DE-TAX CONTRO TOBIN TAX
Il ministro Tremonti contrappone alla tassazione della speculazione finanziaria uno sgravio fiscale dell'1% per gli imprenditori "filantropi"
EMILIANO BRANCACCIO
Promossa da Attac e sostenuta da numerosi esponenti del movimento, della sinistra e del sindacato, è iniziata da alcuni giorni la campagna di raccolta firme per l'istituzione della tassa Tobin in Europa. Fino ad oggi, la risposta del governo alla campagna sulla Tobin tax è consistita nella promozione del suo presunto alter-ego, la "Tremonti de-tax". C'è senza dubbio un che di imbarazzante nella evocazione da parte del governo di una sfida impossibile tra il premio Nobel James Tobin e il nostro ministro dell'economia, un uomo che verrà ricordato per aver patriotticamente ricondotto i capitali all'ovile nazionale. Ma questa, come vedremo, non è l'unica ragione che induce a ritenere del tutto priva di senso la contrapposizione tra la tassa Tobin e la de-tax di Tremonti.
Cerchiamo di comprendere le basi delle due proposte messe a confronto. La Tobin tax consiste in una piccola imposta applicata al valore di ogni transazione finanziaria che implichi conversioni da una valuta all'altra. Essendo molto piccola, la tassa agisce principalmente su coloro che effettuano un gran numero di scambi nel corso di un anno, e in particolare sugli speculatori, i quali realizzano continue conversioni di valuta al fine di scommettere sull'andamento futuro dei tassi di cambio e d'interesse. Ora, il fatto che la Tobin tax sia in grado, contemporaneamente, di colpire la speculazione e di ricavare risorse da destinare ai paesi più poveri o ad altre meritevoli attività, è stato senza dubbio il motivo principale del suo successo politico. Tuttavia, gli scopi della Tobin tax sono più ampi e più ambiziosi del solo fine di "togliere agli speculatori per dare ai poveri". In primo luogo, scoraggiando le transazioni speculative e riducendo di conseguenza le oscillazioni dei tassi di cambio, la tassa Tobin costituirebbe un argine contro i danni generati dall'instabilità delle valute, danni che nell'ultimo trentennio hanno investito milioni di persone, compromettendo tra l'altro la sovranità politica di moltissimi stati. In secondo luogo, rendendo costosi gli spostamenti da una valuta all'altra, la Tobin tax allenterebbe la minaccia della fuga dei capitali, permettendo così ai singoli paesi di fissare dei tassi d'interesse interni più bassi rispetto a quelli prevalenti a livello internazionale. Per avere un'idea della rilevanza di tali questioni basterà tornare per un attimo alla crisi della lira del 1992 e ai sacrifici compiuti da milioni di italiani per uscirne. Circa poi l'attualità dei problemi affrontati dalla tassa Tobin il mondo è pieno di esempi drammatici, dal Sud Est asiatico all'Argentina.
La portata degli obiettivi menzionati chiarisce dunque che la tassa Tobin è stata progettata per affrontare alcuni nodi cruciali del capitalismo contemporaneo, come la manifesta irrazionalità dei mercati finanziari e quella che potremmo definire la "dittatura dei rentiers" sulle scelte di politica economica. Naturalmente, è legittimo dubitare che una mera tassa sulle transazioni valutarie possa risolvere, da sola, questioni così rilevanti. D'altro canto, la Tobin tax presenta il merito indiscusso di aver suscitato una rinnovata attenzione politica sui guasti strutturali del capitalismo deregolamentato dei giorni nostri, e sulla urgente necessità di porvi rimedio.
Ora, cosa c'entra tutto questo con la "Tremonti de-tax" ? La risposta è semplice: non c'entra un bel niente. La de-tax, infatti, non si occupa dell'instabilità del sistema monetario internazionale, né dell'alto costo del denaro, né delle altre, vistosissime crepe del capitalismo contemporaneo. Nella migliore delle ipotesi, come vedremo, essa appare piuttosto come l'ingegnosa trovata di un ufficio di consulenza tributaria.
Il meccanismo della de-tax è il seguente. Un imprenditore potrà informare i clienti che l'1% del prezzo delle merci che essi acquistano verrà destinato al finanziamento di iniziative etiche. Lo stato, per parte sua, rinuncerà a tassare quell'1%. Nel corso di una delirante presentazione dei meriti di questa proposta il ministro Tremonti ne ha esaltato il carattere liberale e filantropico, contrapponendolo a quello coercitivo e welfaristico della Tobin tax. Una visione, questa, che avrebbe fatto impallidire persino Robert Nozick, il teorico dello "Stato minimo", e che ci induce a prevedere che il ministro arriverà presto a proporre la "giornata dell'accattonaggio", ai fini di un più moderno finanziamento della scuola, della sanità e dell'assistenza sociale.
Ad ogni modo, la critica principale alla de-tax non esige alcuna discussione sui massimi sistemi. Essa, infatti, deriva da un banalissimo conteggio, recentemente effettuato dalla Commissione Europea. Il problema sollevato dalla Commissione verte sul fatto che non vi è nessuna ragione apparente per cui un'impresa dovrebbe decidere di sfruttare l'opportunità offerta dalla de-tax. Infatti, nonostante l'esenzione fiscale, le imprese incorrerebbero comunque in un calo del fatturato dell'1%, che in termini di margini di profitto potrebbe risultare anche dieci volte più grande. Secondo la Commissione, dunque, la Tremonti de-tax sembrerebbe dar luogo a perdite significative e quindi, a meno di un'improvvisa, generale conversione alla filantropia del ceto imprenditoriale italiano o di miracolosi effetti espansivi attivati dall'incentivo etico (una sorta di "moltiplicatore della carità" di cui però osiamo dubitare), non si vede perché mai dovrebbe essere adottata.
In realtà, ad un esame più attento, le conclusioni della Commissione sulla indisponibilità delle imprese ad aderire alla de-tax risultano alquanto frettolose. Infatti, fino a quando il ministro Tremonti non chiarirà in che modo intende disciplinare e finanziare i controlli anti-frode, la de-tax presenterà tutti i caratteri dell'ennesima "finestra" per gli evasori. Un'impresa che, fingendo di donare l'1% del fatturato decidesse in realtà di tenerlo per sé, godrebbe infatti di un "risparmio fiscale" in grado di aumentare i margini di profitto di vari punti percentuali. Se una simile prospettiva si rivelasse praticabile il successo della Tremonti de-tax sarebbe assicurato, con buona pace della filantropia e dei paesi più poveri. Questi ultimi, oltretutto, verrebbero doppiamente penalizzati, dal momento che il governo ha già previsto che per la copertura della perdita di gettito derivante dalla de-tax si attingerà dai fondi destinati alla cooperazione internazionale.
Ci sono due considerazioni da trarre da questa storia. La prima è che dialetticamente si vince se si è ambiziosi: nel caso della Tobin tax, ad esempio, si vince se la si interpreta non solo come un mezzo per redistribuire reddito, ma anche e soprattutto come un salutare momento di svolta negli indirizzi generali di politica economica, dopo l'orgia liberista dell'ultimo ventennio. La seconda è che, se il governo continuerà a contrapporsi alla Tobin tax con le trovate circensi di Tremonti, la campagna di Attac avrà vita più facile del previsto, e questo non può che far piacere.
Fonte: Manifesto 20/2/2002