FASCINAZIONE E REPULSIONE DI FRONTE A UN NUOVO PROGETTO UNIVERSALE
LA GLOBALIZZAZIONE UNIFICHERÀ IL MONDO?
È universale ciò che è comune a tutti gli esseri umani, si estende su tutta la superficie della Terra, ovunque, e riguarda il mondo intero. L'attuale globalizzazione economica si presenta come un nuovo progetto tendenzialmente universale, che mira, direttamente o indirettamente, a unificare il mondo. Baluardo dell'umanesimo, l'universale è generalmente considerato un valore positivo, nonostante una serie di inquietanti distorsioni, come gli imperialismi. Ogni progetto universale dà vita a conflitti. Spesso è denunziato come un tentativo di distruggere particolarismi e identità, e scatena reazioni appassionate. L'universale si propone come ideale affascinante e nel contempo insopportabile, di fronte al quale le società esitano, alternando audaci avanzate e precipitose ritirate. L'idea stessa di vivere, nell'era della globalizzazione, in un mondo unito dove non esistono più una "terra incognita" né nemici esterni, sembra ancora più repellente proprio perché fa sentire tutto il suo fascino.
di DENIS DUCLOS*
La prospettiva universale attira e sgomenta, proprio perché rappresenta per l'uomo la soppressione dell'alterità, cioè un desiderio narcisistico profondo, ma, nello stesso movimento, suscita l'angoscia più forte (1): chi siamo, noi che abbiamo soppresso l'Altro? Che diventeremo, se, simili e resi solidali da uno stesso diritto, restiamo tuttavia soli al cospetto di un universo muto?
Molto prima che noi sapessimo disegnare la meridiana sulla superficie terrestre, marinai e missionari dubitavano di poter sostenere la finzione di una differenza radicale fra se stessi e i "selvaggi" scoperti dall'altra parte dell'Equatore. Era necessario ricorrere a ideologie volontaristiche. Tuttavia, trascorsi appena pochi decenni, furono costretti a riconoscere che que "selvaggi" avevano un'anima.
A meno di tre secoli dall'inizio della fiammata schiavista, non è più possibile operare una distinzione ufficiale fra "razze superiori" e "razze indigene". Con l'aiuto dell'antropologia, diventa problematico perfino classificare le società umane in "culture alte" e "gruppi primitivi". E se si vuol credere al messaggio del bel film Little Sénégal (2), civiltà e spirito selvaggio non sono più dove li si aspetta, la prima in Occidente e la seconda in Africa, ma forse al contrario.
Naturalmente, le società padrone conservano una certa differenza con la loro posizione dominante, se non altro mettendo sotto tutela il Sud o limitandone gli accessi ai farmaci. Ma anche quella legittimità si va incrinando. Per farla breve, l'Altro (l'inferiore, il debole, il terzo o il quarto mondo, etc.) - migranti o no - è chiamato a divenire parte del Sé, dello Stesso. L'universalità è identità fra tutti, o non è affatto possibile.
Di fronte alla crescente inefficacia dei modelli di divisione inegualitaria contro la spinta dell'universale, abbiamo inventato una serie di separazioni orizzontali tra popoli o eserciti più o meno equivalenti fra loro come "livello di civiltà". E ci siamo precipitati gli uni contro gli altri con un fervore ancora maggiore, proprio perché li sapevamo vicini, separati soltanto da labili segni (kultur germanica contro lumières francesi) o da differenze d'opinione appena sfumate (dittatura dei mercati contro dittatura degli stati).
Anche in questo caso, il pensiero che elabora la storia è stato più rapido dei nostri tentativi di consolidare le "concorrenze strategiche".
L'universalità che ognuno voleva incarnare da solo contro tutti gli altri è andata avanti, sconvolgendo tutti i pronostici. La dichiaravamo imperiale e britannica? Sarà capitalista e americana. La riteniamo "internettizzata" e controllata dallo spionaggio commerciale e militare americano? Eccola esplodere in software liberi e in reti multiple, di cui è difficile identificare la centralità. La vorremmo racchiusa nella leadership della "Unica potenza mondiale", e invece già si orienta verso una società-mondo che sarebbe l'unica in grado di risolvere in qualche modo le crisi, le tempeste e le devastazioni planetarie provocate dall'anarchia industriale e finanziaria.
Stigmatizzare le minoranze Per farla breve, più s'impone la realizzazione dell'universale (in senso fisico, economico, scientifico, politico, della comunicazione), più le vecchie tecniche che adoperavamo per ingabbiarlo riducendolo in frammenti, con la separazione dei poteri, l'opposizione delle culture, ci appaiono inadeguate, poco attendibili, e in fondo insignificanti.
La sfera unica si va stirando, come una pelle immaginaria che ricopra tutto il pianeta, tanto che la condanna etica dei "ripiegamenti d'identità" diventa più vigorosa, e dispone ormai di organismi giudiziari (la Corte penale internazionale - Cpi) e di polizia (forze dell'Onu o della Nato) commisurate all'ideale di una Polis globale (anche se sono ritenute sempre insufficienti).
Ma allora, se c'è del vero nella nostra ipotesi, l'angoscia di essere annegati nel Grande Tutto dovrebbe esplodere, il panico del riassorbimento dell'Altro nel Sé dovrebbe crescere. Che altro possiamo immaginare per esorcizzare questa presenza sempre più incombente dell'unificazione umana, così meravigliosa, ma forse anche irrespirabile?
Ridividere l'umanità fra crociati dell'universalità umanista e reazionari paladini dell'identità potrebbe sembrare una soluzione. Ma, da una parte, presenta una certa incongruenza: dividere in nome dell'unità, stigmatizzare le minoranze in nome del Tutto... in cui sono racchiuse.
D'altra parte, il trasformare il nemico esterno in criminale interno contiene la potenzialità di considerare delinquente qualsiasi opposizione all'ideale comune, di trattare da infrazione del diritto comune qualsiasi resistenza frontale all'ordine unico.
Tutto ciò non è chiaramente percepito da quegli onesti militanti (Ong umanitarie o funzionari di organismi internazionali, quadri virtuali del futuro stato mondiale) che si affermano nella lotta contro i nemici dell'ideale unitario, ed è una fonte non meno importante di reazioni terrificate di fronte all'ascesa dell'universale, che veicola i turbamenti caratteristici della nostra epoca.
Pare che l'attuale paura/fascinazione dell'universale assuma due forme principali collegate fra loro. Innanzi tutto si esprime nel terrore di vedere i nostri corpi assorbiti dal pensiero razionale che vuole assemblarli nella gestione tecnologica delle loro attività e ben presto della vita stessa. La medesima ambivalenza dell'universale si manifesta anche nel desiderio e nella paura di inquadrare in norme predeterminate il divenire dei nostri figli e della nostra discendenza futura.
Si sarà riconosciuto, nel registro dell'eccesso, il terrore ormai cronico del cambiamento climatico, inteso come una gigantesca sommersione delle terre abitate. Le convinzioni scientifiche sulla realtà dell'effetto serra (la presentazione della prova si scontra sempre con i limiti intrinseci dei modelli di climatologia) non devono essere confuse con l'immaginario di un nuovo diluvio, questa volta su scala planetaria.
Si profila allora una cartografia della divisione dell'umanità: i futuri paesi "emergenti" (questa volta in senso concreto, e non secondo una metafora economica) che grazie alle loro conquiste tecniche sono in grado di adattarsi agli sconvolgimenti ambientali, mentre altri saranno inghiottiti una volta per sempre.
Per quanto riguarda poi le fobie alimentari generate da epidemie animali a cascata (prima la mucca pazza, poi l'afta epizootica), esse imputano la contaminazione universale all'azione umana sopraffatta dalla sua stessa potenza. Il fuoco utilizzato come contromisura (massacro e cremazione di centinaia di migliaia di animali) aggrava ulteriormente la paura delle tecniche di trattamento di massa. Assistiamo anche a nuovi tentativi di dividere il mondo, fra paesi "puliti" e paesi "infetti", fra America ed Europa (messa in quarantena). Ma queste rinnovate manovre d'inimicizia non allontanano il fantasma. Il quale più che il produttivismo prende di mira il carattere di mediazione dei sistemi industriali, traduzione materiale del nostro universalismo.
Questa mediazione generalizzata trasmetterebbe infezioni a ripetizione su scala sempre più vasta, e porterebbe la sregolatezza nel regno naturale, normalmente ordinato da certe "barriere", come l'appartenenza alle speci.
Le professioni che si considerano beneficiarie di un pensiero del mondo-blocco sentono ancora più intensamente la colpevolezza di questa universalizzazione tramite la mediazione tecnica. A scatenare il panico, d'altronde, non sono state le popolazioni (che si piegano a malincuore agli allarmi, riducendo i consumi), bensì persone con una lunga consuetudine alla pratica dell'universale: media, personale di organizzazioni politiche nazionali ed internazionali, amministratori, giuristi, tecnici e scienziati. Proprio questi ambienti colti che assumono coscientemente il progresso risultano i più colpiti dal terrore inconscio di quel che in fondo pensano di "aver scatenato".
Fantasma dell'incesto Vale lo stesso discorso per la dimensione temporale della paura affascinata dell'universale: quella del ribaltamento dei futuri possibili sul pensiero globale attuale. L'adulto attuale può determinare scientificamente il futuro dell'umano "infans" (non parlante) e a maggior ragione quello degli esseri viventi (umani e non umani) non ancora nati?
Quell'adulto onnipotente che è l'umanità stessa in quanto pieno sviluppo della cultura e delle scienze attuali, può ricondurre e ridurre alla sua misura l'avvenire indeterminato?
Interrogativi vertiginosi, al cui cospetto la paura si manifesta secondo due modalità principali: 1) l'accusa di orientare le generazioni che vivranno in futuro, in base a scelte attuali di modifica del genoma-umano, animale e vegetale; 2) l'accusa di "distruggere l'infanzia" umana, obbligandola ad un godimento tipico dell'adulto.
Intendiamoci: le preoccupazioni riguardo alla manipolazione genetica degli esseri viventi e quelle che mettono in discussione i costumi attuali in materia di abusi sessuali spaziano su campi ben diversi.
Eppure, si ha la netta percezione che, su un livello soggiacente, quello che mettiamo sotto accusa è un'identica tendenza a racchiudere il futuro nel presente. L'indignazione isterica che pervade la nostra società sembra recepire questo duplice abbinamento, adulto-bambino/presente-futuro come una prospettiva soffocante. Certo, ne imputa l'intenzione soprattutto a singoli personaggi demonizzati (un esempio per tutti, i "pedofili"), piuttosto che alla pedagogizzazione generale del rapporto sociale moderno. Uno spostamento comprensibile, prendersela con dei "mostri" è più facile che ammettere la mostruosità della nostra società.
Il terrore smisurato nei confronti del pedofilo (e qui non si parla degli infanticidi, degli abusi e dei maltrattamenti reali) trova così la sua spiegazione: dietro a un riferimento solo casuale a pervertiti ben definiti, l'inquietudine di fondo è ben altra: la manipolazione collettiva "abusiva" non solo dei bambini, ma dell'umanità infantilizzata e vittimizzata sotto il fuoco convergente della buona coscienza mediatica, della volontà educatrice moltiplicata e dell'addestramento alla sottomissione salariale e consumistica su scala di massa.
Ad esempio, l'ormai celebre trasmissione tv "Il Grande Fratello" è il fantasma dell'incesto consumato tra genitori telespettatori e giovani che fanno l'amore in una scena d'intimità fittizia, che si realizza sotto il controllo tecnico mediatico. La paura che alimenta le reazioni scandalizzate si incentra sulla capacità dell'autorità (nel caso specifico, il mezzo centralizzato) di controllare la finzione della vita privata, di imporre forme prescritte di godimento e la loro contropartita obbligata (eliminazione dei concorrenti - gioco delle sedie musicali ed esperienza comportamentalista - come modello del funzionamento sociale, ecc.) Ci troviamo quindi ad essere affascinati ed insieme disgustati da questa videosorveglianza pubblica della vita più intima, da questo spettacolo ormai chiamato a regolare nell'immaginario i rapporti referenziali fra generazioni. Non è certo l'eccesso di libertà o di "proprietà di sé" che ci angoscia o ci fa insorgere in tali manifestazioni, ma al contrario il progresso inesorabile dell'ideale collettivo di fusione, e dei mezzi che ha per imporsi come orizzonte a ciascuno di noi.
Non rimanere sordi agli appelli dei resistenti all'ingiunzione dell'universalità, vuol dire sentire certe massime sorgere in silenzio, in contrappunto alle paure: "Non si mescoleranno le specie viventi in un unico grande tutto"; o ancora: "Non si confonderanno le generazioni presenti e a venire". Ascoltare queste massime emergere dalle nevrosi, vuol dire comprendere meglio numerosi cambiamenti nell'evoluzione della mentalità. E allora, non sono certo un caso fortuito le reazioni inconsce all'universalismo nell'attuale escalation sui temi dell'inquinamento e della tutela ecologica, nella sensibilizzazione di ambienti finora indifferenti, e che tali potrebbero restare ancora a lungo, se non scatta lo strano meccanismo della colpevolizzazione. Vuol dire anche cogliere meglio, ad esempio, la reazione degli operatori dell'universalità virtuale, quando, a rischio della recessione dell'e-economia, cominciamo (primi fra tutti, proprio gli informatici e gli internauti americani) a manifestare diffidenza e discriminazione nei confronti del "tutto Internet" e del suo ideale di comunicazione planetaria globale, a scapito della "vita vera" delle persone in situazioni concrete (si legga l'articolo di Derrick de Kerckhove a p. 22).
È necessario allora accettare il ritorno a forme regressive e pericolose di rifiuto dell'universalità? Le attuali resistenze all'universalismo devono essere ancora più approfondite nella loro diversità, proprio perché in passato, in analoghe fasi di arretramento abbinate a depressioni economiche (1880, 1929, ecc.) si è assistito non ad un ritorno alla ragione, ma invece, dopo qualche esitazione, all'inabissarsi collettivo in mobilitazione più furibonde, nell'accanimento universalista, come nel ritorno a negazioni forsennate dell'universale.
L'arcaica divisione del pianeta L'odio personale di George W. Bush nei confronti dell'e-mail (bandita dalla Casa bianca) può sembrare un simpatico rifiuto del controllo mediatico sulla privacy presidenziale. Ma si inserisce in un quadro arcaicizzante, in cui l'arretramento di fronte alla prospettiva universale è motivato soltanto dall'affermazione reiterata di posizioni di dominio: ostilità dichiarata al diritto della donna all'aborto, affermazione del diritto della superpotenza ad inquinare il pianeta, "isolazionismo" il cui lato oscuro è la longa manus ormai senza intermediari delle grandi fortune Usa sulle due Americhe (come ha dimostrato il vertice di Quebec City sulla formazione di una zona interamericana di libero scambio, caricatura inegualitaria del tentativo europeo) (3).
Per quanto riguarda poi la teoria di Bush della "fortezza americana assediata", a giustificare la spesa astronomica per realizzare uno scudo antimissile, ci si vedrà il ritorno di un immaginario patologico del rifiuto dell'universale: quello del "complesso di Zardoz" Dovremmo ricordarci con più attenzione quel film del regista britannico John Boorman (4), che molto prima che si parlasse di "guerre stellari" ci mostrava una Terra del futuro governata da un'élite anglosassone, resa immortale dalla clonazione e autoreclusa in un giardino paradisiaco, al riparo dal resto del mondo, ridotto volutamente nella miseria e nel terrore con un sistema di raggi laser. Il messaggio più scandaloso di Boorman era che questa élite fossilizzata in realtà coltivava un unico sogno: conoscere finalmente la morte, e liberare il futuro...
per gli altri.
L'attualità ha superato quell'angoscia degli anni '70, nel senso che sin d'ora la multipolarità e la diversità culturale reale del mondo hanno reso completamente superato lo schema di una egemonia unica, ma il sogno imperiale può ancora alimentare non poche nostalgie.
Tanto più che la ridivisione strategica reazionaria del mondo non è affatto incompatibile con l'accanimento nella dottrina di una società-mondo animata dalla logica mercantile.
Lo storico Eric J. Hobsbawm ricordava che il capitalismo ultraliberista e mondialista della Belle Epoque si era anche attivato a produrre i mercati popolari nazionali che poi, per tutto il XX secolo, hanno affilato l'arma a doppio taglio della fratellanza fra concittadini e dell'inimicizia xenofoba. Orbene, la sua osservazione sulla situazione internazionale nel 1902 ("Il protezionismo rifletteva l'internazionalizzazione della concorrenza economica") (5) conserva, su altri livelli, una certa sua attualità. Le forze che manovrano il danaro invocano la pura libertà del commercio mondiale, ma nel contempo favoriscono su grande scala i mercati continentali ed i privilegi che li proteggono a vicenda (guerra Boeing/Airbus, progetto d'acquisto obbligatorio della soia o di prodotti culturali americani, ecc.). La guerra felpata fra euro, dollaro e yen, da parte sua, non manca di favorire un mega-nazionalismo o regionalismo monetario su cui possono innestarsi posizioni di grande acrimonia (l'Europa vissuta come pericolo economico dall'opinione pubblica americana, l'esasperazione di fronte al massiccio indebitamento americano autorizzato dall'aumento dei dollari in circolazione, e così via).
Vale lo stesso discorso per le tecniche classiche di spartizione delle risorse dei paesi poveri fra quelli potenti: allorché le multinazionali occidentali fanno man bassa di aziende nel terzo mondo, non si potrebbe applicare quel che diceva ancora Hobsbawm sui motivi principali del colonialismo del XIX secolo: "Era un fatto generalmente riconosciuto che l'imperialismo avrebbe potuto pagare le riforme sociali (6)"?
Torneremmo addirittura alle tecniche del Settecento, allorché le "compagnie delle Indie" inglesi, francesi, olandesi, portoghesi, tutte ufficialmente private, disponevano delle risorse delle contrade che occupavano, senza dover farsi carico direttamente delle amministrazioni locali.
La Elf è stata costretta a confessarlo, ma non è certo l'unica "compagnia delle Indie" contemporanea responsabile del pagamento di salari in molti stati del terzo mondo. In realtà, la quasi totalità dei grandi gruppi globalizzati attualmente è indotta a remunerare le élite locali, di cui poi deposita i risparmi nei circuiti del Nord, mentre le popolazioni locali, prive di accesso ai beni di valore sociali, continuano a fornire manodopera a basso costo.
Impeto e paura In questo campo, non possiamo far altro che rallegrarci di una universalizzazione in marcia, ad esempio tramite la decisione di giustizia internazionale che autorizza il Sudafrica a produrre farmaci generici - il che probabilmente potrà comportare una trasformazione del mercato mondiale della sanità, anche nei paesi industrializzati.
Per contro, chiameremo reazionaria la resistenza - sempre di stampo corporativo e territoriale (7) - ad una divisione del lavoro che porta a concentrare negli Stati uniti le funzioni intellettuali nobili (sedi sociali, ricerca, ecc.), mentre gli altri paesi sono condannati al decadimento del livello culturale per effetto della partenza dei loro quadri? Dovremo rimpiangere l'opposizione alle prassi di "cost killing", di delocalizzazione, di licenziamenti in massa e di "flessibilità" che negli ultimi decenni hanno fatto soffrire tanti dipendenti, senza dimostrare peraltro la loro utilità sul piano della stabilità aziendale?
Dovremo fustigare come "retrogradi" i limiti imposti all'accanimento nella logica della circolazione del danaro, in particolare nelle produzioni di pubblica utilità? Allora, nel momento in cui lo stato della California "rinazionalizza" le aziende elettriche spinte al collasso dai mancati investimenti degli azionisti, sembrerebbe giusto impedire alle aziende elettriche europee di dichiararsi una guerra dei prezzi senza quartiere. Guerra che - con il pretesto di ridurre al minimo il prezzo dell'elettricità - porterebbe inevitabilmente a distruggere tutto quel che garantiva qualità e sicurezza, sacrificando soprattutto la ricerca tecnologica di lungo periodo. A quando la prima crisi di erogazione di elettricità in Francia? Forse, entro dieci anni, se le politiche "imperiali" delle aziende all'insegna di ideali mondializzanti - con l'accordo di sindacati rossi/rosa passati armi e bagagli in campi direttoriali in preda al fanatismo - riusciranno a demolire gli strumenti costruiti in oltre mezzo secolo di lavoro con il danaro e la fiducia dei popoli.
In sintesi, non esiste un universalismo buono o cattivo in sé e per sé, né una resistenza buona o cattiva nei suoi confronti. Vi sono per certo alcuni elementi di follia, nella corsa precipitosa alle fusioni, di cui il danaro è il mezzo economico, e con non minore certezza vi sono aspetti deleteri nelle posizioni bloccate su identità aggressive che puntano a dividere. Il compito più arduo è trovare una strada fra questi scogli, spesso compresenti, della paura e dell'impeto appassionato.
In fondo, dovremmo discutere le difficoltà d'approccio all'universalità considerandole non meri ostacoli da eliminare, bensì costanti irriducibili della nostra condizione umana. Dovremmo riconoscere che l'universale continuerà a essere oggetto di un intenso rapporto di fascinazione/ripulsione, e che i sintomi vigorosi e disperati del suo rifiuto devono essere domati, più che negati, e talvolta anche accettati come condizione di sopravvivenza.
Prendiamo atto, comunque, che il nostro rapporto con l'Universalità probabilmente sarà sempre ambivalente e paradossale. Quanto più ci avvicineremo ad essa, tanto più si farà sentire il problema della pluralità e delle differenze. Non fosse altro che nell'urgenza incontrollabile delle nostre reazioni inconsce.
note:
* Sociologo, direttore di ricerca presso il Centro nazionale della ricerca scientifica (Cnrs) a Parigi, autore fra l'altro di Nature et démocratie des passions, Presses universitaires de France, Parigi 1996
(1) Françoise Sironi, "L'Universalité est-elle une torture?" N° 34, Nouvelle Revue d'Ethnopsychiatrie, Grenoble, 1997.
(2) Film diretto da Rachid Bouchareb, uscito in Francia nell'aprile 2001.
(3) Si legga " Dall'Alaska alla Terra del fuoco, l'impero del commercio all'opera", Le Monde diplomatique/il manifesto, aprile 2001.
(4) Zardoz, 1974, (interpretato da Sean Connery)
(5) Eric J. Hobsbawm, L'età degli imperi, 1875-1914, Laterza, Bari, 1992.
(6) Ibidem.
(7) Jacques Capdevielle, Modernité du corporatisme, Presses de Sciences Politiques, Parigi, 2001.
(Traduzione di R.I.)
Fonte: Monde Diplomatique 9/2001