tratta di fictions televisive e di film che restano chiusi in un universo non locale (da cui spesso sono nate opere d'arte universali), ma iperlocalista, portatori di un messaggio che non traversa le frontiere, non dico nazionali, spesso nemmeno regionali. Nascono anche per via della moltiplicazione dei canali televisivi, che consentono l'offerta di programmi etnici, a ciascuna minoranza il suo nei grandi paesi ormai multilingue per via delle migrazioni, a ciascuno secondo i propri gusti.
Il problema nasce proprio di qui: il mondo s'attrezza a diventare un mondo di nicchie culturali non comunicanti cui viene lasciato un ruolo marginale, complementare rispetto all'universale che resta saldamente nelle mani di Hollywood. Cui spetta il diritto di governare il nuovo ordine, come avviene per Washington in tutti gli altri campi, in questo caso garantendosi il potere di costruire in esclusiva l'immaginario collettivo. (E dunque di ridisegnare la memoria, i comportamenti, i valori, le aspettative dell'umanità, persino, anzi soprattutto, la fantasia dei bambini).
Gli altri si contentino della nicchia, magari via video on demand, e ringrazino: l'immagine del mondo non avrà il loro contributo, con grave danno non solo loro, del resto, ma innanzitutto degli americani, condannati a guardarsi allo specchio (il 97% dei film che si vedono negli Stati Uniti sono prodotti nel paese, il punto di vista degli altri cinque miliardi e 800 milioni di esseri umani filtra attraverso un forellino largo il 3%), ma in compenso, nel chiuso del loro individuale televisore, potranno vedersi ciò che gli pare e condividere con i compaesani le gioie di un film tutto ed esclusivamente loro.
Il mondo immaginato per il terzo millennio, multiculturale, segnato dalla positiva contaminazione, da un vitale meticciato, rischia in realtà di diventare il tempo del revival tribale, e dunque di culture che per sopravvivere s'irrigidiscono e si chiudono, fino a deperire, giacché non ricevono più gli inneschi, né gli stimoli indotti dallo scambio. Culture da museo.
Di questi problemi - come garantire non la protezione ma lo scambio reale, e a tutti di diritto di contribuire all'universale - si è discusso in tre appassionate giornate promosse dalla Fondación Valencia Tercer Milenio e dalla ADC Nouveau Millénaire (un'associazione patrocinata dall'Unesco): una delle molte iniziative di "controffensiva" in corso, la prima, però, ad esser partecipata da autorevoli autori ed operatori non solo europei, o al massimo con i loro stretti parenti latino-americani, ma anche asiatici, africani, australiani, canadesi. Ne è uscita la decisione di dar vita ad un osservatorio permanente per monitorare quanto accade nel settore audiovisuale e una dichiarazione su "Globalizzazione e diversità culturale" - che solo i tre rappresentanti della Motion Picture Association (gli studios americani) non hanno voluto sottoscrivere, e che ora circola, anche via Internet, per alimentare ulteriore dibattito, stimolare nuovi contributi e adesioni.
Il testo che pubblichiamo è l'intervento pronunciato in quest'occasione da Vázquez Montalbán. Un approccio culturale, il suo, che si è intrecciato con quelli che hanno invece affrontato il concretissimo e urgente problema dei negoziati per la liberalizzazione che, fermati a Seattle, stanno riprendendo in sordina anche per il settore audiovisivo nella sede ginevrina dell'Organizzazione mondiale del commercio. Si tratta di un appuntamento decisivo. Nel '93, quando fu firmato il precedente accordo sui servizi, nel quadro dell'Uruguay Round, i paesi dell'Unione Europea riuscirono a strappare quella che è stata erroneamente chiamata eccezione culturale. Si trattava in realtà solo della non offerta alla liberalizzazione del settore audiovisivo. Quell'accordo oggi è rimesso in discussione non solo perché la filosofia dell'OMC consiste nel puntare ad avanzare ad ogni tornata negoziale, ma anche perché esso non copre i servizi fondati sulle nuove tecnologie che nel frattempo si sono sviluppati (basti pensare che nelle centinaia di pagine di quel nemmeno tanto lontano negoziato la parola Internet non compare mai!). Occorre dunque, questa volta, arrivare ad una soluzione più drastica e permanente: ad un'esenzione dei prodotti con contenuto culturale dai processi di liberalizzazione, in nome della loro specificità. Ed è proprio per ottenere che tale specificità - dovuta al fatto che tali prodotti sono portatori di diversità, d'identità culturale - sia sancita da una grande istituzione o convenzione internazionale, così com'è avvenuto per i diritti umani, sociali o ambientali - che la Conferenza di Valencia si è tenuta. La dichiarazione che ne è uscita - questa l'intenzione - dovrebbe essere la base di una nuova Convenzione o Carta dei diritti, che, sebbene non coercitiva, come del resto quelle analoghe, conferirebbe però uno strumento con cui condizionare gli accordi commerciali (come già avviene per gli altri "diritti" internazionalmente riconosciuti).
La parola "liberalizzazione" usata in campo culturale può suscitare equivoci. Sia chiaro: non si tratta di impedire che circoli questa o quell'opera, ma di garantire un pluralismo che oggi il mercato non garantisce. Si tratta di impedire che con la generalizzazione della clausola della nazione più favorita (che è poi la sostanza della cosiddetta liberalizzazione dell'OMC) sia annullata ogni sovranità di ciascun paese sulla propria cultura e dunque vengano fatte saltare - questa è la posta in gioco - tutte le regolamentazioni che a livello nazionale (o europeo per quanto riguarda i paesi dell'Unione) consentono oggi alla produzione culturale di continuare ad esistere, laddove la legge del mercato globale l'avrebbe già spazzata via. Interessante notare che persino la BSAC, l'organizzazione dei produttori audiovisivi inglesi, sempre molto liberista e sempre oggettivamente alleata agli studios americani, si è negli ultimi mesi mobilitata in questo senso. L'ha convinta uno studio commissionato sulle conseguenze che avrebbe un accordo OMC sulla linea voluta dagli americani, dal quale è risultato che gran parte dell'industria culturale britannica sarebbe stata spazzata via.
Fonte: La Rivista 8/2000