I DIRITTI VIOLATI IN NOME DELLA GUERRA

LUCIO CARACCIOLO

 

NESSUNO sa quando e come vinceremo questa guerra. Qualche idea ce la siamo invece fatta su come potremmo perderla. Ad esempio, imbarcandoci in una guerra mondiale permanente: oggi in Afghanistan, domani in Iraq, dopodomani chissà dove. Forse riusciremmo a imporre la forza delle nostre armi, ma le devastazioni culturali e sociali di una guerra potenzialmente eterna ci cambierebbero i connotati. Se per redimere il resto del mondo sfigurassimo l'Occidente, non avremmo troppo da celebrare. A questo inclina la retorica della "sicurezza sopra tutto", che trasforma la guerra da mezzo a fine e tende ad assimilarci alla barbarie che vorremmo estirpare.

Siamo per fortuna lontani da un simile esito. Ma, come suggerivano gli antichi, principiis obsta – è meglio opporsi subito. Già osserviamo alcuni sintomi poco promettenti. Specialmente negli Stati Uniti. Tanto da far esclamare al senatore americano Patrick J. Leahy: "Rischiamo di assomigliare ad alcune delle cose che vogliamo combattere". Il presidente della Commissione Giustizia del Senato (democratico) si riferisce alle misure speciali antiterrorismo che il governo ha preso senza consultare il Congresso. La più rilevante è il decreto con cui Bush ha stabilito che gli stranieri accusati di terrorismo saranno processati da tribunali speciali militari. I quali giudicheranno in segreto e potranno condannare l'accusato a morte senza possibilità di appello, anche usando prove inammissibili davanti a una corte civile. In parole povere, l'esecutivo dice giustizia.

Non basta. In questi giorni migliaia di mediorientali regolarmente residenti in America stanno ricevendo una lettera in cui li si invita a farsi "intervistare" dalla polizia: "Gentile signore, non abbiamo ragione di pensare che Lei sia in alcun modo coinvolto in attività terroristiche. Tuttavia, Lei può conoscere qualcosa che potrebbe aiutarci nei nostri sforzi". A parte la discriminazione per razza, appare molto ottimistico immaginare che eventuali soci di bin Laden non attendano che di essere convocati al posto di polizia per spifferare tutto. L'effetto è semmai di confermare alcuni milioni di arabi americani nell'idea di essere oggetto di una campagna di odio.

Inoltre, il ministro della Giustizia John Ashcroft – il quale tiene a far sapere che la mattina invece dei giornali legge la Bibbia – ha escogitato una quantità di misure di dubbia efficacia contro i terroristi ma di sicura presa sulle garanzie dei cittadini. Ad esempio, la detenzione di 652 persone in seguito all'inchiesta sull'11 settembre, nessuna delle quali accusata di terrorismo. Di quasi tutti non si conosce il nome. Costoro non possono conferire con gli avvocati se non accettando che la conversazione sia registrata. La tesi del governo è che in questo momento la priorità è la protezione delle vite americane: "È difficile per una persona in carcere uccidere innocenti", ci illumina Ashcroft. Ragionamento ineccepibile. Preso sul serio, e l'attorney general è persona seria, significa che per essere totalmente sicuri che innocenti non vengano uccisi chiunque abiti il suolo americano va incarcerato. Carcerieri compresi.

Un altro argomento a favore di Ashcroft sembra essere la necessità di evitare che l'eventuale processo a bin Laden si risolva in una sceneggiata televisiva stile O.J. Simpson. Con i principi del foro a difendere il miliardario saudita, il quale non mancherebbe di glissare antipatici pettegolezzi circa i suoi passati rapporti con Casa Bianca e dintorni. Ma per questo non c'è bisogno di rivoltare dalle fondamenta l'amministrazione della giustizia in uno dei paesi più liberali del mondo. C'è un mezzo più sicuro, cui i vincitori spesso ricorrono in simili casi: uccidere il leader nemico. Nella sua grotta o sul campo di battaglia. Eventualmente aiutandolo a suicidarsi, se da solo proprio non ce la facesse.

Quando la guerra è cominciata eravamo tutti consapevoli di dover pagare un prezzo in termini di libertà. È semplicemente inevitabile, se vogliamo vincerla. Sarebbe ipocrita, oltre che pericoloso per la salute, far finta di nulla. Ma le scelte di Bush e Ashcroft esprimono rabbia, paura e una certa libidine fondamentalista. Sono volte a captare gli umori della gente più che a sconfiggere il nemico. Rischiano di essere inefficaci prima ancora che illiberali. Nell'inchiesta sull'11 settembre gli americani hanno messo le mani su 548 persone accusate di violare la legge sull'immigrazione e 104 incriminate per reati ordinari. In Italia abbiamo preso alcuni presunti associati di Al Qaeda senza scardinare le garanzie costituzionali.

È estremamente improbabile, poi, che un qualsiasi paese civile possa estradare detenuti destinati a finire davanti a un tribunale militare segreto, fors'anche su una sedia elettrica. La caccia al mediorientale conforta invece la propaganda di bin Laden sulla "jihad difensiva" contro l'aggressione antiislamica di "ebrei e crociati". Non si vede proprio che cosa l'America e l'Occidente abbiano da guadagnare da uno "scontro di civiltà" contro i musulmani – oggi un quinto dell'umanità, destinato a diventare un terzo nel 2025.

Finora gli Stati Uniti hanno fatto lezione al mondo sui "diritti umani". Senza perdere di vista i propri interessi. Brandendo anzi la suprema arma del "diritto" contro i nemici del momento. Non c'è da scandalizzarsi: ognuno usa gli strumenti che considera più efficaci. In questo caso, però, lo strumento è delicatissimo. Giacché incarna e ostenta la propria superiorità morale. Quando si istituiscono tribunali speciali in casa propria, è meno facile fare le pulci ai cinesi o a Saddam. Se il diritto obbedisce a fini strategici cessa di essere tale. E lo fa dubitare di se stesso, rendendolo più vulnerabile. Anche le armi migliori si logorano con l'uso. Evitiamo almeno di trasformarle in boomerang.

Fonte: Repubblica 30 novembre 2001