di Pierre Bourdieu e Loic Wacquant *
In tutti i paesi avanzati, imprenditori e alti funzionari internazionali, intellettuali mediatici e giornalisti d'alto bordo si sono messi di concerto a parlare una strana neolingua, il cui vocabolario, apparentemente sorto dal nulla, è ormai su tutte le bocche: "globalizzazione", "flessibilità", "governance", "employability", "esclusione", "underclass", "nuova economia", "tolleranza zero", "comunitarismo", "multiculturalismo", e i loro cugini "postmoderni": etnicità, minoranza, identità, frammentazione ecc. La diffusione di questa nuova vulgata planetaria - dalla quale sono assenti, guarda caso, termini quali capitalismo, classe, sfruttamento, dominio, disuguaglianza, tutti perentoriamente revocati per presunzione di obsolescenza o non pertinenza, è il prodotto di un imperialismo prettamente simbolico. I suoi effetti sono tanto più potenti e perniciosi in quanto essa non è adottata solo da chi vorrebbe rifare il mondo, col pretesto della modernizzazione, facendo tabula rasa delle conquiste sociali ed economiche di cento anni di lotte, oggi presentate come arcaismi e ostacoli al nuovo ordine nascente. A questi fautori della rivoluzione neoliberale si affiancano esponenti della produzione culturale (ricercatori, scrittori, artisti) e militanti della sinistra, che per lo più si ritengono tuttora progressisti.
Come il dominio di genere e quello di etnia, l'imperialismo culturale è una violenza simbolica, che si fonda su un rapporto di comunicazione coercitivo per estorcere la sottomissione; e si distingue, nel caso specifico, per il fatto di universalizzare i particolarismi legati a una singola esperienza storica, facendo sì che essi non vengano più percepiti come tali, ma riconosciuti come universali