CRIMINALIZZARE LA CONTESTAZIONE
L'accanimento dei governi nei confronti dei contestatori della globalizzazione neoliberale è giustificato dal rifiuto sempre più diffuso che quest'ultima suscita tra l'opinione pubblica. Da ciò deriva il tentativo di caratterizzare i contestatari come "geneticamente" violenti.
di RICCARDO PETRELLA*
Le azioni spettacolari che hanno spesso caratterizzato le manifestazioni contro la globalizzazione non devono condurci a sottovalutare l'importanza di altre forme di opposizione, assai profonde, promosse da movimenti di carattere sociale e sindacati sia del Sud che del Nord del mondo: i campesinos in lotta contro la biopirateria di Monsanto (1), il Movimento dei Sem terra in Brasile, la Marcia mondiale delle donne, le comunità indigene, le varie lotte contro le privatizzazioni in America Latina, contro i licenziamenti per interessi borsistici, per la tutela dei lavoratori minacciati dalla delocalizzazione delle imprese, e così via. Ad essi si aggiungono le azioni delle grandi Organizzazioni non governative (Ong) - Greenpeace, Amnesty International, Oxfam, Medici senza frontiere, ecc. - e quelle di innumerevoli associazioni per il commercio equo e solidale, per la finanza etica, per la cancellazione del debito estero dei paesi del Terzo mondo, per la tassazione della speculazione finanziaria.
La sconfitta dell'Ami e quella di Seattle Fino alla metà degli anni 90, le manifestazioni contro quella globalizzazione liberale che segue le "tavole della legge" del capitalismo di mercato (2) hanno raramente dato luogo a conflitti violenti tra polizia e manifestanti. Da qualche anno, invece, gli scontri sembrano diventati una sorta di rituale, apparentemente inevitabile, secondo una procedura che sembra ormai standardizzata. Ogni volta, le forze dell'ordine delle città che ospitano i grandi appuntamenti internazionali trasformano i luoghi di passaggio e di lavoro dei partecipanti ufficiali in zone ad alta sicurezza, li pongono sotto il controllo di migliaia di poliziotti in tenuta anti-sommossa e, in virtù di una sorta di eccesso di prevenzione, prendono misure draconiane proibendo l'accesso alle aree protette, se non addirittura a parti intere della città, come è accaduto a Quebec City e, in modo ancor più caricaturale, a Genova.
Ogni volta, tuttavia, l'effetto temuto - non dovremmo dire piuttosto voluto e cercato? - non si è fatto attendere: gli scontri sono avvenuti, e la repressione è stata sempre più dura, soprattutto a Praga, a Nizza, a Quebec City, a Göteborg, a Barcellona; fino al morto e ai secento e più feriti di Genova... Le testimonianze di brutalità, se non di sevizie, nei confronti di manifestanti che ricorrevano a forme non violente di disobbedienza civile - mentre la polizia lasciava fare gruppuscoli di devastatori professionisti - sono particolarmente gravi. Al punto che diversi rappresentanti di Ong ammettono di aver perduto a Genova la propria "verginità democratica", ossia la loro convinzione che nei paesi democratici si possono usare forme di lotta democratica.
Cosa ha portato a un tale accanimento da parte delle autorità, con la conseguente riduzione, se non la totale sospensione - sia pur mometanea e locale - del diritto di manifestare? Come si spiega che i militanti di migliaia di organizzazioni del mondo intero, espressione di tradizioni pacifiste o terzomondiste, di impegno ecologista, di ideali religiosi e di orientamenti etici diversi, e che da tempo lottano per un mondo più giusto, più solidale, più democratico, più rispettoso dell'ambiente, siano diventati "indesiderabili" agli occhi dei governi e vengano trattati come orde di invasori, distruttori, devastatori? Ci sono, a quanto pare, due ragioni principali. La prima è legata ai successi riportati dai movimenti di opposizione alla globalizzazione: nell'ottobre 1998, essi hanno fatto fallire il progetto di Accordo multilaterale sugli investimenti (Ami) e, nel dicembre 1999, hanno fatto naufragare il Millennium Round dell'Omc a Seattle. Per i dirigenti dei paesi sviluppati, si è trattato di due sconfitte altamente simboliche, perché colpivano due pilastri dell'attuale forma di globalizzazione: le "libertà" della finanza e del commercio. La sconfitta dell'Ami è tanto più cocente in quanto è stata determinata dall'opposizione di un paese-faro del capitalismo mondiale, la Francia, costretta ad agire in tal senso su pressione delle manifestazioni popolari.
Allo stesso modo, la disfatta di Seattle ha costituito un evento intollerabile: ha messo in evidenza che la maggior parte dei governi dei cosiddetti paesi "in via di sviluppo" condividevano numerose critiche portate dagli oppositori del Nord alla forma attuale di globalizzazione. Ed è grazie all'azione di quello che è stato in seguito definito "il popolo di Seattle"che questi governi hanno infine avuto il coraggio di opporsi alla prosecuzione di negoziati a cui, per debolezza, si sarebbero invece probabilmente piegati.
Gli Stati uniti e l'ordine planetario Queste due vittorie hanno screditato, sul piano etico, i principi fondanti e le pratiche dei "signori del capitale" e dei mercanti.
In compenso, hanno dato una credibilità assoluta alle lotte in favore di un'"altra globalizzazione" (3). Un tale risultato, inaccettabile per i poteri costituiti, è diventato un potente fattore di radicalizzazione della loro politica di repressione della contestazione pacifica.
Non potendo ridurre quest'ultima a un'agitazione "folkloristica" e trovandosi nell'impossibilità di ammettere le responsabilità delle forze dell'ordine nell'esplosione della violenza - Genova è un caso emblematico di provocazione poliziesca - e incapaci infine di dimostrare l'infondatezza "scientifica" dell'opposizione all'attuale globalizzazione, restava loro un'unica soluzione: criminalizzare i contestatari. Così facendo, sperano di legittimare la loro violenza e delegittimare l'azione di una vasta parte dei movimenti sociali e delle Ong, di cui cercano peraltro di rimettere in causa la rappresentatività.
La seconda ragione è legata ad un aspetto centrale e specifico della globalizzazione: l'affermazione degli Stati uniti come unica potenza egemonica sul piano militare, tecnologico, economico, politico e culturale. Gli Stati uniti, simbolo del capitalismo globale contemporaneo, portano avanti una logica imperiale basata su un ordine planetario che ingloba, sotto la loro guida, le dinamiche, i problemi e le prospettive di varie società del mondo.
Le lotte hanno messo in evidenza come la globalizzazione di questi ultimi venti-trenta anni sia stata e sia ancora soprattutto il prodotto della potenza militare ed economica americana, oltre che dei cambiamenti socio-economici e culturali promossi dagli Stati uniti, che si sono poi diffusi in tutto il mondo, a vari livelli e in forme diverse a seconda dei paesi (compresa la Cina). Questa globalizzazione consiste principalmente in un'americanizzazione ideologica, tecnologica, militare ed economica della società planetaria contemporanea. Non si è dovuto attendere il crollo dell'Unione sovietica per rendersi conto che la globalizzazione dei mercati, dei capitali, della produzione e del consumo era un "prodotto" degli Stati uniti, grazie soprattutto alla presenza mondiale dell'Us Army, dell'Us Navy e dell'Us Air Force.
Questa presenza ha spianato la strada alla "globalizzazione" di Coca Cola, Ibm, Levis, Walt Disney, Ford, Gm, Itt, McDonald's e, più vicini a noi, di Microsoft, Intel, Cisco, Aol-Time Warner, Citicorp, Wal-Mart, Fidelity...
Il pianeta di Davos e quello di Porto Alegre In un tale contesto, ogni manifestazione anti-globalizzazione è percepita, da un numero sempre più cospicuo di dirigenti degli Stati uniti e della maggior parte dei loro "alleati", come un'opposizione allo stesso sistema capitalistico mondiale e, nella misura in cui Washington è la potenza regolatrice di tale sistema, come un'opposizione agli Stati uniti e ai loro "alleati". Al che il Pentagono e altri settori di interessi statunitensi hanno rapidamente elaborato e diffuso la "teoria" della natura "geneticamente" violenta di ogni opposizione alla globalizzazione. Secondo questa teoria, i contestatari, scagliandosi contro l'attuale sistema mondiale, le sue regole, le sue istituzioni e i suoi governi legittimamente eletti, si scagliano di conseguenza contro la democrazia. Sono quindi "necessariamente" violenti, "criminali" reali contro l'ordine democratico, ossia veri e propri "nuovi barbari" dell'era globale.
Non c'è bisogno di dimostrare qui l'assurdità e l'indecenza di questa accusa. La cosa estremamente pericolosa e preoccupante è che tale accusa sembra accettata dalla maggior parte dei responsabili politici dei paesi occidentali e da numerosi dirigenti dei paesi in via di sviluppo. Non si potrebbe mettere meglio in evidenza come la globalizzazione abbia inasprito la frattura che oppone, da una parte, i "signori" della potenza mondiale e i loro vassalli e, dall'altra, i popoli dominati e gli esclusi. Come se non vivessero tutti sullo stesso pianeta... Una diagnosi confermata dallo stesso Financial Times (4) quando, tracciando un bilancio dei due forum mondiali simultanei (quello "economico" e quello "sociale"), parla effettivamente dell'esistenza di due pianeti, quello di Davos e quello di Porto Alegre - sottolinenando la decadenza del primo e l'orbita ascendente del secondo. Senza escludere un'eventuale collisione...
note:
*Professore all'Università di Lovanio (Belgio).
(1) Si legga Agnès Sinai, "Come Monsanto vende gli Ogm", Le Monde diplomatique/il manifesto, luglio 2001.
(2) Si legga "Les Nouvelles Tables de la loi", Le Monde diplomatique, ottobre 1995.
(3) Si legga L'Autre Davos (a cura di François Houtart e François Polet), L'Harmattan, Parigi, 2000. Si legga anche Ignacio Ramonet, "ÁContestatarios de todo el mundo, unidos!", El País, Madrid, 24 giugno 2001.
(4) John Lloyd, "Attack on Planet Davos", Financial Times, 24 febbraio 2001. (Traduzione di S.L.)
Fonte: Monde Diplomatique 9/2001