Guerra totale contro un pericolo diffuso
STATI UNITI, ECCESSO DI POTENZA
Un bilancio terribile. Circa 7000 vitime, tra morti e dispersi. Il più cruento attentato terroristico della storia, il più furioso attacco contro il territorio che gli Stati uniti abbiano subito dalla loro nascita. Eppure, l'immensa emozione che suscita questo abietto attentato non può dissimulare i legittimi interrogativi sollevati dalla risposta in corso. Se l'attuale pericolo terroristico è assai diffuso e deve essere combattutto in modo costante e quotidiano, è lecito scatenare una guerra? E contro chi? Contro gli ex "combattenti della libertà" afghani e Osama bin Laden, addestrati nelle migliori scuole della Cia? Contro i taliban, giunti al potere grazie agli Stati uniti e ai loro alleati pakistani? Contro l'Iraq, già martoriato da undici anni di embargo? Contro il mondo musulmano o contro l'islam, indicato da alcuni come il nuovo nemico? Nel 1989, il crollo del muro di Berlino offriva la possibilità di costruire un ordine internazionale più equo. La volontà degli Stati uniti di plasmarlo da soli, di definirne in modo unilaterale i contorni e le regole, gli stessi eccessi della loro potenza hanno contribuito a rendere il mondo in cui viviamo più pericoloso. Trascorso un decennio, la storia è destinata forse a ripetersi?
di Steven C. Clemons*
"Dio ha permesso ai nemici dell'America di infliggerci ciò che probabilmente ci siamo meritati". Ecco come hanno reagito agli attentati che hanno colpito gli Stati uniti l'11 settembre scorso due influenti "tele-predicatori", Jerry Falwell e Pat Robinson (1) alleati decisivi per la vittoria elettorale di George W. Bush. Falwell è arrivato a dire: "Sono stati i pagani, gli abortisti, le femministe, i gay, le lesbiche e l'Aclu (2), con i loro tentativi di secolarizzare l'America, a favorire questo evento! Lo dico puntando il dito contro di loro!" Una reazione del genere dimostra che il fanatismo non è monopolio di una particolare religione. Ma tutto ciò non intacca l'opinione generale: la maggioranza degli americani esige una pronta vendetta contro i responsabili dell'attacco terroristico, mentre solo una piccola minoranza tenta di comprenderne la cause.
Quali sono le condizioni all'origine di questa aggressione, la più grave mai perpetrata sul territorio americano dal 1812 ad oggi? Indubbiamente gli americani, accecati dal trionfalismo del dopo-guerra fredda, non hanno compreso la vera natura dei nuovi rapporti internazionali.
Il crescente divario tra l'autocompiacimento degli Stati uniti e il giudizio delle altre nazioni del mondo ha impedito a questo paese di adattarsi alla nuova realtà. Anziché smantellare, dopo la scomparsa dell'Unione sovietica, una sovrastruttura imperiale estremamente costosa e tutto sommato poco efficiente, gli Stati uniti hanno fatto di tutto per mantenere e consolidare il proprio primato.
In questo senso, gli attentati dell'11 settembre non costituiscono un evento anomalo a sé stante, ma riflettono le tensioni dovute ai mutamenti in atto nel sistema mondiale, così come all'incapacità di Washington di fare i conti con le realtà politiche e istituzionali di una nuova era. Per diversi anni, la rivalità Usa-Urss ha fatto comodo alle élites politiche e militari americane. In un mondo in cui i parametri erano chiari e i comportamenti prevedibili, gli Stati uniti hanno puntato su un sistema di sicurezza basato su armamenti e sistemi di intelligence sempre più sofisticati e costosi. Questa stessa politica è stata portata avanti dal Pentagono anche dopo la fine della guerra fredda, come dimostra il progetto di militarizzazione dello spazio contro un nemico per ora inesistente. Per diversi anni i generali americani, affiancati da una leadership politica compiacente, hanno mentito sulla natura dei rischi per giustificare il mantenimento e il finanziamento di strutture militari, basi estere e sistemi organizzativi concepiti in funzione della guerra fredda. Ma a questo punto ci si rende conto che la nuova corsa al riarmo spaziale e il progetto di difesa antibalistica non corrispondono ai reali bisogni di sicurezza del paese.
Tutte le più serie analisi sottolineano da tempo la crescente minaccia di attentati terroristici in territorio americano. Il rapporto della Commissione legislativa Hart-Rudman, pubblicato nel 1999, osserva ad esempio: "Piccoli stati o individui organizzati in gruppi mafiosi o terroristici potranno impossessarsi di tecnologia di estrema pericolosità senza alcun bisogno di forti investimenti nel campo della ricerca scientifica o industriale (...). Probabilmente verranno uccisi cittadini americani, forse anche in gran numero, sul loro stesso territorio (3)". Ma i servizi di intelligence (Cia, Fbi e Nsa), non meno del Pentagono, hanno preferito abbandonarsi alla forza d'inerzia e applicare i modelli del passato ai progetti futuri. Nel frattempo Osama bin Laden - come aveva già fatto Timothy McVeigh, l'americano di estrema destra autore dell'attentato di Oklahoma City (168 morti) nell'aprile 1995 - ha saputo sfruttare a proprio vantaggio la rivoluzione informatica.
Sia l'uno che l'altro hanno intuito che i piccoli hanno capacità di azione potenzialmente immense, amplificate dalla miopia dei grandi.
Giappone, da vassallo a creditore Ossessionate dall'idea di potenza e dominio ereditata dalla guerra fredda, le istituzioni americane hanno sviluppato la retorica dei cosiddetti "rogue states" ("stati canaglia") preconizzando scudi di difesa antibalistica. Ma perché mai i terroristi dovrebbero spendere le loro risorse in attacchi balistici quando possono trasformare, come purtroppo abbiamo visto, gli aerei di linea in efficacissimi strumenti di terrore? I fatti sembrano dimostrare l'inadeguatezza delle costose e vistose sovrastrutture statunitensi davanti alle nuove sfide mondiali, e la loro vulnerabilità alle nuove forme della competizione politica. Ecco perché il Pentagono si rivela incapace di gestire conflitti asimmetrici (si legga l'articolo alle pagine 8 e 9) come quello che abbiamo visto esplodere in questi giorni.
Di fatto, i primi segnali di questa inadeguatezza si sono manifestati assai prima della fine della guerra fredda e della dissoluzione dell'Unione sovietica, nel 1991. Fin dai tempi della presidenza di Ronald Reagan, l'escalation dei costi per il mantenimento dell'apparato militare globale generavano un crescente disagio economico e politico. Non si trattava soltanto delle ingenti somme spese per gli armamenti e per le truppe. Ancora maggiore era il costo dei privilegi in materia di termini di scambio offerti dall'America ai suoi alleati in Asia.
Per quanto riguarda in particolare il Giappone, fin dall'inizio l'alleanza nippo-americana era fondata su un accordo non certo fedele ai principi dell'economia di mercato, che garantiva a Tokyo un accesso preferenziale e senza ostacoli ai mercati americani, in cambio dell'autorizzazione a dispiegare truppe americane sul territorio giapponese: un accordo dettato dai motivi di sicurezza di un impero preoccupato soprattutto dal rischio di incursioni sovietiche. Il Giappone si era assoggettato a questo vassallaggio, divenendo, secondo l'espressione del saggista Chalmers Johnson, "uno stato satellite dell'America nell'Asia Orientale".
Fin dall'epoca degli accordi cosiddetti del Plaza (4), nel settembre 1985, gli Stati uniti erano passati al primo posto tra i paesi debitori, mentre il Giappone era in testa ai creditori. In seguito a pressioni politiche, l'amministrazione Reagan orchestrò allora una massiccia manipolazione dei tassi di cambio, svalutando fortemente il dollaro (del 50% circa rispetto allo yen) per rilanciare l'economia americana in fase di rallentamento. Ma questo intervento determinò nuovi e profondi squilibri, provocando negli Stati uniti un'ondata di piena di investimenti finanziati dai fondi giapponesi, il cui valore era raddoppiato repentinamente. In altri termini, in nome della lotta contro l'impero sovietico, ossessione dell'amministrazione Reagan, Washington ha compiuto scelte politiche che hanno portato a una massiccia vendita di titoli americani, nonché a una cessione della propria sovranità debitoria, a vantaggio di uno stato satellite che dal canto suo ha visto formarsi un'immensa bolla finanziaria.
Quando si è constatato che il valore del terreno sul quale sorge il palazzo imperiale di Tokyo aveva superato quello dell'intero stato della California, è apparso chiaro che qualcosa non andava nel funzionamento dei mercati. L'evento del settembre 1985 è stato il primo shock, che ha dimostrato che il prezzo del mantenimento dell'impero americano era diventato economicamente e politicamente insostenibile.
L'analisi della crisi finanziaria del 1997-1998 comporta considerazioni analoghe. Durante la guerra fredda, l'Unione sovietica e gli Stati uniti avevano costretto il mondo a schierarsi dall'una o dall'altra parte. Su entrambi i fronti si erano costituiti sistemi di scambio e alleanze militari, e si era sviluppata una diplomazia volta a preservare le rispettive sfere d'influenza. Dopo il crollo dell'Unione sovietica, per le nazioni incluse nell'impero americano il rapporto costi-benefici ha subito un drastico mutamento. Una volta eliminato il rivale strategico, gli Stati uniti, sempre meno disposti a sostenere da soli i costi del loro impero, hanno rimesso in discussione il sistema economico che essi stessi avevano costruito nel dopoguerra. Negli anni '90 hanno imposto agli stati dell'Asia orientale una deregulation generalizzata dei loro mercati finanziari; e hanno costretto questi paesi, con la mediazione del Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e delle altre istituzioni di Bretton Woods, ad adottare il modello economico neo-liberista voluto dal capitale americano come contropartita per i suoi investimenti.
Questa strategia, e non il "capitalismo di connivenza" o un "malgoverno", come spesso si è sentito dire, è stata la causa fondamentale della grave crisi asiatica del 1997 (5). Il conseguente tracollo ha gettato nella povertà buona parte del ceto medio, mentre gli investitori occidentali ne sono usciti indenni. Questo "laissez-faire" degli Stati uniti nei riguardi di ex alleati come i sud-coreani o i thailandesi sarebbe stato inconcepibile ai tempi della guerra fredda, perché l'Unione sovietica non avrebbe mancato di trarne vantaggio.
Sul piano militare, la più chiara dimostrazione del rifiuto o dell'incapacità di avviare una transizione verso un qualcosa che non fosse una gestione imperiale è data dalla decisione del 1991 di schierare mezzo milione di soldati in Arabia Saudita. Secondo la storia ufficiale della Terza Armata americana, "il regno dell'Arabia Saudita aveva chiesto agli Stati uniti un'assistenza immediata contro la minaccia di missili balistici [iracheni]. E l'esercito americano ha risposto immediatamente all'appello distaccando, nell'ottobre 1991, due battaglioni di artiglieria Patriot dislocati in Europa, e una brigata proveniente dal quartier generale". Si trattava complessivamente di 7000 uomini, che avrebbero dovuto essere stazionati in Arabia Saudita in misura temporanea, ma che ormai, a dieci anni di distanza, possono considerarsi permanenti.
Una presenza frustrante, soprattutto per i settori della popolazione più sensibili alle questioni della sovranità nazionale o della purezza religiosa e culturale dell'islam. I pianificatori americani avrebbero dovuto rendersi conto che, al di là di un certo periodo di permanenza, la funzione inizialmente stabilizzante delle loro truppe avrebbe finito per avere effetti opposti, trasformandosi in uno dei principali fattori di instabilità. Come è avvenuto d'altronde a Okinawa (Giappone), dove la presenza di una quarantina di basi americane ha provocato tra la popolazione locale una forte reazione di rigetto, favorendo posizioni estremiste.
Se gli interessi degli Stati uniti nei Balcani e il dispiegamento di circa 3000 uomini in Bosnia hanno suscitato da tempo un dibattito incessante, sulla questione delle forze americane di stanza in Arabia Saudita il silenzio è totale. Gli strateghi americani farebbero bene a interrogarsi sulle eventuali differenze tra l'Iran pre-rivoluzionario e l'Arabia Saudita di oggi, e sul rischio che la presenza militare statunitense pregiudichi la legittimità dei dirigenti agli occhi della popolazione del paese e inasprisca l'ostilità degli islamisti nei confronti di Washington. Ma questi interrogativi vengono elusi in nome dell'idea dominante che sostiene la funzione stabilizzante delle truppe americane, a protezione della regione nei confronti della minaccia irachena.
Recentemente, in occasione di un incontro privato, l'ex sottosegretario di stato Strobe Talbott ha definito sorprendente la "radicalizzazione politica" di buona parte della popolazione dell'ex impero sovietico, mortificata nella sua identità e nella sua cultura; ma poi, interrogato sui problemi suscitati in Giappone e in Arabia Saudita dalla presenza militare americana, ha insistito sui suoi "effetti stabilizzanti".
Esiste evidentemente un tabù su questo tema, dovuto probabilmente al fatto che una volta dispiegati i loro avamposti militari all'estero, gli Stati uniti sembrano avere grandi difficoltà a deciderne il ritiro.
George Bush e il realismo armato Al di là del suo status di paria internazionale, anche Osama bin Laden va inserito in questo contesto. Per quanto si possa essere accecati dalla collera o convinti della totale illegittimità dei suoi giudizi, bisogna riconoscere che il suo punto di vista è molto vicino a quello di buona parte delle élite solidamente insediate in paesi come l'Arabia Saudita, gli Emirati arabi uniti, il Kuwait e l'Oman, che figurano tra gli stati protetti dagli Stati uniti.
Le parole di Osama bin Laden sono citate tra l'altro nel libro di Peter Bergen che uscirà prossimamente per i tipi della Free Press di New York con il titolo Holy War Inc. (Guerra Santa spa): "La boria degli Stati uniti è in aumento dopo il crollo dell'Unione sovietica: hanno incominciato a ritenersi i padroni del mondo e si apprestano a stabilire quello che chiamano il "nuovo ordine mondiale" (...).
L'America di oggi usa due pesi e due misure, trattando da terrorista chiunque si opponga alla sua prepotenza. Vuole occupare i nostri paesi, rubarci le nostre risorse, far governare i nostri popoli dai suoi agenti (...), e pretenderebbe anche che ci dichiarassimo d'accordo con tutto questo". Certo, sono parole di un terrorista; ma il risentimento che esprimono per i comportamenti spesso unilaterali e arroganti degli Stati uniti, sul piano economico come su quello militare, è largamente condiviso.
Un risentimento che sarebbe stato forse minore se William Clinton avesse potuto attuare il nuovo corso in politica estera che aveva progettato all'inizio del suo mandato. Clinton aveva tentato di dare un carattere prioritario agli interessi economici, tanto da equipararli a quelli classici della sicurezza. Ma doveva fare i conti con un Pentagono esaltato dalla vittoria nella guerra del Golfo e sempre più lontano dalla sensibilità della grande maggioranza degli americani.
Al Vertice economico del novembre 1992 a Little Rock (Arkansas), Clinton sottolineò l'esigenza di collegare le nazioni del mondo in una rete di interdipendenza economica, e tentò di emarginare le élite militari; ma il Pentagono finì per riprendere il sopravvento contro un presidente impelagato nei suoi scandali personali (6).
Il suo successore George W. Bush si è affrettato a insediare un'amministrazione pronta ad affrontare un conflitto, nominando i responsabili della sicurezza in tempi brevissimi e lasciando alla testa della Cia e dell'Fbi due uomini che negli anni precedenti avevano svolto un ruolo chiave nella lotta contro il terrorismo. Nell'ottobre 2000, il direttore dell'Fbi Louis Freeh era stato incaricato di dare la caccia ai responsabili dell'attacco terroristico contro la nave da guerra Uss Cole nello Yemen, mentre il direttore della Cia George Tenet aveva intensificato l'attività contro i vari gruppi, formali e informali, che minacciavano i negoziati di pace in Medioriente. In quel periodo, a Washington si temeva che alcuni paesi della regione - l'Iraq e forse l'Iran e la Libia - dessero fuoco alle polveri del conflitto israelo-palestinese, con il rischio di arrivare all'uso di armi di distruzione di massa.
Bush e i suoi sostenitori sapevano bene di non poter sperare in una consistente base elettorale puntando esclusivamente sulla politica interna, e hanno quindi deciso di tentare il salto qualitativo ponendo l'accento sulla politica estera; ma questo terreno si è rivelato scivoloso per George W. Bush. In contrasto con il "realismo" di Richard Nixon e Henry Kissinger, in un'epoca che si credeva foriera di un declino americano, Bush si considera "realista" in un momento di ascesa senza precedenti della potenza statunitense. Ovviamente, non poteva aspettarsi, né si augurava certo un attacco tragico ed efferato come quello che ha colpito Manhattan e Washington; ma l'attentato dell'11 settembre gli fornisce un insperato pretesto per rimobilitare l'apparato militare, fugare le ombre che ancora gravano sul periodo della presidenza di suo padre e cancellare il ricordo di un'elezione presidenziale fortemente contestata. Bush tra l'altro ritiene - come ha dimostrato nell'aprile 2001, quando un aereo spia americano EP3 si è scontrato con un caccia cinese - che il confronto militare potrebbe servire, almeno apparentemente, a blindare la sua presidenza.
Giustizia infinita o caccia infinita?
Ma quando Bush e i suoi dichiarano di voler condurre una guerra contro altre nazioni mostrano di non aver compreso la natura delle minacce del XXI secolo. Gli Stati uniti hanno chiesto a tutti i paesi del mondo di schierarsi "con noi o contro di noi", come se si potesse tracciare una netta linea di demarcazione. Il Congresso ha conferito a Bush l'autorità e i finanziamenti necessari per rafforzare la sovrastruttura militare e di intelligence. E vi saranno restrizioni alle libertà civili negli Stati uniti. In breve, Bush ci costringerà a cambiar vita per dare la caccia a un nemico introvabile.
Se Osama bin Laden ha orchestrato questi disastri, deve essere ovviamente perseguito, così come i suoi collaboratori e protettori. Ma dovremmo concentrare le nostre energie soprattutto sui fattori che sottendono questo conflitto. La guerra fredda fa ormai parte del passato; e fintanto che l'America non ne prenderà atto, dovrà pagare costi sempre più alti.
Nelle sue argomentazioni sulla natura delle rivoluzioni scientifiche, Thomas Kuhn (7) sottolinea che l'innovazione, lungi dall'essere un processo progressivo, è invece determinata dal venir meno di un paradigma che fino a quel momento veniva protetto, giustificato e razionalizzato.
Gli Stati uniti potrebbero trovarsi di fronte a un tracollo di questo tipo, se continuassero ad ostentare il loro dominio sull'ordine mondiale.
Se davvero l'America di oggi volesse dar corso a una "giustizia infinita", dovrebbe prestare maggiore ascolto alle organizzazioni non governative e ai paesi del mondo che chiedono a gran voce gesti di solidarietà, non interventi ideologici e azioni di guerra.
note:
*Vicepresidente della New America Foundation, Washington D.C.
(1) Falwell e Robertson, dirigenti dell'ala fondamentalista della destra americana, hanno avuto un ruolo determinante nella vittoria di Bush su John McCain alle primarie del partito repubblicano. Falwell ha presentato le sue scuse il 18 settembre, dopo aver subito forti pressioni da parte della Casa Bianca.
(2) American Civil Liberties Union, associazione progressista di difesa dei diritti civili e della libertà d'espressione.
(3) "New World Coming - American Security in the 21st Century". Pubblicazioni del Congresso, Washington DC 1999.
(4) Lo scopo degli Accordi era la liberalizzazione del sistema finanziario giapponese e la rivalutazione dello yen. La riunione ebbe luogo all'hotel Plaza di New York.
(5) Si veda "La Mondialisation contre l'Asie", Manière de voir, N° 47, settembre-ottobre 1999.
(6) Philip S. Golub, "La nuova strategia imperiale degli Stati uniti", Le Monde diplomatique/il manifesto, luglio 2001.
(7) La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, 1976.
(Traduzione di E. H.)
Fonte: Monde Diplomatique 10/2001