Globalmente rassegnati

di Amartya K. Sen

 

Data la gravità e le conseguenze dei contrasti tra ricchezza e povertà che osserviamo nel mondo, come fa la maggior parte di noi a condurre una vita spensierata? L'assenza di riflessione etica è dovuta a un'assenza di empatia, a una specie di cecità morale o di supremo egocentrismo che affligge e travia il nostro modo di pensare e di agire? O esiste un'altra spiegazione, riconducibile a una visione meno negativa della nostra psicologia e dei nostri valori?

Non è facile rispondere, ma io credo che la nostra indifferenza sia legata più a un difetto di conoscenza che a una mancanza di solidarietà. Tale fallimento cognitivo può essere il frutto tanto di un irragionevole ottimismo quanto di un pessimismo senza fondamento; e, stranamente, capita che questi due estremi si tocchino. L'ottimista testardo tende a sperare che presto le cose migliorino, che l'economia di mercato, che ha portato prosperità in una parte del mondo, finisca automaticamente per estendere a tutti i suoi benefici. "Dateci tempo, non siate così impazienti", dice. D'altro canto il pessimista a oltranza riconosce ed enfatizza la persistenza della miseria nel mondo. Ma egli è pessimista anche sulla nostra capacità di cambiare le cose. "Dovremmo cambiarle, ma a essere realistici, sappiamo che non ci riusciremo", dice. Il pessimismo conduce spesso alla supina accettazione di grandi mali. Come scrisse Thomas Browne nel 1643, "il mondo... non è una locanda, ma un ospedale": possiamo imparare a vivere felici in un posto pieno di gente sofferente, evitando di pensare a tutti quei disgraziati intorno a noi.

C'è dunque una convergenza, parziale ma vera, tra l'ottimista testardo e il pessimista incorreggibile. Il primo ritiene che non sia il caso di fare resistenza, il secondo che sia inutile. O come disse James Branch Cabell (di fronte a una manifestazione ben diversa di questo paradosso): "Per l'ottimista viviamo nel migliore dei mondi possibili. Il pessimista teme che sia vero". I punti di vista opposti si uniscono nella rassegnazione, e la passività globale si nutre non solo di cecità morale, apatia, egocentrismo ma anche dell'alleanza conservatrice di due posizioni estreme. Convinti - o per lo meno confortati - da entrambe, possiamo occuparci dei fatti nostri senza vedere nulla di imbarazzante nell'accettare tranquillamente le disuguaglianze del mondo.

È in questo contesto che vanno analizzare gli attuali dubbi sulla globalizzazione, e i movimenti di protesta che tanto turbano i vertici internazionali. Le proteste hanno molte sfaccettature (tra cui un'arroganza e una violenza difficili da tollerare) ma sipossono considerare comeuna sfida all'autocompiacimento etico e all'inazione generati dalla coalizione tra ottimisti e pessimisti. Sono movimenti spesso goffi, rabbiosi, semplicistici, dissennati eppure, a mio parere, hanno la funzione di mettere in discussione la tendenza ad accontentarci del mondo in cui viviamo. Anche se certe premesse e molti dei rimedi proposti dal fronte della protesta sono raffazzonati e confusi, bisogna riconoscere il ruolo fecondo dei dubbi e vanno tenuti ben distinti gli elementi distruttivi dei movimenti dalla loro funzione costruttiva.

Le proteste esprimono dubbi creativi. Ma a proposito di che? Qui occorre fare uno sforzo interpretativo. I manifestanti si descrivono spesso come contrari alla globalizzazione. Ma a dispetto di ciò che dicono, non lo sono affatto. Infatti le loro proteste sono fra gli eventi più globali che ci siano. I fenomeni di Seattle, Melbourne, Praga, Québec e altrove non sono né locali né isolati; non sono creati dai giovani del posto, ma da uomini e donne venuti da tutto il mondo per far sentire la propria voce globale. La globalizzazione dei rapporti non è certo quello che intendono fermare, altrimenti dovrebbero cominciare col fermare se stessi.

Prima di tornare a ragionare sulle proteste, vorrei sottolineare che la globalizzazione non è una novità né una follia. In una prospettiva storica, contribuisce da millenni al progresso nel mondo attraverso viaggi, commerci, migrazioni, disseminazione delle influenze culturali, del sapere e delle conoscenze, scienza e tecnologia comprese. Fermarla avrebbe recato al progresso umano danni irreparabili.

Anche se oggi la globalizzazione è vista spesso come un corollario del dominio occidentale, storicamente ha seguito strade diverse. Attorno all'anno Mille, la diffusione globale della scienza, della tecnologia e della matematica stava cambiando il vecchio mondo ma proveniva da una direzione opposta a quella attuale. La carta e la stampa, la balestra e la polvere da sparo, l'orologio e il ponte sospeso con catene di ferro, l'aquilone e la bussola, la carriola e il ventilatore girevole - tutti esempi dell'alta tecnologia di un millennio fa - erano usati comunemente in Cina e ignoti altrove. La globalizzazione li ha portati nel resto del mondo, fino in Europa.

L'influenza dell'Oriente sulla matematica occidentale ha seguito lo stesso percorso. Il sistema decimale, nato in India tra il II e il VI secolo, è stato poco dopo adattato dai matematici arabi. Sul finire del X secolo l'innovazione ha raggiunto l'Europa e ha avuto un ruolo di primo piano nella rivoluzione scientifica. L'Europa sarebbe stata ben più povera - economicamente, culturalmente e scientificamente - se allora avesse resistito a quella globalizzazione e lo stesso vale per quella in atto oggi. Rifiutare la globalizzazione della scienza e della tecnologia in quanto influenza occidentale non solo significherebbe ignorare i contributi - venuti da svariate regioni del mondo - sui quali si sono edificate la scienza e la tecnologia dette "occidentali", ma in pratica sarebbe una scelta idiota, visti i vantaggi che da tale processo trarrebbe il mondo intero. Identificare questo fenomeno con "l'imperialismo occidentale" in materia di idee e credenze (sempre stando alla retorica) sarebbe un errore grave e costoso, così come lo sarebbe stata una resistenza europea all'influenza orientale mille anni fa. Certo, non vanno trascurati i problemi della globalizzazione connessi con l'imperialismo (la storia delle conquiste e del colonialismo ha ancora i suoi effetti). Ma la globalizzazione non si riduce a questi: è molto, molto di più.

In effetti, la questione più importante è come usare bene i grandi benefici derivanti dai rapporti economici e dal progresso tecnologico, in maniera da prestare la dovuta attenzione agli interessi dei più poveri. Questo chiedono i movimenti di protesta, anche se in sostanza la questione non riguarda affatto la globalizzazione.

Mi sembra che per un verso o per l'altro l'oggetto del contendere siano le disuguaglianze inter e intra-nazionali di ricchezza, le notevoli asimmetrie del potere politico, sociale ed economico, e quindi la condivisione dei potenziali benefici della globalizzazione tra paesi ricchi e poveri e tra diversi gruppi all'interno di uno stesso paese. Non basta convenire sul fatto che i poveri del mondo hanno bisogno della globalizzazione almeno quanto i ricchi, bisogna anche assicurarsi che ottengano ciò di cui hanno bisogno. E questo potrebbe richiedere una profonda riforma istituzionale, da affrontare nel momento stesso in cui si prendono le difese della globalizzazione.

Forse occorre concentrarsi innanzitutto sull'immenso ruolo delle istituzioni non di mercato nel determinare la natura e la portata delle disuguaglianze. Le istituzioni politiche, sociali, legali e altre ancora, possono influire fortemente sul buon funzionamento dei meccanismi di mercato, allargandoli e facilitandone un uso equo, e così facendo intervenire sulle disparità tra le nazioni e sulle disuguaglianze interne ad esse.

L'architettura internazionale economica, finanziaria e politica del mondo che abbiamo ereditato dal passato - comprese istituzioni come la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale e altre ancora - deriva soprattutto dalla conferenza di Bretton Woods nel 1944. All'epoca, occorreva affrontare i problemi post-bellici. Gran parte dell'Asia e dell'Africa erano ancora sotto una qualche forma di dominio coloniale, e certo non erano in grado di contrastare la spartizione internazionale del potere e dell'autorità che le potenze alleate imposero al mondo. L'insicurezza economica e la povertà erano molto più tollerate di oggi, i diritti umani erano un'idea ancora fragilissima, il potere delle Ong era tutto da inventare e la democrazia non era sicuramente vista come un principio globale.

Da allora il mondo è cambiato. La forza delle proteste globali riflette in parte una nuova mentalità, una nuova tendenza a sfidare l'establishment mondiale ed è, in larga misura, l'equivalente globale delle proteste interne alle nazioni, associate ai movimenti dei lavoratori e al radicalismo politico. Le recenti esplosioni dei dubbi globali sembrano addirittura condividere lo spirito con cui Leadbelly, il grande cantante di blues, scrisse un giorno, mutuando il primo verso dall'inno nazionale statunitense: "In the home of the brave, land of the free,/I will not be put down by no bourgeoisie" (Nella patria dei prodi, terra dei liberi / Non mi farò schiacciare da nessuna borghesia). Il radicalismo, si sa, non ha mai avuto in America il potere suggerito da questa canzone, ma la determinazione che essa esprime ha contribuito nel tempo a molti cambiamenti concreti, a cominciare dal potere delle organizzazioni dei lavoratori, del quale tanti industriali si lamentano oggi.

Si può fare un parallelo con gli attuali movimenti di protesta globale: non sono ancora molto forti in termini organizzativi ma sono in larga misura un segno di quanto sta per accadere. Siccome pongono domande vere, occorre trovare risposte adeguate, anche se agli occhi dell'establishment mondiale i manifestanti sembrano rozzi e chiassosi. C'è davvero bisogno di cambiare. Il mondo di Bretton Woods non è quello di oggi. La sua struttura istituzionale va rivista da cima a fondo. Anzi, non credo che le potenzialità costruttive dei movimenti di protesta possano essere imbrigliate né la loro presenza distruttiva eliminata senza una risposta istituzionale chiara.

Di questa, già si colgono le avvisaglie: stanno cambiando le priorità delle istituzioni internazionali. Anche se l'eliminazione della povertà non era l'oggetto principale delle risoluzioni di Bretton Woods, per esempio, essa è diventata almeno formalmente lo scopo della Banca mondiale. C'è un ripensamento in atto del peso del debito sui paesi poveri, della vecchia pratica del Fmi e della Banca mondiale di imporre ai paesi poveri "riforme strutturali" malamente formulate, spesso con effetti dannosi sull'infrastruttura sociale. Sono cambiamenti che vanno nella direzione giusta, ma ci vorrà molto di più, specialmente in termini di costruzione istituzionale. Ben vengano questi cambiamenti in strutture come la Banca mondiale, ma occorre prendere esplicitamente le distanze dall'architettura ereditata da Bretton Woods.

C'è bisogno oggi di interrogarsi non soltanto sull'economia e sulla politica della globalizzazione ma anche sui valori che contribuiscono alla nostra concezione del mondo globale, senza lasciarsi sopraffare da un misto di ottimismo testardo e di pessimismo dissennato. C'è bisogno di riflettere non solo sugli impegni dettati da un'etica globale ma sulla necessità concreta di mettere le istituzioni internazionali al servizio del mondo e di estendere il ruolo delle istituzioni sociali in ogni paese. È importante tenere conto della complementarità tra istituzioni diverse, tra cui il mercato e i sistemi democratici, le opportunità sociali, le libertà politiche e altri elementi istituzionali, vecchi e nuovi. Serviranno istituzioni innovative per affrontare le questioni di sostanza sollevate dai dubbi globali e per spezzare il cerchio di incomunicabilità nel quale i movimenti di protesta tendono sempre a rinchiudersi. La protesta globale degli attivisti in tutto il mondo può davvero essere costruttiva, ma perché lo sia questi movimenti vanno giudicati per le domande globali che pongono, più che per le risposte apparentemente contrarie alla globalizzazione contenute nei loro slogan.

(Traduzione di Sylvie Coyaud)

Fonte: Sole 24 ore

8 luglio 2001