LA VIOLENZA E LA POLITICA
di MICHELE SERRA
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NELL'ULTIMA settimana i giornali di destra hanno detto cose più di destra, quelli di sinistra cose più di sinistra. Prevalentemente questurini i primi, prevalentemente movimentisti i secondi. Ma l'impressione non è che sia stata riguadagnata una desiderabile chiarezza. Piuttosto, che sia stata restaurata una pigra, muffita tradizione autoriferita.
SONO state risfoderate come spade arrugginite i vari "polizia assassina" e "siete solo teppisti", ogni retorica ha ritrovato il suo megafono e ogni pessimo umore sociale ha rioccupato, pavlovianamente, la sua antica nicchia. Le facce di destra, abbandonato per l'occasione il maquillage garantista sfoderato per i reati politico-finanziari, sono tornate al ceffo forcaiolo. Quelle di sinistra, dopo anni di indurito legalitarismo, si sono inumidite nelle lacrime dei figli bastonati dai celerini. Così funziona la violenza (così funziona la guerra): sospende la politica e pure l'intelligenza, decortica il campo della discussione e perfino quello del conflitto. No logos, che non è esattamente no logo. Che per le tute nere questo sia il solo modo per trasformare una città nella loro Playstation, è ovvio. Meno ovvio che le due maggioranze espropriate (destra e sinistra, governo e opposizione, se volete adulti e ragazzi) subiscano questo gioco al punto di diventarne il materiale inerte. Il "game over" che qualche ebbro ha tracciato sui muri di Genova dice esattamente questo: l'estinzione del gioco politico e delle sue faticose regole è l'obiettivo di chi riconosce e ama solo il suo sporco gioco personale. A modo suo, quella del "blocco nero" è stata una privatizzazione, per giunta sinistramente speculare al "lasciateci lavorare" che ha fin qui segnato i pomposi convivi dei potenti della terra. Opposti estremismi, stavolta davvero. Connivenza "oggettiva", stavolta davvero. Per dire anch'io una cosa di sinistra, è triste e molto grave che a questa destrutturazione politica della tre giorni genovese abbia contribuito in maniera decisiva, secondo tutte ma proprio tutte le testimonianze dirette, una gestione dell'ordine pubblico approssimativa e spesso gaglioffa, per giunta sospettata e sospettabile di avere utilizzato strumentalmente i violenti per confondere i pacifici, e infierito di preferenza sui pacifici (non perdetevi, se ancora avete dei dubbi, l'atroce e asciutta cronaca scritta in rete, su "Il nuovo", da Gian Paolo Ormezzano a proposito del pestaggio gorillesco di suo figlio. Basterebbe quell'episodio, tra i tanti, a giustificare le dimissioni del ministro degli Interni). Ma, sempre per dire una cosa di sinistra, è apparso altrettanto velleitario anche lo sforzo del movimento di separare nettamente le sue cause e perfino i suoi accampamenti da quelli dei demolitori. Banalmente, rudemente, e lasciando nel loro torbido sacchetto i diecimila "distinguo" del caso: troppo sangue e troppe ipocrisie hanno bruttato la storia della sinistra, di tutte le sinistre, perché si possa nuovamente giochicchiare con gli stessissimi equivoci di sempre. Dicano i portavoce del movimento se, di qui in poi, considerano gli agenti di polizia e i carabinieri come servi del potere o come lavoratori, come arbitri o come nemici. Lo dicano loro per primi, preventivamente e indipendentemente dal buono o dal cattivo uso che i governi faranno della forza pubblica, perché il senno di poi è sempre meno spendibile di quello di prima. Lo dicano a prescindere dalla (pur comprensibile) esigenza "tattica" di rabbonire i loro cattivi, di non isolarli: sono già isolati adesso. Dicano se la polizia di Stato (lo Stato) è per loro un interlocutore sordo quanto si vuole, ostico quanto si paventa, ma legittimo e necessario, oppure è solo sbirraglia da abbattere, una grata di ferro da piegare a spintoni. Nella proterva disperazione degli ultras anarchici c'è almeno un dignitoso germe di chiarezza: loro odiano e vogliono distruggere, lo dicono, lo fanno, e mettono nel conto la caduta sul campo. L'ambiguità da "zona grigia" di troppi settori del movimento alimenta invece il sospetto che la querimoniosità, ad ogni colpo ricevuto, sia l'ingiustificato cappello di fumo da apporre a un discorso incompleto e reticente, quello sulla "resistenza passiva", sull'"autodifesa", sulla "risposta di massa", fonte, da sempre, di ogni genere di inevitabili processi alle intenzioni. Non mancano ottimi esempi di azioni "illegali" il cui nitore non-violento è indiscutibile, e difatti indiscusso. Le molto perigliose azioni di Greenpeace (quello sì che è un bel videogame!) mettono a repentaglio solo i loro attori, oltre ai profitti loschi. E un boicottaggio bene organizzato (quanto a lotta contro la dittatura della merce) potrebbe infliggere all'Impero, per dirla con le tute bianche, danni molto più seri, e mirati, della devastazione di un povero chiosco o di una innocente Panda pagata a rate. Si fa più politica andando a fare la spesa che gridando slogan in piazza. E il territorio da contendere all'avversario non è scritto sulla cartografia cittadina (come ancora credono certi von Clausewitz da corteo), ma nei bilanci dei supermercati, nei tabulati, nei rendiconto dei Consigli d'amministrazione. Non negli scontri, ma negli scontrini. La violenza è un crinale sottile e infido, ma mai abbastanza da impedire che un pre-giudizio etico e politico forte e significativo aiuti a percorrerlo senza inciampi troppo gravi. Se perfino la palesemente mite Grazia Francescato, l'altra sera in tivù, ha dovuto ripetere quattro volte (cioè tre di troppo) di essere "non violenta", è perché il movimento nel suo complesso avverte che su questo punto, anche se non ha il coraggio di confessarselo, non c'è abbastanza chiarezza. Se la violenza avrà ancora campo, magari quasi tutto il campo come è accaduto a Genova, non basterà neppure inchiodare il più nerboruto dei governi di polizia alle sue più nefaste scorrettezze. La repressione, come insegna il passato, è stata spesso (anche) un comodo e cinico pretesto per dissimulare la propria impotenza e i propri errori. E la brava e cattiva "gente comune" che, alla fin fine, sarà (come sempre) il solo vero arbitro della partita, concluderà che quel movimento, quel raduno, quel corteo sono stati comunque il casus belli, perché la gente comune sa poco o niente del nefasto sfruttamento, o del profitto sanguisuga. L'opinione pubblica è in genere ottusa, e la democrazia di massa un pigro e limaccioso fiume, non un torrente argentino. La gente vede la propria città bruciata, fa il suo rozzo "due più due" e ingiuria e scaccia chiunque indugi nei dintorni con un sacco a pelo e i capelli lunghi. Se ci fosse, domattina a Genova, un ballottaggio tra Scajola e Agnoletto, vincerebbe a mani basse Scajola. E mi dispiace, perché voterei Agnoletto, se non altro per il gusto di dare torto agli assenti. Per causa della violenza o della omertà intorno alla violenza sono morti nel sangue, o scomparsi nel nulla, i movimenti più radicali. E poiché questo è il più radicale di tutti (nel senso che finalmente indica nel governo del mercato globale il punto esatto dello scontro politico futuro, e mondiale), più acuto è il rischio che l'acuminatezza delle idee, delle analisi, delle intenzioni, degeneri in uno scontro diffuso, incomprensibile e impolitico. Poi dovranno passare un'altra trentina d'anni per riprovare, timidamente, a parlare davvero di politica. Perché ci vogliono vite intere per rimediare al sangue, come dimostra il gesto semplice e altissimo dell'ex sparatore Lauro Bonisoli, che è andato a lasciare una carezza sulla maschera mortuaria di Montanelli.
Fonte: Repubblica 25 luglio 2001