Riflessioni su Genova

FORZA E PROBLEMI DEL MOVIMENTO

Luciana Castellina

 

Per l'intera estate, e ben più di quanto non avessimo osato sperare, di Genova si è continuato a parlare. L'attenzione si è tuttavia quasi esclusivamente concentrata su scontri e violenza. Non è un risultato innocente, né nuovo. È stato così anche per i precedenti appuntamenti (Seattle, Nizza, Praga, Göteborg), salvo per Porto Alegre, di cui si è parlato poco perché la partecipazione sociale, e non la violenza degli scontri di strada, ha avuto il primo piano.

Questa volta, comunque, era più naturale che gli scontri fisici occupassero la scena: perché più vasti e drammatici; perché alimentati da una preventiva campagna allarmistica e da una esibita preparazione militare volta a fronteggiarli; perché avevano luogo in un paese in cui forte è la memoria di eventi simili sui quali ha attivamente giocato la strategia della tensione che più volte ha trascinato in una trappola grandi movimenti di massa. Infine: `Genova' è accaduta l'indomani della vittoria del centro-destra, e perciò si presentava come l'occasione di una reazione popolare, che ne ha allargato oltre le aspettative l'arco delle adesioni.

Era essenziale per il nuovo governo non solo mostrarsi capace di `garantire l'ordine' meglio di chiunque altro, ma – visto che non si poteva ridurre la manifestazione, per via della sua ampiezza quantitativa e qualitativa, alla contestazione di una minoranza marginale – di poter almeno denunciare il carattere irrazionale del movimento, certo (ecco la tesi suggerita), animato da buone intenzioni, ma fatalmente vocato a restare preda di una spirale violenta. Di qui la scelta, non solo di tollerare ma di usare la prevedibile azione di una minoranza per coinvolgere l'intero movimento e così dimostrare quanto labili sarebbero i confini fra i bravi e i cattivi ragazzi.

Se l'obiettivo del governo fosse stato raggiunto si sarebbe ulteriormente attivizzato il blocco sociale e culturale che ha prodotto il successo elettorale di Berlusconi e si sarebbe spalancato un fossato fra il nuovo movimento e l'opinione pubblica democratica, così contribuendo a dividere la già ultradivisa opposizione. E invece l'operazione si è rivelata un boomerang. In questo senso lo straordinario dibattito sui `fatti di Genova' è stato utilissimo, ne ha accresciuto l'impatto e ingigantito l'immagine, il significato unitario e pacifico.

Decisiva a questo fine è stata la capacità di raccogliere testimonianze, di mobilitare cineasti, giornalisti, intellettuali, magistrati, sì da trascinare nella direzione opposta l'orientamento dell'opinione pubblica. Le grandi manifestazioni di massa dell'indomani e la ripresa di impegno politico di strati di vecchia sinistra da tempo passivizzati ne sono stati la prova.

Esperienze analoghe del passato dovrebbero insegnare però – lo hanno ripetuto più volte Agnoletto e gli altri coordinatori del movimento – che la spirale lotta-repressione-lotta alla repressione nel lungo periodo non aiuta una crescita e anzi rischia di rovesciarsi nel suo contrario. Serve dunque una riflessione più avanzata: da un lato sullo specifico tema violenza-pacifismo, mai risolto una volta per tutte, – giacché continuamente il dilemma si ripresenta anche a chi una scelta di principio l'ha compiuta –; dall'altro, e soprattutto, su ciò che questo movimento è e può diventare. È una riflessione che si sta avviando e ci riguarda tutti. Tirarsene fuori, in nome della pretesa autonomia del movimento, sarebbe solo pilatesco.

Qualche prima considerazione, innanzitutto sul soggetto. Quasi tutti sono rimasti stupiti di fronte a quella che è stata considerata l'improvvisa insorgenza di un movimento che sembrava nato dal nulla: giovanissimi nati dopo l'80, e cioè ben dopo l'epoca dell'ascesa e del declino dai movimenti che sono diventati adulti dopo la fine del Pci e il crollo dell'Unione Sovietica e del suo mondo. Insomma: dopo una vistosa rottura di continuità. Da dove diavolo viene dunque la politicizzazione e un così forte richiamo ai valori di base (se non alla cultura) della sinistra di questi ragazzi che hanno popolato le vie di Genova?

Paradossalmente si potrebbe dire che sono i figli naturali (e non voluti) del liberismo che, predicando e poi inducendo flessibilità e precarietà, nel tramonto delle sicurezze, ha finito per creare disamore verso meritocrazia, carriera, competitività e le pratiche di vita che esse impongono, perciò indifferenza e anzi insofferenza per i miti dell'efficienza e del successo. Di qui la distanza dall'establishment, la naturale propensione alla ribellione.

E però tutto ciò non basterebbe a spiegare. È che in realtà neppure questi giovanissimi vengono dalla traversata del deserto. Come del resto anche il '68 – e sia pure in forme diversissime – il nuovo movimento non è fenomeno improvviso: è il prodotto di un processo complesso che ha prodotto molto più che una meteora, anche se non ancora l'embrione dell'alternativa anticapitalista postnovecentesca. È il risultato di una serie di fattori che hanno fra loro interagito: un lungo lavoro intellettuale della cultura laica (e la predicazione di una parte della Chiesa: i credenti a Genova erano tanti e con le loro bandiere) che ha demistificato il pensiero unico apologetico che per qualche anno era sembrato trionfare; la proliferazione di una multiforme esperienza di contestazione dal basso e a dimensione locale, animata da una cultura `del fare' antideologica, volutamente separata dalle istituzioni e dalle forze politiche date, guardate tutte con diffidenza (tutti fattori che accomunano centri sociali e boy scouts); l'emergere, alla fine, di alcuni fenomeni oggettivi, che si sono incaricati di dimostrare come neppure il nuovo assetto storicamente dato del capitalismo sia in grado di garantire espansione continua e non sia comunque affatto il frutto degli automatismi del mercato ma di precise scelte politiche. Anche questa è, in definitiva, un'analogia col '68, che prende corpo quando cominciano a percepirsi i limiti, e le ambiguità, dello sviluppo di quello che allora si chiamava `neocapitalismo', l'approssimarsi della fine di un ciclo.

Alla fine, il nome di Seattle a buon diritto è diventato la denominazione del movimento: perché è in questa nordica città del Pacifico che tutti questi fattori hanno cominciato a collegarsi fra loro, a indicare un avversario comune per gruppi sociali e organizzazioni fra loro diversissimi. Non solo: è a partire da Seattle che si è scoperta la crescita di un'area critica, sociale e soprattutto culturale, ben oltre i confini della minoranza contestatrice, e l'emergere nello stesso establishment di una incertezza di sé, di una interna incrinatura. E infatti, sui temi proposti dal movimento le chiese si sono divise, i governi del Terzo mondo hanno trovato un po' di forza per qualche segno di reazione nei confronti dell'arroganza del Nord, l'Europa, sia pure con enorme timidezza, ha accentuato la sua diversità dal modello americano, sindacati e forze di sinistra, spiazzate dalla inattesa disponibilità e riattivizzazione politica e ideale di una nuova generazione data ormai per omologata, hanno mostrato qualche reattività.

Almeno sul piano culturale il risultato non è da poco: ha indotto una crisi di legittimità senza precedenti dei nuovi poteri `globali' e la loro scelta di `fuggire' in luoghi inaccessibili – a Doha, nell'emirato del Qatar, il summit dell'Omc; in un remoto villaggio delle Rockies Mountains canadesi il prossimo G8 – ha finito per ridicolizzarli.

A Genova la dimensione e la potenzialità delle forze messe in campo si è potuta misurare a pieno ed è in questo senso che è valida l'analogia con il '68. A patto di non rimuovere una riflessione su come quel movimento di più di trent'anni fa si è concluso e di quanto comunque diversi fossero il suo generale retroterra culturale e politico e i rapporti di forza nel mondo.

I punti di forza del nuovo movimento rispetto ad allora sono molteplici. Il primo consiste – mi pare – nella consapevolezza acquisita di quanto importante sia il consenso; ed è indicativo il ricorrere continuo, negli scritti dei suoi animatori, del gramsciano concetto di egemonia, un richiamo alla necessità di coinvolgere gli altri, di farsi capire, innanzitutto di capirsi, mentre il '68 fu invece dominato da grandi settarismi. Ed è anche per questo che, nonostante la grande pluralità dei soggetti, si stanno già selezionando alcune precise priorità comuni a un arco amplissimo: il tema della disuguaglianza ha acquistato, per esempio, una persuasività senza paragoni con il passato, tanto più grande in quanto l'attuale miseria di interi popoli del Sud del mondo e di crescenti aree delle società opulente non appare retaggio di un passato in via di un sia pur lento superamento, ma, al contrario, modernissimo frutto di una modernità che scava un solco più profondo.

Anche il tema dell'ambiente ha acquistato una valenza ben diversa dal passato, perché l'allarme non riguarda più un futuro imprecisato ma l'oggi, e denuncia l'intero modello di sviluppo e di consumo. Quella che era stata l'intuizione di una minoranza è ormai esperienza di massa e convinzione scientifica maggioritaria.

Così è per il tema della democrazia, la cui crisi il movimento ha saputo porre al centro della propria denuncia, indicando con efficacia i processi degenerativi indotti dal trasferimento dei poteri reali a organismi sottratti a ogni controllo, dallo strapotere oligopolistico dei media, dall'arrogante ritorno di un ruolo centrale del potere militare.

L'elenco delle tematiche che hanno conquistato consenso, delle `buone ragioni' del movimento, che ha saputo individuare una catena di leggibili responsabilità (Fmi, Omc, Banche centrali, ma anche i meccanismi perversi di istituzioni apparentemente costituzionalizzate come l'Unione europea) è lungo.

Tutti gli elementi di forza del movimento possono tuttavia rovesciarsi nel loro contrario. È certo una straordinaria ricchezza la molteplicità di soggetti aggregati, e passi avanti importanti sono stati fatti per ridurre le obiettive contraddizioni di interessi e le incomprensioni che generano. Ma queste distanze oggettive restano e sarebbe un guaio trascurare lo sforzo necessario per colmarle, contentandosi di una unità nella diversità che alla lunga rischia di non tenere. Sono contraddizioni dure quelle che si aprono fra lavoratori dei paesi industrializzati e lavoratori dei paesi arretrati, sulla tematica, per esempio, della generalizzazione degli standard sociali e ambientali. La stessa tematica dei diritti umani universali, la necessità di garantirli ovunque, è certo battaglia sacrosanta, che tuttavia spesso cozza con la salvaguardia del pluralismo culturale, con la difesa di tradizioni che non saranno mai superate solo in virtù di un intervento fatalmente visto come `occidentale' (la vicenda del chador nelle scuole di Parigi insegna). Ma qualcosa insegna anche la difficoltà di dirimere la questione dell'ingresso della Cina nell'Omc: si può certo convenire con la tesi che, in nome di una diversa scelta di modello di sviluppo, sostiene che per il popolo cinese sarebbe meglio tener fuori la Cina dal Wto; ma si possono considerare del tutto disinteressate le barriere sollevate all'entrata della Cina in nome dei diritti umani di chi sembra ignorare la presenza di regimi non certo più rispettabili? Persino la contraddizione fra pacifismo e scelta di reagire con la violenza a una dominazione violenta non è semplice da dirimere. A parole sì, ma nei fatti meno, tant'è vero che una mobilitazione adeguata all'orrore degli interventi israeliani in Palestina non s'è avuta.

E ancora: è stata certo forza del movimento avere fatto capire anche alle istituzioni sindacali e della sinistra – così reticenti e pigre nel superare l'ottica ristretta e miope del contesto nazionale cui sono rimaste legate nonostante le proclamazioni `della domenica' e nonostante, per gli europei, mezzo secolo di Unione – quanto lo scontro si sia ormai spostato a livello internazionale. Ma è una sua debolezza oggettiva il fatto che a questo livello, purtroppo, i risultati hanno tempi lunghissimi ed è difficile ottenerli senza poter far leva su poteri politici alternativi.

Prendiamo per esempio la questione del debito dei paesi del Terzo mondo: ottenerne l'annullamento è certo importante, ma per servire davvero esso deve accompagnarsi a politiche economiche affatto diverse da quelle correnti, che ne impediscano la fatale riproduzione. O ancora: sul terreno dell'ambientalismo, nessun obiettivo di riduzione del guasto può tenere, anche nel caso che il Protocollo di Kyoto fosse applicato per intero, se non si avvia una svolta radicale nella politica energetica; e questa è impossibile ottenerla – qui sta la differenza radicale con le lotte del movimento operaio – così come si `strappa' una riduzione d'orario o più salario.

Tutte le questioni hanno una dimensione globale, ma a livello globale scarsi sono i punti di attacco concreti. Alla lunga il "pensare globalmente e agire localmente", se non si trova una mediazione, porta a non pensare più globalmente (se non simbolicamente) e ad agire localmente ma su obiettivi marginali: soprattutto per via del tipo di insediamento sociale del movimento, anche in questo caso, forte proprio perché molto mobile e flessibile, ma debole perché – al di là degli appuntamenti mondiali fissati dall'agenda dettata dai potenti – rischia di stare ovunque ma da nessuna parte davvero, con il rischio di non avere radici e legami sufficienti per incidere realmente sulla politica del paese dove opera, e perciò di non trovare una propria più ampia base sociale, interlocutori e avversari politici precisi.

Intendiamoci: quanto dico non è affatto un invito a rinunciare all'approccio globale e a favorire la tendenza (che è presente nel movimento e che, ove dovesse prevalere, sarebbe fatale) a ritrarsi nel locale, innescando una conflittualità dispersa e frammentaria, intessuta di esperienze esemplari, illudendosi di sfuggire così alle insidie della politica. Non sta infatti scritto da nessuna parte che un movimento sociale per differenziarsi dai partiti debba rinunciare alla formazione dei propri quadri, a proprie strutture organizzative che ne definiscano identità, progetto, itinerari, alleanze. Questo ha fatto, alle origini, e così è cresciuto, il movimento operaio sul versante sindacale e oggi tutto ciò sarebbe più necessario che mai per rifondare l'idea stessa di politica.

Non è facile, non occorre ripeterlo. Ma il problema di una possibile oscillazione fra l'estrema frammentarietà del nuovo movimento (che pure è frutto della sua ricchezza e varietà) e il carattere troppo virtuale e simbolico dell'unificazione che propone, va sottolineato. Tanto più in un paese come l'Italia dove, più che altrove, nel momento in cui riemerge, con la lotta dei metalmeccanici, il tema dell'unificazione dei lavori e di un nuovo sistema contrattuale, esplode la crisi del sindacalismo confederale e insieme quello dell'unità sindacale, e si propone con forza la necessità di una rifondazione. Un paese nel quale, proprio nel momento in cui la questione ambientale assume un rilievo tanto grande, si assiste alla diaspora dei movimenti e dei partiti verdi cresciuti su questa tematica, indeboliti, incerti, timidi nell'affrontare i nodi più duri, quelli che condizionano l'alternativa ecologica, a cominciare dalla questione energetica.

Una presenza più strutturata è necessaria anche perché ci sia un salto di qualità culturale. La lettura dei cento settimanali messaggi e–mail che le reti ci inviano ci dice che i contributi collettivi o individuali offerti alla riflessione sono molti e ricchi: ma come non vedere il rischio – giustamente denunciato da François Houtart a Rio – di trasformarsi in `supermarket delle alternative', che impoverisce l'analisi delle nuove contraddizioni (generalizzando al di là del consentito, senza distinguere fra paese e paese, fra governo e governo e fra forza politica e forza politica, così rinunciando ad usare le contraddizioni interne alla controparte), e riduce l'iniziativa a temi fin troppo minimalisti.

Tentare questo lavoro collettivo per individuare comuni itinerari e priorità non vuol dire affatto non rispettare le diversità del movimento, ma al contrario rafforzarne le potenzialità, evitando che esso cresca solo su appuntamenti di piazza, certo indispensabili per conquistare la scena e far circolare i propri messaggi, ma che alla lunga – anche se l'attuale movimento ha nel suo dna (a differenza di quello del '68) la non violenza e non mitizza la `presa del potere' – rischiano di trascinare tutti nella pratica dello scontro, o di essere infiltrati dalla cultura opposta, sì da cadere – pur senza volerlo – nella spirale lotta-repressione-lotta alla espressione. Guai, per esempio, a farsi esaurire nella discussione su dove dovrebbero tenersi i prossimi summit dei potenti. In fondo il più ricco degli appuntamenti è stato proprio Porto Alegre, dove dei `grandi' non c'era traccia e c'era invece un sostanzioso tessuto sociale e istituzionale che ha interagito.

Ho lasciato per ultima la considerazione più potenzialmente suscettibile di malintesi (e di sospetti, per via della nefasta proliferazione di partitini iperideologici del post '68): quella della costituente di una nuova sinistra propriamente politica, sia sul versante alternativo (che non è essa stessa parte del movimento, ma suo possibile riferimento) che su quello riformista. Non credo davvero che il movimento non abbia bisogno della politica, nello specifico senso di un autonomo soggetto organizzato, portatore di un progetto complessivo e di lungo periodo, che compete con i grandi poteri e perciò partecipa alle scadenze istituzionali (ivi comprese le elezioni, che sono passaggio ineludibile se non si pensa alla presa del Palazzo d'inverno). Senza tale, o tali, soggetti con cui interloquire – fa bene a porlo al centro del suo ragionamento su "Latinomerica. Tutti i Sud del mondo", Emir Sader, uno dei principali promotori del Forum sociale mondiale di Porto Alegre – il movimento rischia di esaurirsi in una conflittualità subalterna e senza sbocchi, o di essere riassorbito da una rivoluzione passiva. È già per molti versi accaduto nel '68, potrebbe tornare ad accadere e tanto più oggi, quando così grave appare il collasso delle forze e delle forme storiche in cui il conflitto di classe aveva trovato espressione etico-politica e statuale. E per l'enorme distanza che si è venuta a determinare fra la contestazione diffusa che riprende e lo sterminato potere che domina il mondo, per l'assenza di mediazioni credibili e di soggetti in grado di dare una prospettiva.

Eludere questo problema sarebbe un errore fatale, in cui purtroppo già si rischia di cadere: considerare il nuovo movimento una soluzione, di per sé già esaustiva, alla crisi che ha investito la sinistra in questo tornante di secolo. Il movimento è una straordinaria occasione per affrontarla e cominciare a superarla, che si può perdere sia sottovalutandolo che mitizzandolo. Un errore che chi viene dall'esperienza del Manifesto ha (insieme a tanti altri) già commesso, di cui conosce i prezzi e perciò ha la speciale responsabilità di indicare.

So bene che quest'ultimo obiettivo è il più arduo, quello che può produrre artificiose accelerazioni e forzature e che comunque non compete direttamente al movimento. Dico solo che il movimento non può restare indifferente al problema e tanto meno diffidente. Difficile? Certo. Ma nella "prossima stazione speranza" cantata da Manu Chao deve ben esserci uno spazio anche per questo auspicio.

Fonte: La Rivista 9/2001