Le devastazioni di una guerra unilaterale

L'ORDINE AMERICANO, A QUALSIASI COSTO

Ibrahim Warde

Alla fine di marzo i britannici hanno cominciato a preoccuparsi del costo della loro partecipazione alla guerra, valutato a 14,7 miliardi di euro. Il presidente americano, dal canto suo, ha chiesto al Congresso un extra-budget di 74,7 miliardi di dollari. Nel 2004, le spese militari degli Stati uniti saranno superiori a quelle di tutti gli altri paesi del mondo messi insieme

Quando Lawrence Linsday, consigliere economico della Casa bianca, dichiarò che il costo di una guerra avrebbe potuto raggiungere i 200 miliardi di dollari, stava infrangendo un tabù. Fino ad allora i discorsi ufficiali si accontentavano di evocare la vittoria del Bene contro il Male, la liberazione del popolo iracheno e il vento della democrazia che avrebbe trasformato il mondo arabo. Tutto il resto - vittime civili, distruzioni, ecc. - erano solo "danni collaterali".
E soprattutto non era assolutamente presa in considerazione l'idea che la guerra avrebbe potuto avere un costo per il contribuente americano.
Così, nello stesso momento in cui il dispiegamento massiccio di truppe aveva generato una situazione di non-ritorno, il bilancio federale del 2003 evitava di tenere da conto qualsiasi tipo di spesa di guerra...
Il consigliere fu immediatamente licenziato, ma la gaffe ebbe per conseguenza la tardiva introduzione di due domande nel dibattito politico: quanto costerà la guerra, e chi la finanzierà? Il segretario alla difesa Donald Rumsfeld continuava ugualmente ad allontanare seccamente questi problemi. Da grande sostenitore della precisione, affermava che fosse inutile "speculare sull'ammontare delle spese", perché era impossibile farlo con precisione: "Ci sono sei o sette variabili che è necessario tenere in conto, e io non sono sufficientemente in gamba per poterlo fare
(1)". Tuttavia assicurava che, anche nella peggiore delle ipotesi, il costo totale della guerra non avrebbe potuto eccedere i 50 miliardi di dollari. E quanto al suo vice Paul Wolfowitz, teorico del bellicismo a ogni costo, questi sosteneva a fine febbraio che "bisogna attendere di essere sul terreno per poter valutare le nostre necessità". Gli analisti del Pentagono facevano quindi riferimento a una forchetta tra i 60 e i 95 miliardi di dollari per i primi sei mesi di una spedizione irachena. Altri studi consideravano le molteplici spese indotte da un'operazione militare (2). Uno di questi, pubblicato dall'Accademia americana delle arti e delle scienze, elencava tre tipi di spese: le spese militari propriamente dette, che andavano dai 50 ai 150 miliardi di dollari; le spese del dopoguerra, ovvero quelle legate all'occupazione e al "mantenimento della pace", alla ricostruzione e ai trasferimenti di popolazione, che sarebbero nell'ordine dei 100/600 miliardi di dollari; e infine quelle relative alle conseguenze delle guerra, quali ad esempio l'impatto di un'impennata dei prezzi del petrolio sull'economia americana in caso di conflitto prolungato, che potrebbero raggiungere i 1.200 miliardi di dollari... (3).
Gli Stati uniti, al contrario della prima guerra del Golfo (1990-1991), non potranno più contare sulla generosità dei loro alleati. Il costo di quell'operazione (62 miliardi di dollari) era stato infatti garantito dall'Arabia saudita, il Kuwait e, in misura minore, dal Giappone e dalla Germania
(4). La situazione attuale è diversa: solo per mettere insieme degli alleati e costituire sostegni logistici l'America ha dovuto moltiplicare promesse e regali costosi. Molti paesi sono riusciti a monetizzare la loro partecipazione (o, nel caso di Israele, la loro non-partecipazione...) allo sforzo bellico.
I compensi sono dovuti essere tanto più rilevanti quanto le opinioni pubbliche erano ostili al conflitto. E così la Turchia, che doveva servire da retroguardia per le truppe americane, era quasi riuscita, dopo un lungo mercanteggiare, a ottenere la notevole somma di 14,5 miliardi di dollari (con, per di più, un assegno in bianco per tenere a bada i kurdi iracheni)
(5). Allo stesso tempo Israele ha reclamato 4 miliardi di dollari di aiuti militari supplementari e la garanzia di un prestito di 8 miliardi di dollari (6). Al momento dell'inutile battaglia diplomatica al Consiglio di sicurezza dell'Onu, queste esche rappresentavano una pratica corrente. Ma, nel caso di alcuni paesi latinoamericani e africani, apparentemente non sono state sufficienti.
Questo fragore di sciabole giunge in un contesto economico che continua ad aggravarsi. La disoccupazione (6% della popolazione attiva americana) ha raggiunto il livello più alto da nove anni a questa parte. La crescita è caduta intorno all'1% nell'ultimo trimestre del 2002, mentre il marasma della borsa continua. Dall'elezione del presidente Bush il dollaro ha perso il 15% del suo valore nei confronti dell'euro e l'ammontare degli investimenti stranieri negli Stati uniti è sceso dell'85%. La caduta delle spese delle famiglie, il crollo della fiducia dei consumatori e la contrazione del settore industriale contribuiscono a rendere più fosco il quadro generale.
E questo quadro, in prospettiva della campagna presidenziale del 2004, non può non inquietare l'inquilino della Casa bianca. Se c'è una lezione che Bush ha fatto sua dall'esperienza di suo padre è che si può vincere una guerra e perdere un'elezione. Bush padre sembrava ignorare i problemi economici dell'America profonda per consacrarsi alla politica estera. I democratici che si contendono la nomination del loro partito lo aspettano su un altro fronte. Alcuni, come il senatore John Edwards (Carolina del Nord) e Joseph Lieberman (Connecticut) lo accusano già da ora di finanziare avventure estere lesinando sulla protezione del territorio nazionale (homeland security)
(7).
Attualmente la strategia economica dell'amministrazione Bush comprende due elementi - il keynesismo di guerra e una notevole riduzione delle imposte - tali da accentuare la deriva del deficit pubblico. Solo due anni fa la Casa bianca prevedeva per il 2004 un'eccedenza di budget di 262 miliardi di dollari. Un anno più tardi questa cifra era rivista al ribasso, in conseguenza di una prima tranche di riduzione delle imposte abbinata al rallentamento dell'economia. Un abbondante eccesso si trasformava in un deficit modesto (14 miliardi di dollari).
Da allora si parla di un deficit di 307 miliardi di dollari, e questo senza nemmeno calcolare l'avventura irachena, le conseguenze di un taglio delle tasse di 637 miliardi di dollari in dieci anni e il nuovo aumento del bilancio della difesa (Sono stati reclamati dal presidente 47 miliardi di dollari supplementari per il solo esercizio del 2003 e, il 24 marzo, Bush ha chiesto un extra-budget di 74,7 miliardi di dollari per finanziare la guerra nel Golfo). A quel punto le spese militari americane saranno superiori a quelle di tutti gli altri centonovantuno paesi del pianeta messi insieme...
(8) Il presidente Bush è partito con l'idea di fare meglio ciò che Lyndon Johnson fece durante la guerra del Vietnam. Allora, infatti, piuttosto che aumentare le imposte per finanziare un conflitto relativamente impopolare, il presidente democratico aveva rifiutato di scegliere tra "il burro" e "i cannoni". È opinione comune imputare le disfuzioni economiche degli ultimi dieci anni - inflazione, crisi monetaria, recessione - a questa decisione. Bush non se ne interessa. Come ha sottolineato il giornalista Lewis Lapham, il presidente assume delle arie da Urbano II (il quale, nell'anno 1095, benediceva la partenza dei crociati in terra santa) (9). Nei suoi discorsi è più incline a invocare l'aiuto del cielo che a evocare preoccupazioni terrene, compito che ha lasciato ai suoi consiglieri.
E così l'attivista repubblicano Grover Norquist, molto vicino alla Casa bianca, assicura che una diminuzione delle imposte è perfettamente compatibile con un'offensiva in Iraq. Per il presidente dell'associazione "Americans for Tax Reforms", il credo reaganiano degli anni '80 è sempre valido: la crescita sarà tanto maggiore quanto la pressione fiscale si farà più leggera.
Il campo neo-conservatore cui appartiene il presidente ha una visione ancora più idilliaca: la caduta di Saddam Hussein segnerà l'inizio della democratizzazione; grazie a un effetto di contagio tutta la regione conoscerà la democrazia, la libertà, la pace e la prosperità
(10). Meglio ancora: le ricadute economiche saranno favorevoli agli americani, che potranno rafforzare il loro controllo sul mercato del petrolio e ottenere la maggior parte dei contratti di armamento e ricostruzione (quando Seymour Hersh ha rivelato sul New Yorker, il passato 17 marzo, che il presidente del Defense Policy Board Richard Perle, dimessosi poi di recente, intendeva beneficiare personalmente delle vendite di armi nel Medioriente, l'interessato si è accontentato di qualificare il celebre giornalista come "terrorista"). Vittoria, democrazia, pace: la rielezione di Bush sarebbe allora assicurata.
Paradossalmente lo scenario di una guerra "rapida e vittoriosa" promessa dai falchi (e auspicata dalle colombe che si sono rassegnate all'idea di un'operazione militare) potrebbe rivelarsi disastrosa. Esattamente come gli attentati dell'11 settembre avevano fornito l'occasione di mettere in atto un progetto in cantiere da molto tempo, una guerra lampo potrebbe rafforzare la posizione di chi vorrebbe confrontarsi con un "asse del male" dai confini indefiniti. Il giornalista Bob Woodward, nel suo libro quasi agiografico sulla guerra di Bush, ricorda che Wolfowitz consigliava al presidente degli Stati uniti d'attaccare l'Iraq dal 15 settembre 2001: "Non è certa una vittoria contro l'Afghanistan.
Invece il regime iracheno è fragile e tirannico. Si schianterà rapidamente.
È una cosa fattibile"
(11). Si intende meglio l'impeto a "produrre delle prove" di un legame tra l'Iraq e la rete di al Qaeda.
Nel novembre 2002 il primo ministro israeliano Ariel Sharon, molto ascoltato dai neo-conservatori, aveva affermato che all'indomani della guerra in Iraq gli Stati uniti avrebbero dovuto attaccare l'Iran
(12). Ma la lista (non esaustiva) dei paesi che si trovano nel mirino delle bocche da fuoco del Pentagono e della Casa bianca aveva incluso anche, in un primo tempo, la Siria, la Libia e l'Arabia saudita (13).
Per Michael Ledeen, noto soprattutto per il suo coinvolgimento nello scandalo Irangate
(14), l'obiettivo non è stabilizzare questi paesi: "La ricerca di stabilità sarebbe indegna per l'America. Il nostro è il paese della distruzione creatrice. Non vogliamo stabilità né in Iran, né in Iraq, né in Siria, né in Libano, né tantomeno in Arabia saudita... Il problema è sapere come destabilizzare questi paesi.
Dobbiamo distruggerli per compiere la nostra missione storica". Come al tempo della guerra del Vietnam, in cui bisognava distruggere i villaggi per salvarli...
Altri scenari di allargamento del conflitto sono frequentemente citati dagli stateghi neo-conservatori. Così, per esempio, il 10 luglio 2002 Laurent Murawiec, analista (francese) della Rand Corporation si era presentato di fronte al Defense Policy Board, organo consultivo del Pentagono. Con Richard Perle come impresario, questo ex collaboratore del pubblicista d'estrema destra Lyndon LaRouche era venuto a denunciare l'Arabia saudita come il "nucleo del male, presente a tutti i livelli dell'azione terroristica" e come principale nemico dell'America.
Questo singolare "esperto" suggeriva al governo americano di lanciare un ultimatum al regno: se continuate a sostenere il terrorismo e ad autorizzare i discorsi anti-americani e anti-israeliani, "confischeremo i vostri beni finanziari, occuperemo i vostri campi petroliferi e "prenderemo di mira" i vostri luoghi santi".
Questa comunicazione, rivelata dal Washington Poist qualche settimana dopo è stata l'occasione per lanciare un altro ballon d'essai. Laurent Murawiec suggeriva in effetti che, oltre all'Iraq ("pilastro tattico") e all'Arabia saudita ("pilastro strategico"), bisognava tener d'occhio anche l'Egitto...



note:

* Ricercatore, Centre for International Studies, Massachusetts Institute of Technology (Cambridge, Stati uniti), autore di Islamic Finance in the Global Economy, Edinburgh University Press, 2000.

(1) The Washington Post, 1 marzo 2003.

(2) Si legga, ad esempio, Steven M. Kosiak, "Potential Cost of a War with Iraq and its Poswar Consequences", Center for Strategic and Budgetary Assessments, 25 febbraio 2003, www. csbaonline.org.

(3) Carl Kaysen e al., "War With Iraq: Costs, Consequences, and Alternatives", American Academy of Arts and Sciences 2002, www.amacad.org/publications/monographs/War_with_Iraq.pdf.

(4) Si legga "Les dividendes de l'opération "Bouclier du desert"", Le Monde diplomatique, novembre 1990.

(5) La Turchia inizialmente aveva richiesto 40 miliardi di dollari a titolo di risarcimento per i danni subiti dalla guerra del 1991.
Il Parlamento turco ha tuttavia rifiutato di ratificare l'accordo.

(6) Business Week, New York, 10 marzo 2003.

(7) The American Prospect, 7 febbraio 2003, http://www.prospect.org/webfeatures/2003/02/gourevitch-a-02-07.html.

(8) Si legga Fareed Zakaria, "Why America Scares the World", Newsweek, New York, 24 marzo 2003.

(9) Lewis Lapham, Le Djihad américain, Editions Saint-Simon, Paris, 2002.

(10) Si legga ad esempio William Kristol e Lawrence Kaplan, The War on Iraq: Saddam's Tyrrany and America's Mission, Encounter Books, San Francisco 2003, e Kenneth Pollack, The Threatening Storm: The case for invading Iraq, Random House, New York, 2002.

(11) Bob Woodward, La guerra di Bush, Sperling&Kupfer, 2003.

(12) "Attack Iran the day Iraq war ends, demands Israel", The Times, Londra, 5 novembre 2002.

(13) Vedi Michael Ledeen, The War Against the Terror Masters, St.
Martin's Press, 2002.

(14) Nome dato, in riferimento allo Watergate che costò la presidenza a Richard Nixon, allo scandalo delle vendite segrete di armi americane all'Iran (1985-1987), i cui proventi servivano a finanziare i contras nicaraguensi. Numerosi dignitari americani furono coinvolti, fino allo stesso presidente Ronald Reagan.
(Traduzione di M.D.)