LA SCUOLA NON È IL MERCATO
MICHELE SERRA
Ma la scuola, dev'essere prima di tutto funzionale al mondo del lavoro? E perché si studia? Per "prepararsi alla vita", come raccomandavano retoricamente i nostri vecchi professori, o per avviarsi diligentemente sui binari di una carriera? La risposta (non facile) a queste domande è forse il solo vero nocciolo attorno al quale si sta ingrossando la polpa dell'ennesima protesta studentesca. Per il ministro Moratti, non per caso manager emerito, la fondamentale premura, a quanto si è capito, è calibrare meglio l'istruzione italiana attorno alle esigenze del mercato del lavoro. Per un manager, società e mercato sono quasi sinonimi. Né l'evidente scollamento tra la scuola italiana, i suoi diplomi piccoli e grandi, e l'accesso alle professioni e ai mestieri, suggerisce di liquidare con un'alzata di spalle l'intendimento del ministro. Sì, la scuola, per essere una scuola seria, deve favorire l'ingresso degli studenti nel mondo del lavoro.
Però. Succede, in quest'ultimo scorcio d'epoca, che una diffusa sensibilità, specie giovanile, intuisca o addirittura individui nell'universo del lavoro una minacciosa rigidità ideologica. Magari non è più il vecchio classismo, che separava con precisione quasi castale il lavoro manuale da quello intellettuale (anche se, va detto, la brusca biforcazione che la riforma Moratti prevede verso i tredici anni, divide altrettanto bruscamente i destini di studentistudenti e studentiapprendisti).
Magari è il nuovo aziendalismo, che fa dipendere mansioni e talenti delle "risorse umane" dal proprio fabbisogno presente e futuro, quasi che tutto e tutti, studenti compresi, siano materia di un gigantesco organigramma.
Questa egemonia aziendalista, che nella società adulta è tanto forte da non conoscere opposizioni credibili (tanto meno in politica), aleggia sulla riforma Moratti sotto forma di un sano principio di realtà (studiare meglio per lavorare meglio), ma anche di un inquietante rischio di appiattimento del concetto stesso di "cultura".
Quando si appellano all'"autonomia della cultura", e fissano proprio nella scuola pubblica il cardine di questa autonomia (assediata), credo che gli studenti alludano, non importa quanto confusamente, proprio a questo timore: che la scuola divenga una sorta di "cingolo di trasmissione" delle aziende, che i programmi e la didattica si ristrutturino attorno al Pensiero Unico (quello economico), che la gratuità — in tutti i sensi — dell'istruzione e della formazione culturale ceda posizioni all'intrusione pelosa del mercato, se non degli sponsor.
Grave o non grave lo si voglia considerare, questo processo è tutt'altro che ipotetico.
Negli Usa l'ingresso degli sponsor nelle scuole è una realtà, con tanto di programmi finanziati "a patto che". A patto che ciò che si insegna non confligga in alcun modo con gli interessi economici di chi finanzia. Piuttosto che la parodia di inquisizione allestita da Forza Italia a Bologna (un telefono spia al quale denunciare i prof "comunisti"), questo slittamento della scuola dalla sua natura culturale a una nuova natura professionale promette mutamenti profondi, e non tutti archiviabili come semplice "ammodernamento", o razionalizzazione delle risorse.
La scuola è, per ogni ragazzo, un luogo di formazione umana e sociale incomparabile. Ci si vive ogni giorno per lunghi anni, e sono anni decisivi. Ci si confronta e ci si scontra con i compagni e i professori, ci si cresce, ci si cambia, ci si innamora perfino. La sua autonomia è anche l'autonomia della giovinezza, che è l'età dove si diventa persone, ci si forma criticamente, si affinano strumenti e pensieri che non devono (o meglio, non possono....) essere solo "professionali". Non per caso quando i ragazzi lamentano, nelle loro scuole, l'assenza di dibattito, la lontananza della società e dei suoi problemi, è alle Twin Towers e alla guerra che pensano, è alla polis, è alla socialità diffusa, non certo alla carenza di stages aziendali, o di sbocchi professionali dei quali, a sedici anni, non è che si avverta una così grande urgenza.
Ma poi: se molti ragazzi indugiano in famiglia fino ai trent'anni e rotti, in un'eterna adolescenza, è perché non sono abbastanza formati come "professionisti" o perché non lo sono come persone?
I famosi stages, spesso, non sono forse un pretesto per allungare a dismisura l'età scolastica, e con essa la permanenza tra le mura domestiche? Chiaro che alla scuola non si può chiedere, da sola, di "formare persone". Forse neppure di fornire loro quella cultura personale che è poi il frutto di esperienze e incontri soprattutto extrascolastici. Ma ci si può accontentare di immaginarla, la scuola, come una lunga anticamera della carriera, e per giunta di carriere preindirizzate già a tredici anni? La ministra manager ha sicuramente molti e preziosi buoni consigli da dispensare. Di gestione, di buona amministrazione, perfino di precisione didattica. Ma forse le sfugge, nel subbuglio studentesco che la circonda, la fondamentale domanda di autonomia intellettuale e culturale, la fondamentale paura che la ristrutturazione economicista del mondo, già incontrastata nella società dei padri, arrivi a irreggimentare anche il mondo dei figli, la loro libertà, le loro turbolente speranze.
Fonte: Repubblica 4 dicembre 2001