Come sconfiggere il capitale finanziario. Portata e limiti della Tobin Tax.

 

Di: Riccardo Bellofiore

Fonte: Monde Diplomatique 6/1999 

 

1. Introduzione

Nel corso dell’ultimo anno e mezzo la discussione sulla dinamica capitalistica e sulle scelte possibili di politica economica ha registrato mutamenti di rilievo. Negli anni ’90 si erano affermate quattro idee-chiave. In conseguenza degli effetti di lungo periodo della crisi del fordismo e del keynesismo, ma anche della rivoluzione tecnologica nelle comunicazioni e nei trasporti, il capitalismo avrebbe raggiunto lo stadio di una globalizzazione pressoché compiuta nel commercio, nella produzione, nel mercato del lavoro, e nella finanza. L’instabilità dell’ambiente in cui si trovano a operare le imprese, come la ricerca di costi del lavoro più bassi, avrebbero dato vita a innovazioni tecniche e organizzative postfordiste. La conseguente accelerazione della produttività, in un contesto di ridotta e fluttuante domanda globale avrebbe determinato un’oramai inarrestabile tendenza alla fine del lavoro. In un quadro del genere, l’efficacia delle politiche economiche a sostegno dell’occupazione e dello stato sociale sarebbe infine svanita, e assisteremmo così ad una non reversibile impotenza dello Stato. Che lo si volesse o meno, una lettura di questo tipo finiva con il convergere con l’ideologia thatcheriana, divenuta nel frattempo senso comune, del ‘non c’è alternativa’. Unica via d’uscita all’orrore economico sarebbero o la ripartizione della ricchezza e dell’occupazione esistente tra tutti (misure redistributive che programmaticamente rifiutano di rimettere in questione la natura di ciò che si produce e del come lo si produce) o una chimerica fuga ‘fuori’ dal conflitto dentro il lavoro e dentro la politica. Analisi anche raffinate che però, a fronte dell’asserita crisi della politica economica ‘dall’alto’, segnano, e forse producono, un’impotenza della società a spingere ‘dal basso’ per un progetto di trasformazione non illusorio.

Non è il caso qui di ribadire come l’interpretazione che si è appena richiamata non sia del tutto convincente (cfr. i saggi raccolti in BELLOFIORE 1998). Basti ricordare, sinteticamente, alcuni elementi. Innanzitutto, il commercio mondiale sembra a tutt’oggi caratterizzato dal neoprotezionismo e dalla suddivisione in aree regionali in conflitto tra di loro, mentre gli investimenti diretti all’estero sono, in larga misura, non produttivi e comunque concentrati nel Nord ricco del pianeta; secondo molti indicatori, poi, la mobilità di lungo termine del capitale reale sembra essere rallentata. Inoltre, il taylorismo ha visto negli ultimi due decenni una estensione quantitativa, mentre le ridotte aree di riqualificazione del lavoro non sfuggono alla frammentazione del lavoro e non invertono la tendenza al rallentamento di velocità della produttività per l’economia nel suo complesso; in presenza di disoccupazione e di minori garanzie, il tempo di lavoro tende non a proseguire la tendenza secolare alla riduzione ma ad allungarsi e intensificarsi. Infine, la politica economica non sembra affatto essere meno rilevante al giorno d’oggi, ma avere piuttosto cambiato natura; né si può trascurare che il ritorno in auge della finanza speculativa verificatosi a partire dagli anni ’70, con la connessa spettacolare inversione del rapporto di forza tra capitale e lavoro, è stato grandemente facilitato, se non addirittura promosso, da un attivo intervento politico.

Non è stata però la presenza di agguerrite critiche ‘accademiche’ a mettere in difficoltà quella interpretazione di cui si diceva all’inizio. Ad imporre una diversa agenda di riflessione e di proposta ci hanno pensato la realtà della crisi capitalistica e la ripresa di movimenti sociali, che non vogliono stare a guardare né sono ancora pronti a ‘esodi’ di massa verso mete incerte. Di particolare rilievo, senz’altro, è stato, dall’ottobre del 1997, il succedersi delle crisi finanziarie, che dall’originario focolaio est-asiatico si sono poi estese a Russia e Brasile, per poi rischiare di contagiare anche gli Stati Uniti e i paesi di più vecchia industrializzazione, facendo riemergere lo spettro di una ‘grande crisi’. Gli stessi centri del potere capitalistico si sono dovuti porre la questione se non si fosse andati troppo in là nella liberalizzazione senza regole dei movimenti di capitale, mentre hanno ripreso forza le poche voci che da tempo insistono per porre un argine all’internazionalizzazione della finanza. Tra queste, ha avuto particolare eco, e ha suscitato una vasta mobilitazione, l’idea di istituire una tassa universale e uniforme sulle transazioni in valuta estera per renderle più costose, e quindi per rallentare la crescita in volume della speculazione. In Francia è nata, e si è poi estesa ad altri paesi, tra cui l’Italia, una associazione, ATTAC, che ha per obiettivo di imporre ai governi l’adozione di questa misura.

2. Crisi finanziarie e speculazione

Come è evidente, il punto di partenza, del tutto condivisibile, della campagna per la Tobin tax – dal nome del suo primo proponente, l’economista keynesiano e Premio Nobel James Tobin, che la lanciò nel lontano 1972, per ‘gettare sabbia’ negli ingranaggi della speculazione (cfr. TOBIN 1974 e 1978) – è che la globalizzazione finanziaria, benché ‘oggettivo’, non sia fenomeno naturale, ma politico, e che su di essa sia dunque possibile intervenire in modo efficace con le armi della politica. Come è anche evidente che all’inatteso slancio che è venuto al suggerimento di Tobin dal crescente favore popolare non è estraneo il fatto che, da un lato, la proposta si presenta a prima vista come estremamente semplice, e dall’altro lato, come estremamente potente, in quanto intende colpire la finanza speculativa, cioè quel soggetto che appare sempre più come la causa prima delle scosse che squassano il sistema internazionale dei pagamenti e delle politiche economiche nazionali di attacco al lavoro e allo stato del benessere.

Prima di entrare nel merito della Tobin tax, vale la pena di tornare brevemente alla storia dei ripetuti episodi di instabilità che si sono verificati nel corso di questo ultimo decennio. Si va dalla crisi del Sistema Monetario Europeo nel 1992-93, a quella del Messico nel 1994, a quella asiatica nell’ottobre del 1997 - scoppiata in Tailandia e poi rapidamente trasmessasi all’Indonesia e alla Corea del Sud, e che è arrivata a toccare la Polonia e l’Africa meridionale – a quella della Russia, seguita dal fallimento del fondo speculativo statunitense LTCM e dal crollo dei corsi a Wall Street nell’estate del 1998, a quella del Brasile nei primi mesi del 1999. Oltre a costatare l’accorciarsi degli intervalli tra una crisi e l’altra, è possibile rinvenire alcuni altri elementi significativi in questa sequenza. Benché sia oggetto di discussione l’incidenza relativa degli squilibri macroeconomici cosiddetti ‘strutturali’ (disavanzo permanente nella bilancia corrente dei pagamenti e/ o nel bilancio dello Stato, inflazione troppo elevata, sopravalutazione reale del tasso di cambio) rispetto alle determinanti strettamente finanziarie, alcuni fatti non sembrano contestabili. Innanzitutto, le dinamiche monetarie e valutarie hanno costituito un fattore di amplificazione del disordine. In secondo luogo, il peso delle dimensioni ‘esterne’ e finanziarie è andato crescendo nel tempo a detrimento di quelle ‘interne’ e reali. Ancora, l’abbandono del controllo dei movimenti di capitale in entrata e in uscita, la contrazione di debiti denominati in valuta estera, la possibilità delle banche di ricorrere all’estero per moltiplicare il proprio potenziale di credito, sono tra le cause della crescente fragilità finanziaria, ed hanno indebolito le difese agli attacchi della speculazione. Dopo l’esplosione della crisi, il panico che ne segue ha ora, non soltanto più armi per far danni e con rapidità accelerata, con la fuga accelerata degli investitori internazionali, ma si traduce anche in un più grande effetto di contagio, coinvolgendo fondi pensioni, investitori istituzionali, banche, tutti agenti costretti nel corso della crisi a ‘rientrare’ da altre posizioni per difendere la bontà dei propri bilanci.

Il parallelismo che è possibile riscontrare tra progressiva deregolazione finanziaria e guasti causati dalla speculazione a breve termine sulle condizioni reali dello sviluppo e dell’accumulazione negli ultimi tre decenni è effettivamente impressionante. Se a fare le spese in modo più drammatico della mobilità senza vincoli dei capitali sono stati i paesi di nuova industrializzazione o in via di sviluppo, è possibile costatare anche per i paesi avanzati che, con il passaggio dal regime di cambi ‘fissi ma aggiustabili’ sancito nel 1944 a Bretton Woods al sistema di cambi ‘fluttuanti’ in vigore dal 1972-3, l’attivo smantellamento di ogni controllo sui capitali pilotato, dapprima, da Stati Uniti e Inghilterra, e poi, a seguire, da tutti gli altri paesi del ‘centro’, si è accompagnato a bassa crescita del reddito e della produttività, a minori investimenti reali, a disoccupazione di massa, a precarizzazione del lavoro, a erosione del potere d’acquisto dei salari, a maggiore incertezza, a instabilità accresciuta. Vi sono forti ragioni per sospettare che tra la mano libera lasciata agli speculatori, da un lato, e l’andamento tutt’altro che brillante delle economie capitalistiche dagli anni settanta ad oggi, dall’altro, vi sia un rapporto stretto. Si può iniziare rilevando che il volume delle transazioni in valuta estera è sicuramente eccessivo. Secondo stime della Banca dei Regolamenti Internazionali, si è passati- le cifre sono in dollari e fanno riferimento al turnover giornaliero - da 18,3 miliardi nel 1977, a 820 miliardi nel 1992, a 1.230 miliardi nel 1995 (con un aumento del 50% rispetto a tre anni prima), mentre nel 1998 si ritiene si sia oltre i 1500 miliardi (per questi dati e quelli che seguono cfr. ARESTIS-SAWYER 1997, FELIX 1997-8 e FELIX 1999; ma vedi anche i saggi contenuti in UL HAQ–KAUL–GRUNBERG 1996). Su base annuale, nel 1995, il montante del movimento di capitale è calcolabile, su 240 giorni lavorativi, a circa 300 mila miliardi, mentre il commercio internazionale di beni e servizi si situava attorno ai 5 mila miliardi di dollaro: un ‘gonfiamento’ finanziario quindi di 60 volte rispetto alle transazioni reali, rispetto a un rapporto di 3,5 a 1 nel 1977, una moltiplicazione che è difficile considerare fisiologica. A ritenere che un ammontare così ingente di transazioni sul mercato dei cambi abbia natura meramente speculativa – sia cioè determinato dall’aspettativa di guadagni di capitale dovuti alla mera variazione dei prezzi delle attività finanziarie e dei cambi - contribuisce anche la constatazione che almeno l’80% di esse sia costituito da operazioni a termine di durata molto breve, non superiore alla settimana. Un fenomeno del genere amplifica il già preoccupante dilatarsi delle transazioni finanziarie interne ai diversi paesi. Prendendo come esempio la borsa di Wall Street, il volume delle transazioni nel 1970 era, in dollari, di 244,8, nel 1980 di 946 milioni, e nel 1995 di 7.268,1 milioni (PALLEY 1998).

Una massa di ‘moneta calda’ di queste dimensioni e con questa destinazione, oltre a assorbire improduttivamente risorse e lavoro, determina, con i suoi spostamenti, mutamenti bruschi e cumulativi dei tassi di cambio. La volatilità dei cambi, che è tanto variabilità nel brevissimo termine quanto oscillazione significativa dei movimenti di lungo periodo tra le valute, contribuisce in modo potente sia all’incertezza che scoraggia gli investimenti produttivi (comunque penalizzati dalla concorrenza dei rendimenti promessi dagli investimenti finanziari) sia a sovra- o sotto-valutazioni durature, e dagli effetti asimmetrici, dei cambi reali. Il ricatto che il giudizio dei ‘mercati’ finanziari – i quali gradiscono livelli elevati del tasso d’interesse reale, e temono dunque l’inflazione e tutto ciò che ai loro occhi ne è la causa, in primis le politiche monetarie, fiscali e del lavoro orientate all’espansione dell’occupazione - esercita in continuazione sulle politiche di bilancio dei paesi che incorrono in un debito interno o estero costituisce un vincolo interiorizzato dalle autorità di governo, e produce compressioni di spesa (di norma, quella sociale, visto che il sostegno incondizionato alle imprese viene ritenuto essenziale al mantenimento della posizione competitiva delle imprese collocate sul proprio territorio) e spesso lievitazione della pressione fiscale (di norma, quella sul lavoro, visto che la tassazione del capitale viene giudicata in contrasto con l’obiettivo di far affluire capitali che aumentino la capacità di finanziamento delle imprese o dello stato).

3. La liberalizzazione dei movimenti di capitale: due approcci

La teoria e la politica economica dominanti sono fondate sulla convinzione che la liberalizzazione dei movimenti di capitale sia da considerarsi, nella sostanza, benefica. Come sempre, una maggiore concorrenza produrrebbe maggiore efficienza, in questo caso nell’allocazione del risparmio mondiale, consentendo di ottenere rendimenti più elevati fondati su una accelerazione della produttività e della crescita reale che altrimenti non si sarebbe potuto ottenere. Di ciò si avvantaggerebbero tanto i paesi emergenti quanto quelli più avanzati: i primi potrebbero spingere per uno sviluppo più rapido con fondi presi a prestito all’estero; i secondi potrebbero, appunto con il frutto dei risparmi investiti nei paesi di recente industrializzazione o in via di sviluppo, garantirsi redditi e pensioni che l’invecchiamento della popolazione renderebbe altrimenti impossibile mantenere. L’esplosione delle transazioni finanziarie viene poi considerata positiva per altre due ragioni. Per un verso, essa sarebbe dovuta alla creazione di nuovi strumenti finanziari, come i derivati, e alla diversificazione dei portafogli che consentirebbero di trasferire e redistribuire il rischio tra gli operatori: per questa via verrebbero stimolati un più ampio commercio mondiale e più alti investimenti diretti all’estero. Per l’altro verso, ‘ispessendo’ i mercati, ovvero accrescendo il numero e la dimensione di chi vi partecipa, essa dovrebbe rendere meno volatili di quanto altrimenti non sarebbero i cambi.

Giudizi del genere dipendono in modo cruciale dal combinato disposto di una serie di ipotesi discutibili: che sui mercati finanziari e delle valute l’informazione sia equidistribuita e pressoché perfetta; che le aspettative siano razionali; che, quindi, gli agenti conoscano l’equilibrio, unico, dettato dai ‘fondamentali’ reali delle varie situazioni e delle varie economie, e che il loro comportamento ‘anarchico’ consenta, con il minimo di attriti, di raggiungere quell’equilibrio. E’ più facile che le cose stiano all’opposto. A ben vedere, l’approccio dominante è costruito su una serie di confusioni. Confonde la speculazione, cioè l’attività dove si guadagna indovinando il comportamento degli altri e che non ha alcun ancoraggio in un equilibrio oggettivo, con l’arbitraggio, cioè con l’attività di comprare e vendere che pareggia i tassi di rendimento ‘veri’ dei diversi investimenti. E confonde l’incertezza radicale che caratterizza l’economia capitalistica con un rischio calcolabile e assicurabile. Per avere una rappresentazione più realistica di come stanno le cose conviene rifarsi piuttosto alla visione di Keynes (cfr. KEYNES 1936 e 1937).

Per l’economista di Cambridge la conoscenza del futuro è fluttuante, vaga e incerta – e tanto più lo è quanto più l’economia è caratterizzata da consistenti investimenti in capitale fisso e si è dotata di sofisticati mercati finanziari. Le aspettative economiche sugli eventi più lontani si fondano su basi fragili e insicure: semplicemente, scrive Keynes, ‘non sappiamo’. Le attese sui corsi di borsa, come quelle sulle valute in un sistema di cambi flessibili, sono soggette a violenta instabilità sulla base di semplici ‘rumori’. In queste situazioni, per agire, i soggetti devono ricorrere a delle convenzioni, che, benché insicure, pure sono sensate in tempi ‘normali’, a meno della presenza di ragioni specifiche che inducano a abbandonarle. Tali convenzioni sono le seguenti: innanzitutto, che il presente sia una guida corretta per il futuro; in secondo luogo, che l’andamento corrente della produzione e dei prezzi sia un buon indicatore di ciò che ci attende; infine, per quel che riguarda soprattutto i mercati caratterizzati dalla speculazione, che intuire il, ed eventualmente allinearsi al, giudizio medio degli altri agenti - e perciò ‘scommettere’ su quale esso sia, anche qualora tale giudizio contrasti con la propria valutazione dello stato ‘genuino’ delle cose - sia comunque conveniente e consenta di anticipare con un ragionevole grado di approssimazione il corso futuro dei mercati delle attività. Abbiamo evidentemente a che fare con una base precaria delle aspettative, che non fanno alcun riferimento ad un equilibrio ‘reale’ soggiacente, ammesso e non concesso che esso effettivamente esista. Finché la base convenzionale regge, e le aspettative di lungo termine sono confermate dagli andamenti reali, gli operatori sui mercati finanziari e valutari, che di norma hanno previsioni eterogenee sui corsi e sui cambi, possono far ricorso al calcolo delle probabilità e alla assicurazione dei rischi, e le loro aspettative di breve termine ‘ottimistiche’ e ‘pessimistiche’ possono bilanciarsi vicendevolmente su mercati stabili. Quando però lo stato di fiducia crolla le aspettative di lungo termine sono soggette a violenti cambiamenti senza fondamento razionale; e sui mercati finanziari e dei cambi prendono vita comportamenti gregari autoreferenziali e autovalidanti, che invece di ridurre l’instabilità la accentuano: come quando, per esempio, una riduzione del corso dei titoli o del tasso di cambio, invece di determinare un aumento della domanda, e quindi un movimento verso l’equilibrio, si traduce in aspettative di ulteriori crolli futuri, quindi in vendite massicce, e di conseguenza, in un ulteriore scivolamento verso il basso dei prezzi o dei cambi, e perciò in una accentuazione dello squilibrio.

In questo modo di vedere le cose, la presenza del mercato finanziario può avere, certo, effetti positivi sull’investimento e la crescita. Dando l’impressione che l’acquisto di beni capitali, o di titoli che li rappresentano, o di attività finanziarie redditizie, non sia in contraddizione con la possibilità di ‘liquidare’ quella posizione e di passare alla detenzione di moneta qualora lo si desideri, l’estensione dei mercati finanziari attenua, nei periodi di ‘tranquillità’, il timore dell’irreversibilità dell’investimento, per questa via lo favorisce. Ciò non di meno, i ‘fondamentali’ reali dell’economia vengono, anche nelle situazioni di tranquillità, influenzati dalle dinamiche monetarie e finanziarie. Inoltre, quando scoppia la crisi, le ‘convenzioni’ che garantivano la stabilità si dissolvono; e, in particolare, le ondate di pessimismo che facilmente possono aggredire le borse e i mercati dei cambi possono esse stesse trasmettersi al settore produttivo, e intrappolare il sistema in lunghe e costose fasi di recessione e deflazione. In queste fasi, la ‘liquidità’ promessa dall’investimento sui mercati finanziari si rivela, su scala sistemica, un’illusione, e tutti domandano moneta. Improvvisi mutamenti nella composizione dei portafogli danno luogo a notevoli variazioni nei prezzi dei titoli e nei tassi di cambio, il che può condurre, per le nazioni in difficoltà, a fughe di capitali e crolli della borsa che spingono verso l’alto il tasso d’interesse e impongono la svalutazione, mentre dove il capitale affluisce si determinano bolle speculative nel mercato finanziario e una rivalutazione che può danneggiare la competitività internazionale di quel paese.

Nel capitalismo condizioni che conducono allo scoppio di una crisi finanziaria tendono a prodursi periodicamente, in modo sistematico, tanto più se si tiene conto che in questo modo di produzione ‘la stabilità è destabilizzante’ (cfr. MINSKY 1986). La stessa prosperità tende a indurre in banche, imprese e speculatori una sottovalutazione del rischio e una sopravalutazione dei rendimenti futuri, e ad accrescere oltre misura l’indebitamento, con una crescita esponenziale del rapporto tra impieghi e risorse proprie, facendo sì che, inevitabilmente, restrizioni dal lato monetario o scossoni dal lato reale diano vita al pericolo del ripetersi di ‘grandi crisi’.

4. La tassa Tobin: gli obiettivi e il funzionamento

E’ chiaro che chi muove da una ottica del primo tipo, quella dominante, si accontenterà di proposte di riforma della finanza ‘globale’ che non invertono la tendenza di lungo periodo alla liberalizzazione, e che non comportano una riduzione del volume delle transazioni sui mercati monetari e finanziari internazionali. Nell’ultimo anno di ricette del genere ne sono state avanzate molte. Si va dalla definizione di norme volte a determinare maggiore trasparenza e imporre dunque maggiori controlli alle banche e agli intermediari finanziari, a quelle che intendono promuovere una migliore valutazione del rischio da parte di chi presta fondi; da quelle che intendono far pagare il costo della crisi al settore privato, a quelle che chiedono la creazione di una corte internazionale delle bancarotte; da quelle che mirano a ridefinire le funzioni del FMI, facendone un’autentica banca mondiale in grado di fornire credito in ultima istanza o delegandogli la sorveglianza prudenziale dei mercati finanziari ‘globali’, a quelle che, partendo dall’ammissione che per i paesi emergenti l’apertura ai capitali internazionali è stata forse troppo rapida, riconoscono che occorre tempo per consentire l’adeguamento dei sistemi bancari e finanziari locali al nuovo contesto di maggiore apertura. Anche se, si deve dire, non sono certo mancati coloro per i quali la soluzione starebbe, tutto al contrario, in una accelerazione del processo di deregolazione dei movimenti di capitale, o addirittura nella soppressione del FMI, che con i suoi salvataggi, si obietta, favorirebbe l’ ‘azzardo morale’ di mutuanti e mutuatari, creando così le condizioni per il ripetersi di situazioni sempre più a rischio.

E’ anche chiaro che chi muove, invece, da una ottica del secondo tipo, benché possa ritenere utili alcune delle misure appena indicate, non può accontentarsene e non può che favorire misure di intervento più radicale, finalizzate, innanzitutto, a ridurre il volume degli scambi ‘speculativi’ e a restituire alla politica un qualche grado di controllo sulla finanza. Tra tali misure, come si è detto, la tassa Tobin gode oggi di particolare fortuna.

Gli obiettivi della tassa Tobin sono, nelle intenzioni del suo proponente, i tre seguenti: rallentare i movimenti speculativi di capitale, e non il commercio reale; fornire ai governi consistenti entrate fiscali, tratte sul capitale e non sul lavoro; rendere compatibile un sistema di cambi flessibili con una limitata autonomia della politica monetaria e macroeconomica.

Una prima questione da chiarire è quella di capire come la tassa sia in grado di distinguere tra transazioni puramente speculative e transazioni commerciali. La risposta è molto semplice. L’aliquota dell’imposta è minima e non progressiva: le proposte oscillano dallo 0,01% allo 0,5%, e si addensano tra lo 0,1% e lo 0,25%. Il prelievo avviene su qualsiasi compravendita di valuta estera. Essa quindi colpisce, a prima vista, in modo indiscriminato tanto le transazioni speculative quanto quelle commerciali. La distinzione tra le une e le altre opera implicitamente, sulla base del principio che la mobilità di lungo termine del capitale, per finanziare gli scambi di merci o gli investimenti diretti all’estero di natura produttiva, comporta poche operazioni, e quindi l’impatto negativo, che pure non può essere escluso (Arestis e Sawyer lo valutano in circa l’1%), è comunque di entità trascurabile, e la tassa è comunque troppo piccola per essere protezionistica. Le transazioni di natura speculativa hanno viceversa, lo si è già ricordato, un orizzonte ‘corto’ e danno luogo a una elevata rotazione del capitale, con numerosi ‘giri’ di andata e ritorno tra valute in un breve arco di tempo, il che fa crescere la percentuale prelevata su ogni unità di investimento: secondo DE BRUNHOFF -JETIN (1999), un’aliquota dello 0,1% comporterebbe un prelievo effettivo del 2,4% su un ‘giro’ di andata e ritorno tra valute mensile, del 10% su un ‘giro’ settimanale, del 48% su un ‘giro’ giornaliero. Per le medesime ragioni, la tassa rende possibile ai singoli stati resistere alla speculazione con un differenziale positivo del tasso d’interesse meno pesante, e rende più facilmente difendibili tassi d’interesse interni più bassi: sempre con un’aliquota dello 0,1% è stato calcolato che lo scarto dai tassi esteri può raggiungere l’1,3% sull’orizzonte di un giorno, il 5,35% sull’orizzonte di un mese, il 34,34% sull’orizzonte di un anno lavorativo.

Per quel che riguarda il gettito dell’imposta, si deve evidentemente tener conto del fatto che, qualora lo scopo primo della tassa Tobin, la riduzione del volume della finanza speculativa, fosse raggiunto la base imponibile verrebbe ridotta di conseguenza. Così, secondo FELIX (1999), un’aliquota dello 0,1% applicata all’ammontare delle transazioni in valuta del 1998 produrrebbe una caduta della base imponibile tra il 13% e il 49%, e un gettito oscillante tra i 180 e i 220 miliardi di dollari. Tenendo conto della discussione degli anni recenti (per una rassegna, cfr. MICHALOS 1997), e in particolare il contributo di KENEN (incluso nella raccolta curata da UL HAQ- KAUL-GRUNBERG 1995), si possono definire alcune ulteriori caratteristiche della tassa. Per ridurre l’elusione fiscale dovrebbero essere soggette all’imposta tutte le operazioni, di qualsiasi genere (sia a pronti che a termine) di compravendita di attività denominate in valuta diversa da quella utilizzata per l’acquisto o il pagamento. Per ridurre l’evasione il prelievo dovrebbe avvenire nei luoghi di contrattazione e non in quelli dove l’operazione viene saldata; occorrerebbe inoltre applicare incrementi punitivi dell’imposta, come per esempio un suo raddoppio, qualora una delle parti coinvolte nell’operazione finanziaria risieda in un ‘paradiso fiscale’, al fine di disincentivare una delocalizzazione verso siti al di fuori del controllo delle banche centrali e delle autorità di regolazione. L’eventualità di una diserzione massiccia verso queste sedi è peraltro da non esagerare, se si tiene presente che le transazioni in valuta estera sono (FELIX 1997-8, che riporta dati del 1995) concentrate in misura preponderante, poco meno dell’80%, nei tre grandi poli regionali dello sviluppo capitalistico – così distribuite: Inghilterra (30%), Stati Uniti (16%), Giappone (10%), Germania (5%), Francia (4%), Canada, Danimarca, Belgio e Paesi Bassi (il 2% ciascuno), Italia, Svezia, Lussemburgo, Spagna e Austria (l’1% ciascuno) - mentre la percentuale sale oltre il 95% se si includono la Svizzera (5%), Australia (4%) Hong Kong (6%) e Singapore (7%).

D’altra parte, e qui iniziano le difficoltà, questo breve elenco chiarisce che la tassa Tobin, per la sua natura, richiede di essere applicata, se non universalmente, per lo meno nei centri principali dello sviluppo economico e finanziario internazionale. E’ inoltre evidente che, in conseguenza della quota diseguale delle transazioni catturata dalle varie piazze, le entrate eventuali sarebbero enormemente disomogenee tra le varie nazioni. Inoltre, pur prestando fede agli scenari più ottimisti, cioè a quelle previsioni che contano in una forte efficacia della tassa Tobin nel ridurre il volume degli scambi speculativi, le entrate sarebbero di ammontare significativo, eccedenti di gran lunga quanto a tutt’oggi le Nazioni Unite investono per la lotta alla povertà. Di conseguenza due degli aspetti più delicati della proposta sono quello del come redistribuire e del come impiegare i proventi dell’imposta, il che, di nuovo, presuppone un accordo generale tra i diversi paesi interessati. La destinazione più ragionevole, anche se la più improbabile, appare quella di un incremento sostanziale dei fondi destinati allo sviluppo dei paesi arretrati, che sono i perdenti assoluti nella ‘globalizzazione’ di questi ultimi due decenni. Tra gli impieghi che sono stati suggeriti vi sono però anche quello di costituire riserve a favore delle banche centrali, allo scopo di aumentare le munizioni per una difesa del cambio da attacchi speculativi, oppure da devolvere a istituzioni ‘globali’ che fungano da prestatore di ultima istanza nel caso di crisi finanziarie. Un altro suggerimento che è stato avanzato, in particolare in sede europea (EEAEP 1998), è quello di impiegare il ricavato della tassa Tobin per finanziare interventi contro la disoccupazione e la povertà negli stessi paesi avanzati.

5. La tassa Tobin: i limiti e le critiche

Il carattere tendenzialmente ‘globale’ della tassa Tobin può essere considerato una sua debolezza. Le difficoltà della tassa Tobin su questo terreno, si deve però aggiungere, non sembrano né maggiori né minori di quelle di tutte le altre proposte sul tappeto, incluse quelle attualmente discusse nelle varie sedi ufficiali, dal G7 al FMI alla Banca mondiale.

I limiti della proposta, d’altra parte, non finiscono qui. Deve essere chiaro, innanzi tutto, che si tratta di una misura preventiva, che ha lo scopo di scoraggiare la speculazione, di attenuare le fluttuazioni ‘eccessive’ dei tassi di cambio, e di ritardare lo scoppio delle crisi. Vi è qui evidentemente una frizione con l’attesa che sta dietro lo stesso successo recente della tassa Tobin negli ambienti della sinistra più radicale, vale a dire la speranza, di scarso fondamento, che quella misura possa rivelarsi efficace contro la crescente instabilità economica e valutaria internazionale. Il succedersi sempre più ravvicinato delle crisi e il diffondersi della precarietà e della disoccupazione di massa sono originati non da tensioni superficiali in una situazione altrimenti tranquilla, ma da ragioni profonde di squilibrio: da un drammatico attacco di lunga durata alle condizioni del lavoro, dallo scontro feroce tra le diverse aree capitalistiche, da una non congiunturale finanziarizzazione delle economie. Tutti questi elementi congiurano a trasferire risorse, prima, dal lavoro al capitale ‘produttivo’, poi, dal capitale ‘produttivo’ al capitale ‘finanziario’, infine, dai vincenti ai perdenti nel conflitto tra capitalismi e sul terreno aleatorio della finanza. In queste condizioni risulta ragionevole attendersi che - in assenza di una qualche forma di ‘cooperazione’ tra gli attori principali, e anzi in presenza di interventi attivi volti a determinare ‘politicamente’ l’andamento delle valute - i rapporti di cambio siano sistematicamente caratterizzati da instabilità e, talora, da vistosi e repentini ‘aggiustamenti’. Su questo sfondo divengono di volta in volta convenienti manovre speculative che anticipano o esacerbano quelle tendenze. In casi del genere, la tassa Tobin sarebbe di scarso ausilio, visto l’ammontare ridotto dell’aliquota: l’utile ottenibile da una limitata rotazione del capitale speculativo sull’orizzonte di pochi giorni è di tale entità da rendere inutile qualsiasi imposta il cui ammontare non ecceda l’entità di quel guadagno. E’ dubbio, peraltro, che una considerazione del genere possa essere mossa contro la proposta di cui stiamo discutendo, dal momento che il compito che essa intende assolvere è in realtà quello -modesto, forse, ma non per questo meno opportuno - di erigere barriere in grado di attenuare l’instabilità costituzionale dei cambi flessibili nelle stesse condizioni di ‘normalità’. Inoltre, l’inefficacia della proposta di Tobin contro gravi manovre speculative - riconosciuto da tutti, a partire dal suo autore – significa soltanto che di fronte a crisi di rilevante entità sul mercato dei cambi una delle misure da prendere, in alternativa ad aumenti del tasso d’interesse, è proprio quella di un incremento, temporaneo ma drastico, dell’aliquota sulle transazioni in valuta estera.

Il discorso sulle eventuali contraddizioni della tassa Tobin non può, d’altra parte, chiudersi qui. Lo impedisce anche la presenza, nella discussione più recente, di una critica, per così dire, ‘di sinistra’, proveniente da ambienti keynesiani (cfr. DAVIDSON 1997, 1998, 1999; e per gli elementi di una risposta PALLEY 1999 e POLLIN 1999), altrettanto se non più ostili dello stesso Tobin alla mobilità sfrenata dei capitali. Gli argomenti di questa critica sono riducibili a tre, che affronteremo in sequenza.

Il primo argomento è il seguente: proprio perché i mercati finanziari e valutari sono caratterizzati da una incertezza fondamentale e irriducibile, la riduzione del volume degli scambi può tradursi in una accresciuta, e non in una ridotta, volatilità dei corsi e dei cambi. La ragione starebbe nella circostanza, che si trova affermata a chiare lettere negli scritti di Keynes, secondo la quale in condizioni di ‘tranquillità’, quelle per cui è stata ‘disegnata’ la tassa Tobin, gli speculatori intrattengono in genere aspettative divergenti, ed esse si fanno tanto più equilibrio quanto maggiore è il numero di operatori e di transazioni. La degenerazione dei mercati speculativi per il prevalere di comportamenti mimetici e dunque destabilizzanti sarebbe tipica delle fasi di instabilità pronunciata, quella nelle quali la tassa Tobin è dichiaratamente irrilevante. L’evidenza empirica è, su questo punto, incerta. Dal punto di vista teorico l’obiezione è, a prima vista, convincente, relativamente a quello che è stato il funzionamento dei mercati sino agli anni ’60. Essa, però, perde molto della sua forza se si guarda al periodo successivo. Vi è, infatti, ragione di ritenere che - dopo il successo delle politiche keynesiane e dopo l’inizio delle politiche di deregolazione, fenomeni entrambi che, per motivi diversi, hanno favorito il prevalere di strutture di bilancio finanziariamente fragili - la stessa ‘normalità’ dei mercati finanziari e valutari dai primi anni ’70 sia stata sempre più contrassegnata dalla presenza di comportamenti gregari non appena il clima di fiducia fosse scosso da eventi reali o da pure voci. Insomma: aumento del volume delle transazioni e mimetismo autoreferenziale degli speculatori si muovono nello stesso senso nel capitalismo finanziario di questa fine di secolo. Quando le cose si mettono in questi termini, uno dei fattori chiave della situazione diviene la capacità delle banche centrali di ‘fare il mercato’, intervenendo come acquirenti o offerenti di valuta. Quella capacità dipende in modo cruciale dalle riserve che la banca centrale può mobilitare contro la speculazione: alla fine degli anni ’70 le transazioni giornaliere sui mercati finanziari ‘globali’ si situavano attorno al 7% dell’oro e delle valute estere possedute dagli istituti di emissione; vent’anni dopo le riserve delle banche centrali, che ammontano a circa 1.500 miliardi di dollari, sono grosso modo pari alla ‘rotazione’ del capitale speculativo. La tassa Tobin, riducendo la dimensione del mercato, migliora le prospettive di successo dell’intervento.

Il secondo argomento è che la tassa Tobin nelle condizioni di ‘normalità’, contrariamente a quanto pretendono i suoi sostenitori, colpirebbe di più le transazioni commerciali che non quelle speculative. Ciò sarebbe dovuto al fatto che in un sistema di cambi flessibili le operazioni di import-export comportano delle operazioni di ‘copertura’ del rischio di cambio da parte delle banche, operazioni che sono invece assenti per definizione in una singola ‘rotazione’ del capitale speculativo. In un sistema di cambi flessibili vi sarebbe, insomma, una ‘moltiplicazione’ dell’imposta almeno del doppio sugli scambi reali rispetto a quella che grava sui movimenti di capitale di breve termine. Anche in questo caso non esistono riferimenti empirici conclusivi in un senso o nell’altro. Ma anche in questo caso la critica, sensata per i fautori di una liberalizzazione radicale degli scambi commerciali, lo è meno agli occhi di chi rilevi come, di fatto, il commercio mondiale sia oggi in larga misura un commercio ‘manovrato’ e retto da forme esplicite o implicite di protezionismo non tariffario. Né, si può aggiungere, la creazione di attriti alla stessa ‘globalizzazione’ del commercio può essere giudicata di per sé un male. Tanto più che, per quanto moltiplicato, l’ammontare dell’imposta sarebbe in ogni caso ridotto, e in fondo si limiterebbe ad assicurare che l’espansione delle relazioni commerciali con l’estero sia retta da non effimere convenienze reali di lungo periodo. Qualora poi la tassa Tobin effettivamente riducesse la volatilità dei cambi, l’effetto negativo sul commercio mondiale sarebbe più che compensato dall’effetto positivo derivante dalla minore incertezza.

Ben più serio è il terzo argomento. Tra le ragioni di fondo delle ricorrenti crisi finanziarie vi è la struttura attuale del sistema internazionale dei pagamenti, dove i cambi flessibili si accoppiano alla mobilità illimitata dei capitali. Il sistema attuale è peraltro il risultato di una lunga transizione seguita al crollo del sistema di Bretton Woods, e di quello mantiene, in forma degenerata, alcuni principi ed istituzioni. Come voleva Keynes, il sistema del dopoguerra fu caratterizzato da cambi fissi (ma aggiustabili) e da controlli stretti sui movimenti di capitale. Non fu però accettato nella sua interezza il piano di Keynes, che suggeriva l’emissione di una autentica moneta internazionale da parte di una banca mondiale, il cui compito sarebbe consistito, tra l’altro, nel fornire credito ai paesi in temporaneo disavanzo commerciale e nell’imporre ai paesi in avanzo commerciale una sua eliminazione. Si sarebbe così consentita l’eliminazione degli squilibri - non determinati da difficoltà strutturali, caso in cui erano previsti aggiustamenti nei rapporti di cambio - per mezzo di una espansione generale, e attraverso compensazioni multilaterali. Prese vita invece un’organizzazione del sistema internazionale dei pagamenti incentrata sulla valuta nazionale del paese più forte, il dollaro, e su aggiustamenti asimmetrici, dal momento che i paesi in disavanzo commerciale erano costretti a pareggiare i conti con l’estero mediante politiche di depressione della domanda e l’ottenimento di avanzi verso i soli paesi loro creditori. Il sistema funzionò senza troppi problemi sino a che il paese che emetteva il sostituto della moneta internazionale, cioè gli Stati Uniti, era interessato a, e aveva ancora la forza di, trainare la domanda dell’economia mondiale, mantenendo così in buona salute il regime dei cambi fissi e l’economia mondiale; e sino a che i divari di produttività e di andamento delle varie economie non si fecero divergenti in modo esplosivo. Saltati i cambi fissi, liberalizzati i movimenti di capitale, divenuti l’Europa e il Giappone paesi in avanzo commerciale permanente e gli Stati Uniti il principale debitore, ciò che rimase in piedi del vecchio sistema fu soltanto la spinta deflazionistica implicita nelle politiche asimmetriche di aggiustamento strutturale, promosse dalle istituzioni e dai principi di Bretton Woods, mai riformati, in un contesto che era ormai segnato da una feroce lotta tra capitalismi. E’ in questo quadro di sconvolgimenti reali e di mancata ridefinizione consensuale delle regole del gioco che l’inevitabile presenza di più monete di riserva faceva del mercato dei cambi il crocevia della speculazione.

Detto altrimenti. La finanziarizzazione delle economie non è soltanto causa di crisi che dalla deregolazione dei flussi monetari mondiali si trasmette alle variabili reali, deprimendole. Ne è anche, se non soprattutto, l’effetto, nel senso che dai conflitti sulla creazione e sulla distribuzione del valore, in uno scenario di crescita ridotta e instabile, si sono originate le forze e le scosse da cui la speculazione ha preso fiato. In quest’ottica, è illusorio pensare di sconfiggere la speculazione e il capitale finanziario se, impraticabile o indesiderabile la via di una incontestata egemonia ‘globale’, non si determinano le condizioni di una ripresa di lungo termine dell’accumulazione sulla base di una cooperazione internazionale tra i paesi più avanzati, incentrata sul coordinamento di politiche macroeconomiche espansive. E se, di conseguenza, non si pone mano a una riforma profonda del sistema internazionale dei pagamenti fondata su meccanismi automatici di riciclaggio degli avanzi, di rifornimento di liquidità ai paesi in difficoltà, di monitoraggio – ed eventualmente di controllo rigido - dei movimenti di capitale. Il problema, come scrive Davidson, non è di tassare chi grida ‘al fuoco’ in un teatro affollato, come fa la tassa Tobin, ma di impedire a chi vi entra di portare con sé una bottiglia incendiaria.

6. Controllo dei movimenti di capitale e politica economica alternativa

E’ indubbio che quest’ultima linea di ragionamento è, sulla carta, fondamentalmente corretta. Una decisione collettiva di restringere la mobilità dei capitali, di procedere congiuntamente a una politica di sostegno alla domanda e all’occupazione, di costruire su basi più eque il sistema internazionale dei pagamenti significherebbe senz’altro una svolta determinante nella definizione di un nuovo regime di accumulazione e di un nuovo modo di regolazione più favorevoli alle sorti del lavoro. La questione è un’altra, e concerne l’attuale assenza delle condizioni che rendano questi obiettivi, sicuramente desiderabili, anche praticabili. Il quesito da porsi è allora se il modo più utile di discutere della tassa Tobin non sia quello di vederla come una delle mosse necessarie per muoversi in quella direzione, parte di un insieme più generale di politica economica (cfr. BELLOFIORE 1999).

In effetti, le cose stanno proprio così. Benché talora i suoi fautori si esprimano in senso opposto (cfr. BOSCO-SANTORO 1999, che giudicano la tassa non complementare ma alternativa a controlli amministrativi, e paiono vederla come preliminare rispetto a una successiva ripresa di autonomia della politica economica), a me sembra più ragionevole inserire la tassa Tobin all’interno di un quadro più vasto di interventi che da subito si muovano nel senso di una ripresa di politiche economiche nazionali o regiobali di segno espansivo, e come parte di un complesso più variegato di misure di controllo diretto dei capitali. Non si tratta di utopia, se non in questo senso, che le scelte politiche possono ben impedire di intraprendere strade percorribili dal punto di vista tecnico-economico. Per fare un esempio, su scala europea, una volta che ci si abitui a considerarsi come una area economica unica - il che, sia detto per inciso, non ha molto a che fare con il fatto che si sia introdotta una moneta unica - niente vieta che si sfrutti la limitata apertura all’estero per dare finalmente vita a politiche fiscali di espansione degli investimenti pubblici, rimuovendo così ostacoli alla crescita dell’occupazione tanto dal lato della domanda quanto dal lato dell’offerta. In senso analogo potrebbe muoversi il Giappone, il cui carattere di economia ‘chiusa’ è ancora più accentuato. In entrambi i casi, da tempo, né l’inflazione né la bilancia commerciale fanno da vincolo stringente, e lo stesso sviluppo parallelo finirebbe con l’attenuare il peggioramento dei conti con l’estero e del saldo del bilancio pubblico. Analogamente, è nell’interesse di entrambe le aree premere sugli Stati Uniti per l’istituzione di ‘zone obiettivo’ che vincolino entro (ampi) margini l’oscillazione inevitabile delle valute più forti, allo scopo di mantenere sostanzialmente invariato il cambio reale delle monete: ‘zone obiettivo’ per le quali sia dunque possibile far slittare le fasce di cambio in modo concordato al modificarsi delle rispettive situazioni (cfr. FARINA 1999).

A ostacolare l’una e l’altra via si staglia in realtà, e in primo luogo, il potere accordato negli ultimi due decenni al capitale finanziario - l’eccessiva libertà accordata ai capitali e il conseguente rischio di aumento insostenibile dei tassi di interesse, in grado di far abortire la manovra espansiva e di distruggere gli accordi di cambio. Un potere e una libertà che corrispondono a precisi interessi: persino Jagdish Bhagwati, un economista neoclassico fermamente schierato a favore della liberalizzazione del commercio, si è scagliato con parole insolitamente dure contro quel ‘complesso Tesoro americano-Wall Street’ che attivamente propaganda e impone il mito secondo cui la libertà di movimento dei capitali porterebbe solo vantaggi, sottostimando la ricorrenza delle crisi finanziarie e i costi reali delle recessioni indotte, e tacendo dei lauti affari che i ripetuti crolli nelle economie ai bordi del ‘centro’ consentono di concludere ai più forti, che acquistano a prezzi stracciati le industrie migliori (BHAGWATI 1998). Un’inversione di rotta impone che i governi delle aree più forti esplicitamente dichiarino guerra alla finanza. La tassa Tobin è soltanto una delle armi a disposizione per condurre questa lotta.

Non si parte da zero. E’, infatti, perfettamente possibile rispondere a eventuali tensioni sul mercato dei cambi ricorrendo a forme di controllo amministrativo dei capitali (CROTTY-EPSTEIN 1996). Vale la pena di ricordare due casi recenti, quelli della Malesia e quello del Cile: la prima, nel corso della crisi asiatica, ha introdotto stretti controlli ‘in uscita’, con un certo successo, come ha recentemente dovuto riconoscere lo stesso FMI; il secondo, a partire del giugno del 1991, ha imposto depositi obbligatori non remunerati presso la propria Banca Centrale, nella misura del 30% dei prestiti da parte di banche straniere, allo scopo di frenare l’ ‘entrata’ dei capitali. Altre possibilità sono quella di mettere in atto restrizioni dirette sugli investimenti diretti esteri, di imporre che le proprietà azionarie di stranieri siano di minoranza, di restringere i prestiti bancari a non residenti, di chiedere depositi infruttiferi alla vendita di valuta da parte degli stessi residenti, di proibire operazioni a termine sulle valute inferiori a un certo arco temporale, sino a quella di tornare a forme ancora più radicali di controllo quantitativo. A chi replicasse che provvedimenti di questo tenore sono opportuni soltanto in paesi in via di sviluppo, si può replicare che esperienze del genere sono state portate avanti con successo anche nei paesi più sviluppati a più riprese (cfr. PANIZZA 1999, che ricorda l’esperienza Baffi); di più, che nessuno dei ‘miracoli economici’ di questo secolo - Germania, Giappone, Est asiatico sono gli esempi più ovvi, e lo stesso veloce sviluppo capitalistico del secondo dopoguerra - avrebbe avuto luogo senza una qualche forma di controllo sui capitali. Inoltre, lo stesso Trattato di Maastricht, all’articolo 59, consente di imporre restrizioni amministrative sui capitali importati o esportati per un periodo limitato di sei mesi, che può essere iterato. Misure del genere verrebbero rinforzate nella loro efficacia se fosse ripresa l’idea di Keynes, cui in certa misura si rifà la stessa proposta di Tobin, di tassare tutte le transazioni finanziarie interne (cfr. POLLIN 1999). Per quel che riguarda infine la stessa tassa Tobin, come si è già detto, la sua aliquota dovrebbe essere aumentata nella misura necessaria in presenza di gravi crisi.

Non è la singola misura ad essere significativa, anche perché è certo che il capitale provvederebbe presto a inventare modi di ‘aggiramento’. Essenziale è piuttosto la determinazione a introdurre, simultaneamente o in sequenza, tutte quelle misure necessarie a rendere costosa o impossibile la ‘fuga’ dei capitali, rendendo quindi credibile l’impegno ad una svolta nell’orientamento della politica economica. E’ vero che misure quali quelle appena indicate hanno carattere difensivo, mentre la tassa Tobin ha l’intenzione di prevenire la speculazione; ma è anche vero che l’efficacia stessa della tassa Tobin dipende dalla definizione di un diverso quadro macroeconomico, caratterizzato da una inversione di rotta nella dinamica capitalistica che renda prevalenti le forze cooperative sulle forze disgreganti. Questa inversione non può attendere che la ‘comunità internazionale’ si convinca dell’utilità della tassa Tobin, né si può rischiare che le speranze di imbrigliare la speculazione siano rese vane dal verificarsi di gravi crisi valutarie rispetto alle quali quella misura è dichiaratamente impotente. A ben vedere, l’importanza della mobilitazione per la tassa Tobin va ben al di là dei vantaggi che la sua istituzione eventualmente sarebbe in grado di determinare. Essa consiste nell’impatto simbolico e politico che avrebbe una adozione dell’imposta da parte dei maggiori governi, sull’onda di una spinta ‘dal basso’ (DE BRUNHOFF-JETIN 1999). Si tratterebbe di un segnale di rottura con la pratica neoliberista di deregolamentare la finanza, di un proclamato rifiuto del ricatto dei ‘mercati’ contro le politiche per il pieno impiego. I successi parziali di una strategia del genere potrebbero rendere più facile l’effettiva adozione ‘globale’ della tassa Tobin, oggi difficilmente immaginabile, e far decollare la discussione sulla riforma del sistema monetario internazionale, oggi inevitabilmente astratta. In ogni caso, muterebbe il clima politico-economico in cui si muove attualmente il conflitto di classe. L’introduzione della tassa Tobin e di controlli sui capitali, da un lato, l’attivazione immediata di politiche economiche che non accettino come fatalità l’aumento della disoccupazione e la precarizzazione del lavoro, dall’altro, sono due facce della medesima medaglia, e vanno perseguite insieme.

Riferimenti bibliografici

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