Quel che resta dei cortei di Genova

di Antonio Calabrò *

direttore editoriale de IL SOLE-24 ORE

Bartleby non è un ragazzo e non ha consuetudine con i cortei e le manifestazioni di piazza. E non ha figli (non conosce dunque l’ansia dei genitori e la loro attitudine a pensare un futuro che dei figli abbia il volto, i gesti, la voce e i sogni). Ma i fatti di Genova lo hanno molto colpito, pensando soprattutto ai ragazzi che in un modo o nell’altro vi sono stati coinvolti, al loro sgomento, alle loro speranze irrequiete e maltrattate. Ha aspettato a lungo, prima di cercare di dare forma ai suoi giudizi e alle sue emozioni. Ha letto attentamente tutti i giornali. Ascoltato testimonianze. E guardato servizi e inchieste in Tv. Ha in mente l’ammonimento d’un grande giornalista come Ryszard Kapuscinsky: "Bisogna scrivere meno, per capire di più". E prova adesso, a scrivere per dare corpo a un disagio e confinare in un angolo una paura.

Grande politica a parte, grandi dibattiti lasciati ad altre firme, Bartleby teme innanzitutto che dai fatti di Genova venga sconfitta un’esperienza della politica che ha, nelle manifestazioni di piazza e nei cortei, una delle sue forme essenziali. Il far politica, naturalmente, non si esaurisce nell’andare in corteo. E la "mistica del corteo" (la storia ce lo insegna) può alterare profondamente gesti e scelte della politica. Ma il ritrovarsi insieme, in corteo, per dare forma e forza a un’idea, un dissenso, un’invocazione di cambiamento è stato spesso, per migliaia di giovani (in modo assai trasversale rispetto alle appartenenze e alle militanze di parte) un primo passo nel percorso di costruzione di un’identità politica (insieme a tanti altri passi: i dibattiti, le discussioni sui libri, un film, l’ascolto d’un maestro, perfino le suggestioni legate a una storia d’amore con chi, di politica, qualcosa masticava già).

Adesso troppi ragazzi rischiano di identificare un corteo con le violenze che ne hanno segnato gli svolgimenti. Le violenze, intollerabili, dei cosiddetti "black bloc" e di altre anime estremiste del composito movimento degli antiglobalizzatori. E quelle, repressive, di parecchi elementi delle forze dell’ordine che, stando a molte cronache e a dettagliate testimonianze, sono andati molto al di là del loro dovere di tutela dell’ordine pubblico. Sarebbe una grave ferita sociale, infatti, se molti dei ragazzi arrivati a Genova pensassero d’ora in poi alla politica in piazza come a un evento di cui aver paura e giudicassero un poliziotto come un interlocutore arbitrario e violento. Ne soffrirebbero gravemente la concezione della politica come partecipazione ma anche l’idea di fondo che le forze dell’ordine sono un pilastro essenziale d’una democrazia.

Ragazzi in corteo, feriti e umiliati dai "black bloc" (rispetto ai quali non può essere fatto, oggi, dal "movimento", il tragico errore degli anni di piombo sui terroristi come "compagni che sbagliano"). E feriti e umiliati da una parte dei poliziotti. Ma anche ragazzi poliziotti e carabinieri feriti e umiliati da assaltatori violenti, armati di spranghe, estintori, mazze, coltelli e catene: sarebbe un guaio, per tutto il sistema Paese, se loro, ragazzi in divisa, identificassero ogni ragazzo manifestante in un nemico.

Il disagio è ancora più grande se si rileggono le cronache dell’irruzione alla scuola Diaz e le violenze, fisiche e verbali, nella caserma di Bolzaneto. Perché le forze dell’ordine hanno il dovere di fermare i violenti, reprimere le illegalità e prevenire altre violenze, ma non possono calpestare regole e diritti. La magistratura dirà (speriamo presto) se e quali diritti sono stati davvero violati. Ma un fatto non può essere dimenticato da nessuno, a cominciare dalle forze dell’ordine: lo Stato di diritto si regge su un sistema equilibrato di diritti e doveri e d’un poliziotto io devo sapere che sta lì per tutelare i miei diritti, anche quello di dissentire, di manifestare, di dire, alla Bartleby, pacificamente di no. Bartleby sa di non essere originale, nel cercare un equilibrio (sembra molto più originale l’estremismo partigiano). Ma avverte comunque il bisogno di ritrovare un senso comune nella politica di questo Paese. E una dignità. Senza spranghe e tute nere, innanzitutto. Né manganelli fuori luogo. Perché tante altre facce di ragazzi c’erano in corteo a Genova, da non far coincidere con i violenti e ai quali dare conto delle scelte, delle politiche, dell’etica stessa della "globalizzazione". E tante facce per bene tra i poliziotti e tra i carabinieri, che hanno una divisa e un’arma per tutelare un bene che condividono con i ragazzi in corteo: questa nostra democrazia.

Fonte: Sole 24 ore

31 luglio 2001